1. L’epoca del collettivismo
Dalla formazione dei primi agglomerati operai, via via in modo più consistente, si è venuta formando un’adesione dei singoli individui al collettivo di cui venivano a far parte; ciò in contrapposizione alla tendenziale frammentazione di interessi dei contadini ed alla disgregazione del bracciantato. La lenta crescita di un sentimento di comunione è divenuta sistematica a ridosso della seconda rivoluzione industriale, ma è assurta a sistema di coscienza agli inizi del secolo XX, con la nascita delle grandi organizzazioni sindacali.
Dalla fine della prima guerra mondiale fino agli anni ottanta il senso del collettivo ha prevalso nel comportamento degli individui: importante era appartenere e mostrare di esserlo e ciò sia nei comportamenti di destra che di sinistra. Anche le forme di contestazione al mondo degli adulti hanno conosciuto le proprie “divise”, ovverosia modi esterni atti ad identificare a vista la collocazione del singolo in un contesto di gruppo. Dalle battaglie dei “mods” e dei “rocks” nell’Inghilterra degli anni sessanta, all’eschimo della nuova sinistra, alle lunghe gonne a fiori delle donne ed ai lunghissimi capelli e le camicie colorate dei maschi nel movimento hippy. Era sempre possibile riconoscere dall’aspetto la matrice culturale di chi ci stava di fronte e questo aspetto era volutamente una dichiarazione di appartenenza.
Tutt’ora certe forme di tutto ciò sopravvivono, in forma residuale, nei gruppi più caratterizzati ideologicamente, la qual cosa riguarda in particolare gli individui appartenenti a gruppi di estrema destra: teste rasate, abiti in pelle, tatuaggi a sfondo esplicitamente ideologico. A conferma di un’adesione tiepida, per così dire ai sistemi valoriali di sinistra, si riscontra la sempre più labile presenza delle “tute blu” o dei caschetti di protezione, un tempo simboli forti di una classe operaia fiera della propria appartenenza e proiettata all’attacco del sistema di sfruttamento.
2. Pregi e difetti
Se tale impostazione ha così a lungo avuto prevalenza nei comportamenti sociali, aveva evidentemente i suoi presupposti strutturali (su cui sarà opportuno tornare) e le sue giustificazioni psicologiche. Alcune caratteristiche, però, con cui essa ha preso forma ne hanno minato la desiderabilità, fornendo lo spazio necessario al suo abbandono, quando il mutamento, divenuto strutturalmente necessario, ha corrisposto ad un profondo bisogno della nuova organizzazione capitalistica globale. Per comprendere quanto si intende qui sostenere, analizziamo prima di tutto quali fossero le implicazioni positive del ricorso al collettivo e quali siano state le degenerazioni che ne hanno agevolato l’eclisse, riservandosi in un secondo tempo l’analisi delle radici di fondo, la cui mutazione ha reso necessario questo cambiamento.
2.1. Effetti positivi
L’uomo è un animale sociale e non può che conoscere uno sviluppo positivo nel confronto costante con individui della stessa specie. L’idea che nessuno è una monade sufficiente a se stessa, ma che, invece, è necessario lo scambio per raggiungere il benessere collettivo è l’unico modo sensato in cui l’umanità può cercare di raggiungere il massimo di soddisfazione possibile per tutti. Il problema non è però solo così generale. In una società in cui la competizione è il sistema di convivenza ed in cui i mezzi a disposizione degli individui sono oltremodo differenziati, le forze in conflitto non sono equilibrate: un operaio isolato non può ragionevolmente e con successo lottare contro il proprio datore di lavoro; solo un’azione collettivamente condotta dalle maestranze può sperare di ottenere dei vantaggi.
