Un secolo di equivoci

Sembra un secolo… ed è proprio un secolo! Il PCI, nato nel 1921 scompare nel 1989. Per oltre sessant’anni ha rappresentato per la grande maggioranza del proletariato italiano il vero partito della classe. Analizziamo in altri articoli la sua storia e le cause del suo tramonto, ulteriori dimostrazioni degli equivoci che hanno caratterizzato quel mito, alimentato da credenze fideistiche e dal faro dell’Unione Sovietica. Qui è interessante chiarire, invece, gli equivoci che stanno alla base della sua fondazione, i peccati originari che ne hanno costituito le gracili fondamenta.

La frattura

La scissione di Livorno del gennaio 1921 avviene al termine del XVII Congresso del Partito Socialista Italiano svoltosi al Teatro Goldoni di quella città tra il 15 ed il 21 gennaio. Il Partito poteva vantare un recente passato che lo differenziava dagli altri partiti allora aderenti alla Seconda Internazionale. I cosiddetti partiti “socialpatriotti” appoggiarono l’entrata delle reciproche nazioni nell’arengo della prima guerra mondiale: i tedeschi votarono a favore dei crediti di guerra; i francesi, privati da un attentato mortale del loro leader pacifista Jean Jaurès, appoggiarono la guerra contro i tedeschi (d’altronde il giovane militante socialista che aveva ucciso Jaurès proprio questo voleva ottenere). Il partito Socialista Italiano non si schierò per l’entrata in guerra (provocando il distacco dell’allora Direttore dell’“Avanti!” Benito Mussolini), pur con l’ambigua
formula “né aderire, né sabotare”, che lo rese alleato di Giovanni Giolitti. Successivamente partecipò alle conferenze socialpacifiste di Zimmerwald e di Kienthal, dove era presente il Partito Socialista Bolscevico Russo e Lenin e Troschi stessi.
All’avvio del Congresso di Livorno la situazione del partito era ancora una volta anomala: nel XVI Congresso tenuto a Bologna tra il 5 e l’8 ottobre del 1919 il Partito aveva aderito alla Terza Internazionale. Il Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista del 1920, però, aveva fissato i famosi 21 punti che i partiti aderenti avrebbero dovuto rispettare; tra di essi c’era anche quello che intimava  l’allontanamento dal partito degli elementi riformisti e questo fu la pietra dello scandalo. Nel Partito, al momento, convivevano tre correnti: quella comunista (che analizzeremo più sotto), fautrice di un’applicazione ferrea dei 21 punti e che chiedeva l’espulsione dei riformisti, supportati dall’internazionalista bulgaro Christo Kabakčiev; quella riformista
(Filippo Turati, Claudio Treves, Ludovico D’Aragona), l’ala storica dei fondatori legati al sindacato e componente maggioritaria fino allo scoppio della guerra; quella  massimalista (Giacinto Menotti Serrati) o “unitaria” uscita maggioritaria al congresso precedente, appoggiata dai “rivoluzionati intransigenti” di Costantino Lazzari. Questi ultimi, pur aderendo a tutte le altre tesi dell’Internazionale, non intendevano espellere i riformisti, temendo lo scollamento delle masse sindacalizzate nella CGdL guidata da D’Aragona.
Lenin, pur apprezzando l’insediamento sociale del PSI, credeva che Menotti Serrati avrebbe ceduto, ma si sbagliava e così la componente comunista abbandonò il congresso, ed il 21 (per l’appunto) gennaio si riunirono al Teatro San Carlo di Livorno, fondarono il Partito Comunista d’Italia e vi tennero il Primo Congresso.

