Abitare: le città dopo il Covid 19

La persistenza della pandemia, scatenata dal Covid 19, ha svuotato le città non solo di lavoratori pendolari (causa il lavoro a distanza), ma anche a causa della chiusura di spettacoli, mostre, eventi e quant’altro la rendevano un luogo di socializzazione e di attività finalizzate a definire la “qualità della vita”. Chiudono i bar, i locali di incontro, serali e notturni, chiudono i ristoranti e la vita sociale, caratterizzata di incontri, diviene rarefatta ed episodica. Certo non è un fenomeno assoluto e radicale, ma una tendenza che con il passare del tempo e la persistenza della pandemia e della possibilità di contagio cresce. Questa nuova e inedita situazione induce a numerose riflessioni e conseguenze.
La città costituiva nella situazione pre Covid il principale luogo di investimento, il motore dello sviluppo dell’edilizia, sia residenziale che commerciale, in quanto nei suoi centri direzionali si concentravano gli investimenti spesso concentrandosi in immobili sempre più alti e dalle architetture ardite che ospitavao le attività economiche. Anzi l’architettura innovativa e dallo stile originale e ardito delle costruzioni sintetizzava simbolicamente la sempre maggiore tecnologia, la portata avveniristica della costruzione e insieme il valore degli investimenti. La localizzazione degli uffici di una società o la sede di uno studio professionale ben collocato, costituiva un biglietto da visita indispensabile per ambire al successo. Da qui scaturiva un mercato vivace dell’utilizzazione dei suoli e dello spazio, per cui le nuove costruzioni spesso divoravano quelle preesistenti. Tanto più forte era il ricambio tra il vecchio e il nuovo, tanto più emergeva una testimonianza di successo e prendeva corpo un’aspettativa di crescita.
Ne erano i soli centri direzionali a subire questo processo perché le speculazioni immobiliari a scopo abitativo si divoravano le ultime zone verdi, quando non le aree dismesse di precedenti strutture industriali ora obsolete o decentrate verso la periferia o addirittura de-ocalizzate verso altri paesi nei quali utilizzare manodopera a più basso costo, liberamente inquinare e speculare, Da qui lo sventramento di vecchi immobili, la
loro ristrutturazione e trasformazione in micro unità abitative di alta rendita immobiliare o la trasformazione di intere arie in compaud esclusivi dai quali tener lontani gli abitanti di più basso ceto e di minori disponibilità economiche. Tutto finito !

La crisi delle città

Ora la paura del contagio ha allontanato imprenditori e dirigenti e i loro sottoposti da questi luoghi. Gli uffici si sono svuotati e si è scoperto – obtorto collo – che molte attività potevano efficacemente essere svolte da remoto, senza che ne soffrisse la produttività, ma che anzi si potevano mettere in atto risparmi e sinergie, evitando molti problemi collaterali connessi al precedente modello di vita. Il lavoro da remoto, da casa, abbassa
i costi in quanto rende inutile la messa a disposizione della struttura di ufficio, del luogo fisico di lavoro e trasferisce il costo della tecnologia e degli impianti sul lavoratore, che deve procurarsi l’energia necessaria, quanto non le attrezzature egli spazi che gli occorrono per produrre. Ne guadagnerà in cambio l’assenza di spostamento dalla propria abitazione, con conseguente risparmio non solo delle spese di trasporto, ma del
tempo vita prima dedicato agli spostamenti. Questa circostanza può apparire a prima vista un guadagno per il prestatore d’opera che tuttavia solleva l’azienda dei costi della logistica, e di molte voci di spesa relative agli impianti di produzione, con un conseguente abbattimento dei costi fissi.
Ma c’è di più la destrutturazione dell’orario di lavoro induce a una maggiore produttività potenziale, mette il lavoratore a disposizione di fatto per un tempo indefinito, accentua la vendita della forza lavoro costituita dalla messa a disposizione del proprio tempo vita, dando la sensazione di una maggiore “libertà”. Le statistiche sul lavoro a distanza dimostrano che con una tale organizzazione del lavoro la produttività non è diminuita, ma in molti casi aumentata per qualità e quantità.
Ma da questa nuova situazione certamente non generalizzata ma crescente, quanto più persiste e cresce la possibilità di contagio derivano altre pesanti conseguenze. Entra in profonda crisi l’indotto, costituito da mense e servizi, ristorazione e bar, con conseguente chiusura delle attività commerciali; cala il consumo di abbigliamento, restando nell’abitazione; diminuisce l’inquinamento perché calano gli spostamenti per motivi di lavoro e nel contempo cresce il costo dei consumi domestici, perché la spesa per energia, gas e luce connessa alla produzione si è trasferita sulla famiglia. La donna ritorna alle sue funzioni domestiche e vengono cancellati, anche se parzialmente, quei servizi di aiuto perché divenuti a volte impraticabili. L’eliminazione ad esempi al
servizio di mensa riporta le donne in cucina. Il pericolo di contagio lascia i figli a casa.