C’è di più. L’appartenere ad un gruppo consente ad ognuno di sentirsi più tutelato ed arricchisce la sua vita di relazione. Che questo gruppo sia di adesione ideale o di costituzione locale, se corrisponda agli interessi dei suoi membri o costituisca una comunità legata al proprio territorio, è ininfluente. L’importante è che l’individuo veda in esso accrescersi la propria sicurezza e che in esso trovi gli stimoli ad accrescere i propri strumenti di lettura della realtà che lo circonda. La prospettiva di una società più giusta, che tenga nella massima considerazione la felicità di ognuno dei suoi membri, non può che passare attraverso una coscienza, un’aspirazione, una maturazione, un’azione collettiva.
2.2. Problemi connessi
Questi innegabili portati auspicabili del collettivismo, hanno però incontrato una loro realizzazione che ne ha reso meno appetibile il perseguimento. E ciò non solo per la versione di destra legata ad una concezione gerarchica e militare della compagine, con le divise, i gradi, le parate e soprattutto la struttura rigida, che prevedeva dei capi ed una massa amorfa e subalterna, pronta solo ad eseguire gli ordini dei comandanti. La versione di sinistra non è stata da meno.
Sotto un egualitarismo di facciata, la musica era la stessa. Nella realizzazione marxista del socialismo (quello che già Bakunin appellava “il comunismo da caserma”) i dirigenti indossavano la stessa divisa dei cittadini comuni e non vi erano neppure i gradi a distinguere le funzioni; ciò non toglieva, però, che i ruoli sociali fossero ben distinti, e con essi le funzioni di comando e le posizioni economiche. La forza di trascinamento degli esempi di “socialismo realizzato” ha riprodotto analoghi atteggiamenti nelle formazioni della sinistra di classe nei paesi “occidentali” e non solo in essi, anzi ovunque.
La conseguenza non è stata solo di immagine, ma ha segnato profondamente i comportamenti degli aderenti. Il culto del capo e della sua infallibilità, la carriera interna e il sistema di relazioni legati all’ossequio, la selezione dei gruppi dirigenti per cooptazione hanno indotto un atteggiamento di subalternità, con il conseguente sacrificio delle peculiarità che contraddistinguono gli individui gli uni dagli altri. La massificazione forzata delle scelte individuali, la messa tra parentesi dei bisogni, degli interessi, delle propensioni, dei sentimenti dei singoli, sacrificati sugli altari degli “ideali” hanno generato l’appiattimento forzato del pensiero, comportamenti standardizzati, la morte della creatività. E ciò ha reso, a lungo andare, poco appetibile il modello collettivista, soprattutto laddove lo sviluppo economico e sociale ha messo a disposizione di molti (ovviamente solo un’importante minoranza), possibilità di stili di vita più gradevoli.
3. L’irrompere del singolo
Lo scorcio del secolo scorso ha conosciuto una brusca inversione di tendenza. Da una fase di identificazione degli individui con il collettivo sociale si è rapidamente passati all’esaltazione della specificità di ognuno. A questa mutazione hanno contribuito quei movimenti, le cui ragioni positive non è possibile rinnegare, che hanno teso a mettere al centro dell’attenzione le esigenze di gruppi oppressi, emarginati e sacrificati: donne, omosessuali, minoranze linguistiche. La prima scintilla del fenomeno nasce negli Sati Uniti d’America negli anni sessanta con il movimento contro la guerra del Vietnam, l’ondata del rifiuto della coscrizione obbligatoria ed il rogo delle cartoline precetto.
È ovvio che i più deboli, troppo a lungo sottomessi ai voleri dei gruppi dominanti avevano validissimi motivi per chiedere di essere rispettati nei loro diritti, per avanzare una perentoria richiesta di essere riconosciuti. Il veleno, però si è sottilmente infilato nell’immaginario collettivo; esso ha inconsapevolmente incontrato un’esigenza di fondo emersa dalla ristrutturazione dei rapporti sociali necessaria al riassetto del sistema capitalistico globale. Il perché è presto detto! Queste giuste rivendicazioni non erano inserite all’interno di una diversa visione complessiva dell’assetto sociale, ma erano collocate all’interno di quello esistente. Così essi non sono divenuti il grimaldello per affrancare gli oppressi di tutti i tipi, a partire dagli sfruttati, ma sono stati incardinati nella società capitalistica come “diritti civili”.