La composizione

Nel nuovo partito confluiscono due gruppi alquanto eterogenei. L’aggregato più consistente, che si riconosce nella linea politica sostenuta da Amedea Bordiga che diventerà il primo segretario e che pubblica la rivista “Soviet”, è presente da gran tempo dentro il PSI. L’altra con base a Torino ha come suo esponente di spicco Antonio Gramsci, ha come suo organo di stampa “L’Ordine Nuovo” ed è sostanzialmente un aggregato di giovani intellettuali. I bordighisti sono astensionisti, gli ordinovisti no.. Le differenze sono però più profonde.
Convergono sull’esigenza di espellere dal partito socialista l’ala riformista, ma mentre per Bordiga ciò risponde ad una concezione ben precisa della funzione del partito, per Gramsci ed i suoi si tratta di pura e semplice adesione ai dettami della Terza Internazionale. La visione del partito bordighista coincide con quella di Lenin,
un gruppo compatto di militanti coeso, disciplinato e selezionato; ma Lenin è pure un grande tattico ed ha ben preciso il concetto di alleanza tattica (a lungo i bolscevichi hanno condiviso il potere con i socialisti rivoluzionari di sinistra, ed inizialmente anche con gli anarchici), mentre Bordiga è un dottrinario che non concepisce alcun tipo di alleanze; Bombacci, uno dei fondatori del Pcd’I, poi passato al fascismo, fece correre
la voce che Lenin invitasse a guardare all’impresa fiumana di D’Annunzio, in cui erano presenti alcuni sindacalisti rivoluzionari come Alceste De Ambris, e vedesse di buon occhio un’alleanza col poeta soldato. Del resto anche Malatesta vi guardo con attenzione.
L’esperienza ordinovista contava sulla collaborazione di altre sensibilità rivoluzionarie ed era quindi aperta alle alleanze. Ma ancora più dirimente era la concezione relativa al movimento operaio. Gramsci, Togliatti e Terracini, giunti al congresso di Livorno con alle spalle l’esperienza dei Consigli di Fabbrica e dell’occupazione delle fabbriche, esperienza che ne qualificava agli occhi dei congressisti la capacità rivoluzionaria, avevano sposato l’idea del sindacato dei consigli. Per la verità l’elaborazione della teoria sindacale basata sui Consigli di Fabbrica non era farina del loro sacco, ma era frutto del lavoro teorico di ripensamento sui fatti del “biennio rosso” operata dagli anarchici Maurizio Garino e Pietro Ferrero, entrambi operai, entrambi membri delle FIOM torinese (di cui Ferrero era segretario, ucciso poi dai fascisti), entrambi
collaboratori de L’ordine Nuovo.
L’ala astensionista vedeva invece nei Consigli di Fabbrica un puro strumento rivendicativo settoriale, non certo come la futura base di una società comunista; Bordiga, convinto che dovesse essere il partito a prendere il potere politico (sulla base dell’esperienza russa), vedeva possibile partecipare alle elezioni solo successivamente a tale evento e quindi solo allora i proletari potevano darsi una propria struttura politicoamministrativa nei “Soviet” eletti solo dai lavoratori; nella sua visione i Consigli di fabbrica erano legati al proprio posto di lavoro e quindi tendenzialmente corporativi, mentre i Soviet, rappresentativi del territorio, erano gli organismi su cui puntare per la gestione della società postrivoluzionaria, una posizione già messa in atto dai bolscevichi nella primavera del 1918; nella sua visione tutta politica del processo rivoluzionario perdeva di vista la necessaria adesione dell’amministrazione sociale al tessuto produttivo e dimenticava che l’atto rivoluzionario vincente doveva mutare marxisticamente l’assetto di potere dalla gestione politica all’amministrazione delle cose, ovverosia la fine della politica e la preminenza dell’economia.

Le conseguenze

Visto quanto sopra non stupisce che nel lungo intervento tenuto da Bordiga al XVII Congresso non ci sia alcun accenno di un’analisi della stratificazione di classe in Italia; la sua concentrazione è rivolta solo alla struttura del partito rivoluzionario, necessario nel momento in cui la rivoluzione appare in marcia internazionalmente ed anche nel paese. Una tale analisi viene invece tentata da Umberto Terracini, che con l’occhio rivolto ai risultati elettorali del 1919 (Partito Socialista Italiano 32,28%, Partito Popolare 20,53%), intravede un futuro legato ad una loro alleanza, alleanza cui i socialisti unitari o massimalisti di Menotti Serrati erano radicalmente contrari, in quanto anticlericali; la base di tale alleanza si basava sulla convinzione che i contadini italiani, fossero tendenzialmente cattolici e conservatori e trovavano la propria legittima rappresentanza nel partito di Don Sturzo; dimenticava i movimenti radicali delle occupazione delle terre nel meridione, la predicazione socialista di Camillo Prampolini nella pianura padana, il movimento cooperativo di sinistra e tanto altro. D’altronde L’Ordine Nuovo da tempo propugnava un accordo con le masse cattoliche legittimate nel proprio credo, ma addirittura aveva ospitato degli articoli di Cesare Swassaro, membro della
redazione, in cui l’autore non solo prospettava un accordo con la Chiesa, ma si spingeva a giustificare il potere temporale dei Papi.
Bordiga divenne, come detto, il primo segretario del PCd’I, ma non passò la sua linea astensionista e alle elezioni del 1921 il nuovo partito ottenne un misero 4,61%. Le ripercussioni della scissione furono però più gravi. Da una parte il rigore rivoluzionario e autoreferenziale dei bordighisti portò il partito verso l’isolamento, mentre la ricerca del possibile connubio con i cattolici, cercato dagli ordinovisti, apriva il futuro ai peggiori
compromessi, caratterizzando la nuova frazione come l’ala destra dei massimalisti. Nel frattempo, il Partito Socialista ricadeva nelle mani dei riformisti, preparandosi all’esperienza aventiniana e all’impotenza verso la marea montante del fascismo. Lenin aveva sbagliato i suoi calcoli, ma gli italiani pagarono le conseguenze del suo errore.

Saverio Craparo