TRA PUBBLICO E PRIVATO

La privatizzazione di strutture strategiche e settori produttivi di proprietà pubblica ha costituito il dono portato dalla “sinistra” blairista al neo capitalismo per essere promossa alla gestione del potere in nome e per conto del capitale finanziario e del turbocapitalismo. Ma i blairisti hanno voluto essere più realisti del re e hanno accresciuto il loro dono con la svendita delle conquiste sociali, frutto di un secolo di lotte operaie, offrendo insieme alla proprietà dei beni pubblici e ai profitti, la gestione dei rapporti di lavoro, imponendo la”privatizzazione” del lavoro pubblico.
Oggi il crollo del ponte “Morandi” di Genova ha innescato un dibattito all’interno del Governo e nel paese sulle privatizzazioni e le concessioni i cui termini non sono assolutamente chiari. La privatizzazione del settore pubblico sembra rimessa in discussione, senza riflettere su ciò che è avvenuto. Proviamoci !

La privatizzazione delle infrastrutture pubbliche e la politica delle concessioni

L’ultimo decennio del secolo si è caratterizzato in Italia per la sistematica distruzione di tutto ciò che era pubblico. I Governi Ciampi e Amato, di fatto sostenuti dal Partito dei Democratici di Sinistra, erede del PCI, hanno fatto propria una politica di revisione programmatica degli assi portanti del riformismo che, partendo dalla svolta dell’EUR in campo sindacale, ha contribuito fortemente all’approvazione della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego (DPR 29/93) e del pacchetto di leggi cosiddette “Bassanini” che avrebbero dovuto realizzare “una riforma costituzionale a Costituzione invariata”. Si tratta chiaramente di un ossimoro che tuttavia contiene in se gran parte delle ragioni che portano alla vittoria elettorale di Berlusconi nel 1994.
Ma la sinistra non si da per vinta e non impara nulla da quella sconfitta e l’Ulivo, frutto dell’alleanza elettorale che affronta e vince le elezioni successive, offre al capitalismo italiano su un piatto d’argento la privatizzazione delle strutture portanti dell’economia di proprietà pubblica: da una parte svende le industrie di Stato e dall’altra da in concessione ai privati tutto o quasi ciò che costituisce un introito sicuro per lo Stato. Arriva una nuova sconfitta elettorale e la sinistra non si da per vinta e non impara nulla: il berlusconismo trionfa !
In verità già la legge 35/92 aveva provveduto alla trasformazione degli enti pubblici economici, alla dismissione delle partecipazioni statali e all’alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica. In particolare il decreto 333/1992 aveva trasformato in SpA le aziende di Stato IRI, ENI (e le società controllate Agip e Snam), INA e ENEL, nonché le Ferrovie dello Stato. Era poi stata la volta dell’Azienda autonoma dei monopoli di Stato e delle telecomunicazioni, ed erano state dismesse le quote di partecipazioni statali nelle banche, Credito Italiano, Banca commerciale italiana. La legge 178/2002 completerà l’opera trasformando anche l’ANAS in SpA. Alla destra tutto ciò è bastato per demolire il blocco sociale che aveva sostenuto i partiti di sinistra e trasformare anche culturalmente il paese all’insegna del rampantismo sociale.
Ma il lavoro sporco fatto dalla sinistra è stato quello più importante e significativo e si è concretizzato nell’alimentare il discredito verso la gestione di parte pubblica di tutto ciò che costituiva oggetto della gestione da parte dello Stato, sostenendo, a volte non a torto, che tale gestione fosse inefficiente, incapace, economicamente disastrosa. Furono mobilitati gli intellettuali, giuristi ed economisti valenti, per affermare la superiorità della gestione di stampo privatistico fino ad arrivare a sostenere che il pubblico dovesse assumere metodi, criteri e valori dell’imprenditore privato, provvedendo alla gestione di tutto ciò che era di proprietà e pertinenza pubblica secondo criteri di profitto di impresa, a prescindere dai fine istituzionali e sociali dell’attività svolta.
Per porre rimedio agli inevitabili danni di una gestione sconsideratamente aziendalistica delle attività si arrivava a ipotizzare in capo all’amministrazione pubblica una funzione di controllo delle attività e dei servizi privatizzati che avrebbe dovuto essere svolta da appositi uffici predisposti da quell’amministrazione pubblica che si dichiarava essere strutturalmente incapace, pur sapendo che l’attività di vigilanza e di controllo è quella che richiede maggiore professionalità e efficienza.
Ma la sinistra di governo andava oltre e, raccogliendo l’appello che proveniva dall’iper liberismo della Comunità Europea, si predisponeva a instaurare con il plauso dalla destra politica un diffuso regime di concessioni. Si trattava di stipulare contratti con i quali lo Stato affida a una società privata la gestione di un servizio, stabilendo gli obblighi del titolare della concessione e i diritti che esso riceveva. In particolare l’operatore privato fissava il prezzo del servizio e si impossessa dei ricavi che discendevano dalla gestione dell’impianto ricevuto in concessione e dovrebbe dovuto garantire gli investimenti necessari alla manutenzione e la funzionalità del servizio erogato. Tra le concessioni per diversi tipi di servizi quelle che riguardavano le autostrade, stipulate da imprenditori privati con il Ministero delle Infrastrutture, nel caso di Genova la società Autostrade per l’Italia.