Lo slogan paradigmatico di quanto detto si è diffuso nei movimenti politici e di liberazione nel corso del settimo decennio: “il personale è politico” [1]. L’inversione di priorità è in esso evidente; non si ricercava la soluzione dei problemi dei singoli gruppi all’interno di una soluzione politica totale, che ribaltasse lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma l’esigenza della soluzione del proprio problema era posta prima di qualsiasi ribaltamento dei rapporti di forza, collocandosi quindi automaticamente all’interno dello status quo, trovando in esso una soluzione parziale, ignara dei problemi dagli altri gruppi di oppressi. A ciò ha, ovviamente, contribuito il fatto che nelle esperienze rivoluzionarie troppo spesso i diritti delle minoranze sono stati prevaricati o, al minimo, trascurati; così la liberazione dallo sfruttamento non ha coinciso con la liberazione degli interessi dei singoli.
4. Reazione ineluttabile: sue giustificazioni
Le giustificazioni per questa mutazione di punto di vista sono anche altre. Chiusosi un ciclo di lotte con una tragica e molto profonda sconfitta della classe operaia, si è fatta strada l’idea che la lotta collettiva non era più in grado di produrre risultati apprezzabili, aprendo la via ad una ricerca della soluzione del proprio benessere legata alle capacità del singolo, che facesse leva sulle proprie competenze e capacità. Il declino della forza sindacale ha dato la stura al ricorso alla libera iniziativa nell’offerta di lavoro: creazioni di ditte esterne che offrono servizi alle aziende, che aboliscono di conseguenza reparti interni di produzione; iniziative imprenditoriali in piccole aziende nate su specifiche produzioni parcellari; libere professioni; etc. Le rapide trasformazioni del ciclo produttivo, legate alla rivoluzione digitale, sull’onda degli stupefacenti arricchimenti di alcuni spregiudicati giovani informatici, hanno spinto il fenomeno sopra menzionato, che ha preso il nome di “start up”.
La compressione dei servizi offerti dallo stato sociale, rendendo più instabili le aspettative del singolo, lo ha spinto verso forme di tutela parcellizzate, gettandolo nelle braccia di forme speculative di offerta di tutele mediche e previdenziali, facendo dilagare modelli comportamentali tipici dell’assetto sociale di oltre oceano. Negli Usa l’eclisse delle forme sindacali, spesso inquinate da presenze massicce della malavita organizzata, ha ulteriormente inciso sulla precarietà sociale, spingendo i lavoratori ad aderire ai fondi pensioni altamente speculativi, o a cercare di acquisire la sicurezza di un’abitazione propria, che ha generato la speculazione bancaria più devastante mai vista, quella della concessione di mutui non garantiti, sui quali si innestava un castello finanziario speculativo privo di basi concrete.
5. Il trionfo del particolare
Gli ultimi quattro decenni hanno visto rifluire nell’alveo degli interessi particolari gran parte della società. Il perseguimento di un illusorio successo, la ricerca di una felicità riservata a pochi e negata ai più hanno preso il posto delle grandi utopie collettive che hanno dominato i due secoli precedenti. È indubbio che il progresso umano non ha mai camminato sulla rotta del guicciardiniano “proprio particulare”, ma solo i grandi moti collettivi hanno costituito momenti di svolta nel cammino della società verso un assetto via via meno iniquo, pur tra errori e, talvolta, regressioni.