La fuga dalle città

Ma c’è di più. La necessità di isolamento. la quarantena, ha fatto scoprire a molti le cosiddette seconde case. Non si è trattato solo delle “case delle vacanze” spesso scelte per trascorrere in un isolamento vacanziero (come quello boccaccesco del Decamerone) il primo più intenso periodo di quarantena. In molti casi c’è stata la
riscoperta delle case “avite”, quelle lasciate nei borghi di provenienza prima dell’inurbazione e che ora si riscoprono come isole felici, nelle quali il costo della vita è minore, i ritmi di vita non sono frenetici, lo spazio è spesso maggiore, il costo di gestione della vita domestica più contenuto. Tutto dipende da una buona
connessione: se c’è, la distanza dalla città non pesa; la vita del borgo è più serena, non congestionata, la disponibilità di prodotti naturali a minor costo c’è, l’economia di scala è possibile, a fronte di una vita sociale di città impraticabile che non offre più la socialità ambita.
Trova così un spiegazione la scelta conseguente del recovery plain relativa alla costruzione delle reti con al primo posto il cablaggio prioritario dei borghi dell’Appennino e dei centri periferici Ma questo non basta perché potrebbe derivarne un piano necessario di messa in sicurezza idrogeologica di molte aree divenute di nuovo potenzialmente abitative (e sarebbe ora) e la politica del bomus casa per il recupero abitativo del patrimonio edilizio dismesso, per il recupero energetico e di stabilità si presenta conveniente e abbatte i costi Complessivi. Del resto questo è il solo rimedio possibile a favore dell’edilizia, visto il calo di affitti per uffici e attività commerciali a causa della cessazione di attività e l’inizio di una, per ora contenuta, migrazione della
popolazione verso i piccoli centri che stà mettendo in crisi il mercato delle nuove costruzioni alla periferia delle città

Gestire il futuro

Le città vanno senza dubbio ripensate, ma non possiamo fare solo da spettatori di un processo inevitabile che ci travolgerà, tanto più che la trasformazione sarà lenta, ricca di contraddizioni e produttrice di diseguaglianza sociale. Se è vero che si svuoteranno i centri direzionali (e sta già avvenendo), producendo desertificazione e crollo del mercato immobiliare, crisi delle banche che tale patrimonio possiedono
copiosamente, crisi dell’edilizia, non altrettanto veloce sarà probabilmente lo svuotamento delle abitazioni. I quartieri periferici saranno sempre più degradati per la diminuzione delle risorse, con conseguente perdita dei servizi non più supportati dallo sviluppo urbano; in queste aree si concentrerà la parte più povera della popolazione, in una situazione di crescente degrado abitativo e sociale. È proprio qui che dobbiamo concentrare l’azione di classe creando strutture territoriali intorno ai luoghi sensibili come le scuole, i centri di medicina territoriale, le strutture per anziani, il verde pubblico e quant’altro concorre a garantire la qualità della vita.
Dobbiamo essere consapevoli che il processo di disseminazione territoriale riguarderà i ceti e le classi medio alte ma lascerà fuori le fasce più deboli, sempre più proprietarie della loro miseria. Proprio dal territorio potrà venire invece quella ricomposizione di classe ormai sempre più difficile sul luogo di lavoro per la scomparsa dei luoghi di concentrazione della forza lavoro, dei luoghi di incontro e di socialità, per le condizioni
salariali sempre più differenziate e inique. Del resto mentre il capitale tende da sempre a disaggregare per poi distruggere e ricostruire, speculandoci, i movimenti di classe non possono che rispondere creando aggregazione producendo una risposta alternativa che recupera la socialità e la solidarietà di classe.