Ei fu

Vasta commozione per la scomparsa subitanea e per certi versi misteriosa di Sergio Marchionne. Subito se ne sono magnificate le doti imprenditoriali, asserendo che ha raccolto nel 2004 una Fiat in stato comatoso ed averla portata ad essere il gruppo automobilistico che più cresce negli ultimi anni, dopo la fusione con la statunitense Chrysler formando la FCA. A noi, che non lo abbiamo mai amato e che riteniamo che la morte non riabilita nessuno, spetta il compito di fornire un altro punto di vista.
È vero nel 2004 la Fiat era in crisi e la mossa dell’ultimo Agnelli, Umberto, di venderla alla General Motors era abortita per il rifiuto di quest’ultima di acquisirla. Morto Umberto inizia l’era Marchionne, che proprio Umberto aveva portato in Fiat. La mossa, non certo imprenditoriale, del Sergio fu quella di farsi pagare due miliardi di dollari dalla General Motors per l’acquisto prima pattuito e poi non mantenuto. Fu questo budget iniziale che permise di saldare parte dei debiti dell’azienda (il restante fu ristrutturato grazie ad una spericolata azione finanziaria che successivamente vide condannati i due avvocati che l’avevano portata avanti) e ripartire da zero. Seguì un’intensa attività di sfoltimento dei manager, con l’appoggio dei sindacati, vellicati dall’affermazione che la colpa del dissesto non era degli operai. Marchionne tentò poi la scalata alla Opel, ma il governo tedesco si oppose.
Forte però del dominio ottenuto nel gruppo di comando, il passo successivo fu quello di un forte ridimensionamento della classe operaia, prima di tutto sui diritti. Il nostro eroe fece uscire il gruppo dalla Confindustria per non ottemperare al Contratto Collettivo Nazionale e poi, quindi, imporre un modello contrattuale in stile statunitense. Nel referendum con cui questa svolta fu sancita il gioco fu molto pesante; prima di tutto il ricatto: se l’accettazione delle nuove regole non fosse passata il gruppo avrebbe lasciato l’Italia; poi le promesse: se il sì avesse vinto Fiat si impegnava ad investire 22 miliardi di € nel paese. Il sì vinse grazie al voto degli impiegati, meno coinvolti nella ristrutturazione del lavoro, e tra gli operai per solo nove voti, che risultavano da operazioni sui turni non del tutto trasparenti.
Ciò fu possibile perché pezzi importanti del sindacato (FIM-CISL) e della classe politica di “sinistra” (Chiamparino, Fassino, Renzi, etc.) credettero, o fecero finta di credere alle promesse. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La Fiat è scomparsa, assorbita dal nuovo gruppo FCA, con sede in Olanda, domicilio fiscale a Londra e comando negli Sati Uniti. Ovviamente i 22 miliardi non si sono mai visti. In compenso i ritmi in fabbrica sono aumentati e le pause concesse contrattualmente diminuite. Non è un caso che la redditività sia aumentata e se alcuni osservatori fanno notare che gli stabilimenti sono più salubri, ciò non tiene conto dello stress derivato dall’intenso sfruttamento.
La mossa successiva fu quella di farsi fare un prestito dall’Amministrazione Obama per acquistare la Chrysler, fondare la FCA e portare la Fiat fuori dall’Italia, con un semplice benservito, dopo che questa azienda, polo predominante nell’industria italiana, aveva condizionato pesantemente lo sviluppo del paese (privilegio del trasporto su gomma rispetto a quello su ferro) ed aver ottenuto fiumi di denaro a fondo perduto per costruire i propri stabilimenti.
La FIM-CISL, non contenta della scelta a suo tempo imposta agli operai, ora osa affermare che i dipendenti dell’azienda in Italia non sono diminuiti; in realtà in 14 anni sono passati da 77.000 a 60.000, mentre sono aumentati a livello mondiale a riprova che gli interessi del gruppo stanno spostandosi altrove. Un’analisi degli otto stabilimenti ancora funzionanti (erano 16) è deprimente. Vi lavorano 23.107 dipendenti, ma il 21,4% (4.935) sono in cassa integrazione. La produzione di auto è calata del 60%. La Chrysler va meglio, ma per trovare la prima auto FCA tra quelle più vendute nel mondo bisogna scendere al 46mo posto (Jeep Grand Cherokee). I nuovi modelli scarseggiano, quindi si può affermare che più che un dirigente d’industria il nostro beniamino sia stato un abile e spericolato speculatore finanziario; come, per esempio, giustificare la produzione in Italia della Jeep Renegade, che ha uno sbocco di mercato oltre oceano, che vede approssimarsi l’epoca dei dazi doganali?
Non ha, per altro, trascurato i propri interessi privati: citiamo da “Il Sole 24 ore” del 23 luglio 2018: “Un portafoglio azioni consistente, numerose stock option e una remunerazione che, tra variabile e fissa, ha superato i 100 milioni di euro. I 14 anni di mandato di Sergio Marchionne, mal contati, valgono oggi complessivamente qualcosa come 630 milioni di euro”. Si aggiunga che mai il benefattore del nostro paese ha pagato un euro di tasse, avendo scelto di eleggere il proprio domicilio in Svizzera.

Epitaffio
Ei fu siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
vendette qualche automobile
e tutti ci prese in giro.