Non è un caso che negli ultimi tempi, non solo si è dispiegata un’ampia e non nuova critica alla rivoluzione russa, ma ha toccato ampiamente anche il portato della rivoluzione francese del 1789. La critica alla prima mai ha toccato i temi della sua involuzione burocratica e della sempre crescente ineguaglianza in cui essa è sfociata, ma sempre si è appuntata al diniego della “libertà” individuale, trascurando le innovazioni sociali[2], la diffusione di standard di vita decorosi, la sicurezza del futuro, l’elevazione della cultura generale, la scomparsa degli importanti residui feudali e del profondo arretramento economico lasciati dallo zarismo. La critica a quella rivoluzione spetta a noi, che mai abbiamo inteso la “libertà” come la intendono i cantori del libero mercato, cioè quella che permette di scegliere, esprimersi, godersi la vita solo a chi ne possiede i mezzi economici e quindi identifica la libertà con quella dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, quella libertà da cui noi vogliamo “liberare” il mondo.
Attaccare la rivoluzione francese, però, è proprio un frutto di questi tempi oscuri, significa negare proprio la nascita di quei “diritti civili” tanto decantati e sicuramente da non rinnegare. È vero che in essa ci sono state pagine buie, ma la rivoluzione “non è un pranzo di gala” e la violenza non un suo frutto, ma il frutto della violenza della società preesistente che a tanti esseri umani ha negato non solo una vita dignitosa, ma troppo spesso addirittura la vita stessa. Senza quel rivolgimento violento il mondo moderno non sarebbe lo stesso, ma vivrebbe ancora nella cecità di un’ingiustizia ottusa e senza prospettive di ulteriori necessari riscatti, come si può constatare in molti modelli sociali che da quella esperienza non sono stati lambiti [3].
6. Funzionalità con la struttura
Uno stravolgimento tanto radicale e talmente diffuso dei comportamenti degli individui non può trovare giustificazioni soltanto nella sfera della psicologia di massa. Qualcosa deva essere maturato a livello della struttura sociale e produttiva.
Gli anni settanta segnano la fine dei grandi agglomerati produttivi: Detroit, la Ruhr, Manchester e, nel suo piccolo, Torino, diventano distretti in dismissione, che devono reinventarsi un futuro diverso dall’industrializzazione. Con essi scompaiono anche le grandi concentrazioni operaie, nerbo un tempo dell’opposizione di classe e la conseguenza inevitabile è il deperimento della forma sindacato e la sua riduzione ad un ruolo consultivo, anziché combattivo. La sconfitta dei minatori inglesi, il dirottamento dei sindacati statunitensi verso forme di investimento finanziario, la compartecipazione dei sindacati tedeschi alla gestione aziendale e, nel nostro paese, la strategia dell’Eur e la concertazione, hanno scandito questo declino [4].
Si sono fatte strada forme del mercato del lavoro sempre più parcellizzate e precarie, specchi di una struttura produttiva sempre più miniaturizzata e disseminata nel territorio, mentre l’occupazione si spostava dall’impegno in fabbrica al suo nuovo sbocco orientato ai servizi. Il lavoro duro alla catena è divenuto marginale, perché l’uomo è stato via via sostituito dalla macchina robotizzata; l’artefice degli oggetti si è trasformato in un controllore di processi che sfuggono alla sua cognizione profonda; la classe operaia ha perso la conoscenza e di conseguenza il controllo del ciclo produttivo. Quest’ultimo si è disgregato in aree spesso lontane le une dalle altre e comunque non più in connessione con l’indotto; la connessione del sistema è affidata alla logistica ed alla creazione dei cosiddetti “corridoi”.
Nel ciclo produttivo frammentato le lotte spesso determinate, sono votate alla sconfitta e questo induce gli individui alla ricerca di una salvezza propria e quindi parcellare, gli occupati nei servizi operano in gran parte in strutture di pochissimi addetti e sono sottoposti ad un ricatto occupazionale che non si vedeva da un secolo e mezzo, costretti quindi a subire vessazioni e condizioni di lavoro che solo l’assenza di alternative può rendere accettabili.
