La cammellona tentennante, ha provato disperatamente di far approvare l’accordo raggiunto con l’Unione Europea per la fuoriuscita della Gran Bretagna, ma le sue speranze si sono infrante su problemi francamente di soluzione estremamente difficile. Ad una ottusa indecisa è succeduto un ottuso testardo, convinto di raggiungere i propri obiettivi a qualunque costo, incurante delle regole, disposto a calpestare chiunque.
In politica si agisce valutando il contesto, pesando i problemi, dimensionando le mete con la situazione, comprendendo le forze in campo, correndo rischi calcolati, non perseguendo uno scopo costi quel che costi, nei secoli fedele.
Se trova un Parlamento riottoso, lo chiude. Se l’Unione Europea fa sapere che il compromesso a suo tempo raggiunto non può essere rivisto, lui asserisce di poter ottenere un nuovo accordo senza specificare i termini che intende proporre. Se le due Irlande (una dentro l’UE e l’altra fuori di essa) non sanno come risolvere il problema di una rinnovata frontiera, fonte solo di guai e difficoltà economiche, lui va a Dublino ed
in assenza di proposte non ottiene alcunché. Se l’opposizione vota una legge che lo imbriglia a trattare con l’Unione pena il rinvio della Brexit, lui afferma che non la rispetterà. Non è un semplice “brexiter”, è un cavallo con i paraocchi che corre all’impazzata cercando di sfondare gli ostacoli.
I sondaggi sembrano dargli ragione e questo lo spinge a tentare la carta delle elezioni anticipate, una strada che già tentò con pessimi risultati Theresa May. È vero, partito con una maggioranza risicata (1 voto, nonostante l’appoggio degli unionisti irlandesi), ora l’ha persa grazie alla sua pratica spacca montagne.
L’ambiguità del laburista Corbyn lo sta premiando, rendendo al Labour poco conveniente il ricorso alle urne obiettivo rincorso come salvifico per un biennio. Lui però deve fare molta attenzione: è nato un nuovo partito pro Brexit a qualsiasi costo, guidato dall’ineffabile Farage (la cui sopravvivenza politica ai propri errori non è certo un titolo di merito per l’elettorato britannico), a cui il nostro soggetto deve riprendere i voti radicalizzandosi, ma questa guerra intestina si consuma in una fetta di elettori che al momento non paiono maggioritari. I due schieramenti non sembrano, inoltre, in grado di poter fare un accordo postelettorale, mentre sono in grande crescita i liberaldemocratici, schierati apertamente per il “remain”. I laburisti, basculanti tra un timido remain ed un ancor più timido “leave”, rischiano di essere sorpassati dai libdem e ben difficilmente
potrebbero accordarsi con il nostro borioso personaggio, il quale potrebbe, sì, vincere le elezioni, per trovarsi poi nell’impossibilità di formare un governo, costringendo le altre forze a coalizzarsi per ridare la parola al popolo per un nuovo referendum.
Se queste sono le difficoltà politiche che il Primo Ministro deve affrontare, cosa può accadere al momento dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea? Ovviamente il problema non è quello di lasciare l’UE; quello, accordo o non accordo, può sicuramente avvenire. Ma quali problemi possano poi presentarsi non preoccupano i brexiter, che come gattini ciechi vagano nelle proprie presunzioni isolazioniste, ignorando, o fingendo di farlo le incognite del dopo.
Prima di tutto l’economia. Da gran tempo ormai la Gran Bretagna non è più un colosso industriale, per cui anche i recenti incrementi inattesi del PIL sono un segnale trascurabile. Londra, e quindi tutta la nazione, è stata fin a pochi anni fa (per l’appunto tre) uno dei grandi centri mondiali della finanza; se le grandi compagnie finanziarie, le centrali delle più importanti banche del continente, le sedi dei giganti industriali che vi pagano le tasse, i colossi del web abbandonano progressivamente, come sta avvenendo, la capitale britannica i contraccolpi per l’economia possono essere devastanti. La reazione è a catena; diminuzione delle entrate fiscali, calo delle attività e dell’occupazione e successivo riverbero sui servizi, ritorno ai propri paesi d’origine della grande massa dei recenti immigrati per lo più impegnati nella ristorazione, crisi del mercato immobiliare. Il declino di Londra si porta inevitabilmente dietro tutto il Regno.
