Ha cominciato, come tutto quanto riguarda la fantasiosa denominazione delle leggi, fantasia necessaria a coprire all’occhio disinformato la realtà del provvedimento, l’ex giovinastro di belle quanto caduche speranze, Renzi. Così i Cinque Stelle, oscurati dall’attivismo xenofobo di Salvini, hanno deciso di riprendersi la scena mediatica varando il tanto promesso in campagna elettorale intervenendo sul mercato del lavoro e lo hanno pomposamente denominato “decreto dignità”.
Sostenere che tutto quanto sia da rifiutare sarebbe ardimentoso, sia perché molte sono le misure in discussione, sia perché dopo i disastri del “job act” sarebbe ben difficile fare peggio. Ad esempio l’idea che le aziende che delocalizzano dopo aver ricevuto contributi dallo Stato debbano rendere quanto percepito è senza alcun dubbio condivisibile (quanto avrebbe dovuto restituire, tanto per dire, la FIAT?). Anche la limitazione dei contratti a termine, non concedendone la reiterazione senza un giustificato motivo, contiene una discreta dose di buon senso. Ma si sa, la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni, e su quella via siede l’altro azionista di maggioranza del Governo, quello numericamente meno pesante, ma politicamente più rilevante: la Lega!
È così che il decreto ha subito varie modifiche peggiorative, per le quali il poco di buono che c’era è in gran parte andato perso. Un’analisi puntuale di quanto sta per passare al vaglio delle Camere renderà conto di quanto affermato.
· Il Movimento 5 Stelle (chissà poi che cosa significhi questo nome da catena alberghiera) in campagna elettorale aveva promesso di abrogare la renziana riforma del lavoro tutta sbilanciata a favore delle imprese e di ripristinare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che il Governo di “centrosinistra” (scusate il termine) era riuscito ad abolire, impresa non alla portata dei governi Berlusconi. Ebbene la promessa è stata dimenticata e quanto contenuto fin dall’inizio nel decreto è una misura molto più timida: vengono aumentati gli indennizzi a favore dei lavoratori licenziati senza giusta causa. Ciò ovviamente ha suscitato la levata di scudi dell’imprenditoria ed il fatto che i padroni protestano sembra al PD un buon motivo, di per sé, per giudicare negativamente il provvedimento. Vale appena la pena di ricordare che stiamo parlando di “licenziamenti senza giusta causa” ovverosia legati al capriccio del datore di lavoro o al fatto che un lavoratore sia scomodo, magari perché osa protestare! Il PD ora si straccia le vesti (come gli imprenditori) sul rischio “contenzioso”, che sono orgogliosi di aver abbattuto; dimenticano che il contenzioso nasce per tutelare dei diritti violati ed è ovvio che laddove tali diritti vangano aboliti non i sono più margini per adire alle vie legali per tutelarli.
· Se questo non bastasse a mostrare che la “dignità” rappresenta giusto un’etichetta, altro punto “qualificante” del decreto è quello relativo ai contratti a tempo determinato ed al loro rinnovo. Si prevede in esso che un contratto a tempo determinato dopo 12 mesi per essere rinnovato debba avere una giustificazione; attualmente questo può essere rinnovato immotivatamente per 36 mesi. Grandi strepiti delle imprese, clamore sul rischio licenziamenti, inondazione di numeri sui posti perduti, nuovo appoggio del PD agli industriali, parziale marcia indietro del movimento e proroga fino a fine ottobre dell’applicazione della normativa. Peccato che un piccolo ragionamento renderebbe subito evidente che non sono i posti di lavoro a diminuire, questi ci sono indipendentemente dal tipo di contratto con cui vengono coperti, ma quella che diminuisce e la propensione delle aziende ad assumere perché un lavoratore precario è più ricattabile e costa meno allontanarlo, che licenziare un lavoratore a tempo indeterminato. Eppure questa forma di mercato del lavoro va a detrimento del ciclo economico, perché impedisce ai lavoratori di programmare un futuro e deprime il mercato interno, ritorcendosi così contro la congiuntura economica. Sia detto per inciso i precari della scuola dopo 36 mesi invece di essere assunti, come vorrebbe la giustizia e la Corte Europea, invece di perdere la possibilità di vedersi rinnovare l’incarico come avrebbe voluto Renzi, ora potranno vedersi rinnovare la supplenza oltre i tre anni.
· Nulla invece viene innovato in merito al polettiano “contratto a tutele crescenti” che lascia i lavoratori sotto il ricatto del licenziamento arbitrario per i primi tre anni dall’assunzione, precarizzando così i nuovi assunti a “tempo indeterminato”. Un’altra promessa elettorale disattesa.
· La Lega ha fatto pressione e così sono stati reintrodotti i voucher, limitatamente è vero ad agricoltura e turismo. Dopo la sgamotto gentiloniano della loro soppressione temporanea e la loro reintroduzione passato il pericolo del referendum indetto dalla CGIL, ecco che la loro sperata definitiva abolizione non viene mantenuta; eppure essi rappresentano la forma estrema della precarizzazione, il limite massimo della mancanza di “dignità”.
· Un passo indietro viene operato sul fronte della “split payment”, ovverosia della delega alla Pubblica amministrazione di trattenere l’IVA dalle fatture dei fornitori, per versarla direttamente allo Stato. I liberi professionisti, che l’anno scorso erano stati inclusi nel provvedimento, hanno protestato e sono stati accontentati: potranno così trattenersi per un anno la liquidità, lucrandone gli interessi.
· Altro timido intervento riguarda gli spot pubblicitari sul gioco d’azzardo, che verranno sì proibiti, ma solo dal 15 luglio 2019.
· È sicuramente da condividere la prevista restituzione degli aiuti finanziari ricevuti dalle aziende che successivamente decidono di trasferirsi altrove, con aggravate sanzioni se escono dall’UE, purtroppo è prevista una prescrizione, per la quale dopo cinque anni dal contributo ricevuto dallo Stato, nulla è più dovuto e le imprese sono libere di andarsene.
Come si vede, le luci e le ombre presenti fin dall’inizio, hanno subito delle mutazioni mai positive, cosicché le luci si sono fatte sempre più fioche e le ombre sempre più tenebrose. Se questa è la politica sociale dei 5 stelle nel momento dell’insediamento al potere, cioè quello che più dovrebbe rispondere allo slancio iniziale ed al bisogno di catturare l’opinione pubblica, il futuro non lascia molto a ben sperare.
Saverio Craparo