Non è difficile pensare che tutto ciò corrisponda ad una ben precisa strategia di sviluppo funzionale a quello che viene chiamato “turbocapitalismo finanziario”. Non è un caso, pertanto, che le legislazioni sul lavoro dei singoli paesi, sempre più si orientino alla distruzione delle forme di sicurezza fornite dai Contratti Collettivi e che il Welfare diventi ogni giorno più obsoleto. Il lavoratore che si fa imprenditore di se stesso rischia in proprio, non ha paracaduti sociali; se la buona sorte non lo assiste, se la malattia lo colpisce si prospetta la rovina, per cui fioriscono le assicurazioni private.
7. Conseguenze ideologiche
Le modificazioni profonde della struttura produttiva, lo spostamento dei capitali dall’investimento di rischio a quello speculativo, generano di conseguenza quei cambiamenti negli approcci di ognuno al senso della propria vita, di cui abbiamo sopra parlato. Se la filosofia del capitalismo finanziario è quella di un rapido aumento del capitale investito, senza alcuna prospettiva a lungo termine, è logica conseguenza che anche i singoli siano spinti ad una visione del giorno per giorno, del mordere qui e subito i frutti possibili e della trascuratezza verso le incertezze del futuro. Al centro degli interessi viene posto il benessere individuale e vengono messi in soffitta le domande di benessere sociale, alimentati dal reciproco soccorso e dalla solidarietà.
7.1. La fine delle tutele collettive
Il forte ridimensionamento del Welfare è al tempo stesso causa ed effetto del ripiegamento verso la cultura degli interessi individuali. Ne è causa in quanto la fine, o almeno il ridimensionamento, delle garanzie di tutela da parte dell’organizzazione sociale delle strutture di governo del territorio [5] in materia di sanità, previdenza e perdita del lavoro, ha spinto i singoli ha costruirsi dei surrogati a pagamento che li tutelino dalle incertezze della vita. D’altra parte, lo spirito dei tempi che indirizza alla massima fruizione dei benefici che si presentino di volta in volta ha fatto sì che il brusco deperimento di quello che un tempo veniva chiamato “Stato sociale” (frutto di una visione collettiva di benessere) sia stato perpetrato senza la necessaria opposizione; mentre la sua costruzione aveva segnato decenni di lotte e di speranze; il defunto un tempo tanto amato e desiderato, ha finito per essere visto come una presenza ingombrante che limitava il benessere momentaneo, rimandando ad un futuro indeterminato la fruizione dei frutti a lungo e faticosamente perseguiti. Si è fatta una visione tipica dell’assetto sociale statunitense, a sua volta figlia della storia in cui detto assetto si è formato: quello della frontiera e dell’assenza di una qualsiasi assicurazione collettiva che andasse oltre quello che solo il pioniere poteva o voleva costruirsi basandosi esclusivamente sulla propria intraprendenza e sulla forza, impiegata al di là di ogni legge.
7.3. La solitudine sociale
La rottura dei legami sociali conseguente alla ricerca della felicità individuale, ha isolato ognuno nel proprio mondo ed ovviamente nello scontro che giornalmente si verifica inevitabilmente nella società sono i più deboli a rimetterci. Ma il problema non è solo questo; si liquefanno tutte le forme di aggregazione: case del popolo, circoli bocciofili, associazioni di quartiere sono ormai rifugio delle persone anziane, rendendo inefficace il dialogo generazionale. Anche i bar vedono la propria presenza divisa nettamente per l’età degli avventori.