Che fare?

Innanzi tutto bisogna riflettere sul fatto che ogni quota di profitto sottratta dalla gestione di beni pubblici da parte di un privato concessionario comporta una sottrazione di risorse pubbliche perché il profitto accumulato dal gstore privato potrebbe andare al miglioramento del servizio e a investimenti a vantaggio della collettività a condizione che quella competenza che l’apparato pubblico dovrebbe dimostrare nel controllo venga impiegata nella gestione degli impianti. Va da se che se un apparato appositamente creato per controllare la gestione di altri deve anzi essere più capace del gestore e quindi la scelta di servirsi di un concessionario è politica più che economica e riguarda la concessione a prenditori privati di beni pubblici.
Certo gli apparati pubblici sono soggetti alla sclerosi e i detentori del potere burocratico diventano essi stessi classe prenditrice con il consolidarsi del loro potere e il semplice passare del tempo. Occorre perciò provvedere a una rotazione degli incarichi bilanciando consolidamento delle competenze e creazione di fliere di potere che vanno controllate attraverso organismi da costituire dei quali devano far parte sia coloro che partecipano all’erogazione dei servizi che i fruitori del servizio stesso. Si tratta certamente di organizzare un’attività difficile da esperire ma certo non meno difficoltosa e difficile da realizzare rispetto a un efficace servizio di controllo che si vorrebbe operante nei confronti del privato imprenditore concessionario di servizi pubblici. Come si vede la scelta è tutta e solo politica e risiede nel tipo di società che si vuole costruire.
La dove la sinistra riformista è solida e rappresenta una alternativa reale alla gestione conservatrice e neoliberista della società questa analisi è stata fatta includendo, nel programma di un futuro governo, come in Inghilterra, la socializzazione della gestione dei servizi pubblici. Così si ricomincia la dove tutto è iniziato e cioè nel paese che ha conosciuto la più selvaggia e radicale liberalizzazione e privatizzazione di tutto ciò che era pubblico.
Ma non può trattarsi di un mero ripristino di ciò che era perché l’inefficienza della precedente gestione pubblica è stata una delle cause che ha consentito il disastro della privatizzazione. Perciò non è inutile un dibattito ampio e profondo su quali sono sistemi e condizioni di partecipazione sociale, quali le modalità di una diversa concezione ed esercizio dei poteri pubblici da eserc di ognuno che riguardano innanzi tutto ciò che si definisce beni comuni. Intendiamo riferirci all’insieme delle risorse, materiali e immateriali, utilizzate da più individui e che possono essere considerate patrimonio collettivo dell’umanità e cghe gli inglesi definiscono con il termine “commons”.
Si tratta di cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, (come scriveva Stefano Rodotà) anche a beneficio delle generazioni future. I titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati ma in ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge. Quando i to della delega senza controllo costante e continuo e la vigilanza di tutti. Occorre quindi riscoprire la partecipazione, evitando di delegare al politico di turno o alla lottizzazione partitica e clientelare la gestione dei servizi e di tutte quelle attività strategiche e vitali per la vita di ognuno che riguardano innanzi tutto ciò che si definisce beni comuni. Intendiamo riferirci all’insieme delle risorse, materiali e immateriali, utilizzate da più individui e che possono essere considerate patrimonio collettivo dell’umanità e cghe gli inglesi definiscono con il termine “commons”.
Si tratta di cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, (come scriveva Stefano Rodotà) anche a beneficio delle generazioni future. I titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati ma in ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge. Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni devono essere gestiti da soggetti pubblici e collocati fuori commercio. Alla collettività spetta decidere sulla ripartizione dei profitti. Alla fruizione dei beni comuni deve aver accesso. chiunque.
Ritorneremo su queste tematiche riprendendo e riproponendo le elaborazioni che la sinistra stà facendo sulle fondamenta stesse della sua azione politica a livello strategici.
La redazionetitolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni devono essere gestiti da soggetti pubblici e collocati fuori commercio. Alla collettività spetta decidere sulla ripartizione dei profitti. Alla fruizione dei beni comuni deve aver accesso. chiunque.
Ritorneremo su queste tematiche riprendendo e riproponendo le elaborazioni che la sinistra stà facendo sulle fondamenta stesse della sua azione politica a livello strategici.

La Redazione