C’è poi il pantano irlandese, la cui soluzione appare un vero rompicapo. La comune appartenenza dell’Irlanda del Nord (Regno Unito) e della Repubblica Irlandese all’Unione Europea e la conseguente scomparsa del confine aveva prodotto effetti positivi: l’intensificarsi degli scambi commerciali in primis, con la nascita di una fiorente economia di scambio; l’attenuazione del conflitto inter-religioso tra gli unionisti anglicani
e i cattolici, che nello spazio più largo che si era creato avvertivano meno l’oppressione della maggioranza. Il ricostituirsi di una qualsiasi forma di barriera doganale danneggerebbe l’economia delle zone limitrofe e potrebbe, e già se ne vedono le avvisaglie, riaccendere il contrasto tra gruppi religiosi diversi, che si era quasi del tutto spento. D’altronde se nessuna barriera doganale tra le due parti dell’Irlanda dovesse essere interposta si verrebbe a creare una situazione anomala e non controllabile, per la quale da un lato le merci potrebbero circolare liberamente, mentre altrove questa libera circolazione non sarebbe possibile, a meno che, ma del tutto irragionevolmente, la Gran Bretagna non restasse nell’unione doganale. Un vero puzzle di difficile risoluzione e sul quale si sono infranti tutti i tentativi della May. A tutto ciò si deve aggiungere che l’Irlanda del Nord ha visto nel referendum del 2016 una netta prevalenza dei voti a favore del permanere nell’Unione Europea, dove sono allineati alla fuoriuscita solo gli unionisti tradizionali, che hanno fino ad ora costituito la stampella del partito conservatore; quali effetti possano prodursi per la Brexit in quell’angolo del Regno Unito, sono tutti da scoprire. Ma nel panorama geopolitico dell’isola britannica c’è una bomba ad orologeria dai danni incalcolabili. Già alcuni anni fa la Scozia ha votato un referendum sul distacco dal Regno Unito, dove ha prevalso 45% contro 55% l’idea contraria all’indipendenza della Scozia. Nel 2016 il 62% degli elettori ha votato per il “remain” e sull’onda di questo risultato in controtendenza con quello nazionale il governo scozzese si è sentito autorizzato a chiedere un nuovo referendum per la propria indipendenza. Il risultato è incerto perché nel 2014 ha votato circa il 90% degli aventi diritto, mentre nel 2016 soltanto il 65% circa, ma se il progetto scozzese della separazione dovesse andare in porto l’Inghilterra si vedrebbe privata dell’importante riserva energetica del petrolio del Mare del Nord.
Un futuro talmente incerto dovrebbe spingere il rinoceronte biondo, ammaestrato tra l’altro dai passi falsi di chi lo ha preceduto, ad un’attenta riflessione e a pesare con cautela le proprie mosse. Come detto, la sua irruente condotta lo ha portato a perdere la maggioranza nel Parlamento, abbandonato persino dal proprio fratello carnale, vera causa che lo spinto a chiedere la chiusura dei Westminster per cinque settimane: recentemente la corta suprema di Scozia gli ha dato torto, contrariamente a quella di Londra, proprio con la motivazione della chiusura non aveva nulla a che fare con le motivazioni addotte (fare pressione sull’UE per un rinegoziazione dell’accordo, motivazione invero peregrina), ma rispondeva al disegno di eliminare gli ostacoli ai propri intenti; ora si attende la sentenza definitiva della Corte Suprema della Gran Bretagna. Ad ogni modo il rebus britannico non sembra avere soluzioni semplici e non pare che gli esiti, quali essi siano, abbiano ricadute positive. È il male di fare mosse senza valutarne bene le conseguenze, vezzo che gli inglesi hanno sempre avuto, seminando i luoghi del globo da essi colonizzati, di frutti avvelenati di cui ancor oggi avvertiamo gli effetti disastrosi.
Saverio Craparo