La pluralità dei contratti di lavoro fa sì che persino all’interno della stessa azienda i lavoratori ne abbiano di diversi, di modo che gli interessi di ognuno siano diseguali e la pluralità non è
riconducibile ad alcuna forma di unitarietà. Per non parlare delle mille forme che assume la precarietà
7.3. La solitudine individuale
La scomparsa dei collanti sociali ha certamente contribuito al consolidarsi degli istinti individualisti. Ma sono quegli istinti che nel loro prendere piede hanno distrutto la vita relazionale. Ed essi hanno origine nella nuova forma assunta dall’assetto sociale. Le famiglie numerose, cosiddette “patriarcali”, che contavano sulla presenza di più generazioni al loro interno, sono tramontate insieme alla preminenza dello stile di vita contadino; le case si sono fatte via via più piccole e la famiglia è divenuta mononucleare. Questa mutazione è avvenuta a cavallo e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale e nell’affermarsi della civiltà industriale e cittadina i legami familistici sono stati sostituiti da legami formantisi nel luogo di lavoro. Alla scomparsa di questi l’individuo è rimasto solo; si è sviluppata la tendenza a rinchiudersi in casa a coltivare i propri interessi, prima dinanzi alla televisione e poi dinanzi al computer. Le relazioni umane sempre più tendono a divenire virtuali: la diminuzione di contatti diretti fa da contraltare al proliferare di “amicizie” tra sconosciuti, all’esplosione di gruppi sui social network spesso nella forma di “follower” del personaggio di turno, al parossistico scambio di informazioni vuote di contenuto tra persone che mai avranno un vero contatto umano; più legami digitali si creano, più in realtà l’individuo tende a coprire con una falsa socialità la propria solitudine.
8. La ricerca delle identità perdute
L’insicurezza determinata dagli ancoraggi sociali ed ideali, forza gli individui a ricercare nuovi lidi in cui far approdare la propria appartenenza. Così popolazioni figlie di una miriade di migrazioni scoprono identità da difendere. È chiaro che in territori diversi si stratificano stili di vita, gusti, costumi peculiari. L’adesione alle proprie abitudini, la tendenza a preservarle è del tutto naturale e spinge alla riscoperta o all’invenzione della tradizione, trasformata in un debole e fragile mito, rappresentazione plastica di una identità divenuta debole. Peccato che esse non vengano minacciate dall’arrivo di abitanti provenienti da altre culture, di diverso credo religioso, con colore della pelle diversa; anzi questi nuovi venuti tendono a preservare le proprie e non a mutare le abitudini degli autoctoni. Il vero pericolo dei “valori” tradizionali è il mercato globale, con il suo portato di omogeneizzazione degli abiti, dei gusti gastronomici, delle attitudini di pensiero. L’arrivo di credenti musulmani non erode il cristianesimo, ma esso viene svuotato dalla secolarizzazione dei costumi, dall’evoluzione della morale.
L’arroccarsi entro tradizioni in obsolescenza, la fierezza di un’appartenenza razziale che non ha riscontro nella storia non è che un surrogato delle identità ideali che un tempo tenevano all’interno di una comunità le persone; ma con una differenza sostanziale: le appartenenze ideali erano inclusive, tendevano per natura ad assimilare gli altri, erano aperte al dialogo ed all’assimilazione; le nuove forme di aggregazione sono forme di esclusivismo, di rifiuto del diverso, di chiusura al dialogo e con esso al cambiamento; solo il cambiamento rende dinamica una società, le rende possibile di progredire.
9. Educare alla solidarietà
La solidarietà è un sentimento naturale: l’individuo cerca sicurezza associandosi in gruppo, da sempre; questo checché ne pensino i filosofi che esaltano il sé come bene assoluto (non è un caso che oggi si riattivino gli studi su Max Stirner [6]). L’idea che il singolo possa dominare solitariamente la propria esistenza non ha alcun riscontro nella storia e neppure nella preistoria: i primi ominidi circolavano in branco, che altrimenti la specie umana avrebbe dovuto inevitabilmente soccombere alle ingiurie dell’ambiente ostile. Che lo spirito di branco sia insopprimibile lo dimostrano anche le più recenti tendenze a costruire comunità basate su identità, sentite come elitarie.
Ne discende che questa innata tendenza alla socialità, se non bene educata, può assumere forme intolleranti e conservatrici, chiuse e esclusiviste, autoreferenziali e diffidenti; per prima cosa quindi è necessario piegare questo istinto verso una piega del tutto naturale, quella della solidarietà verso i propri simili, unica vera forma di sicurezza, perché le altre forme non solidali non nascono spontaneamente e sono indotte proprio dal senso di insicurezza e dal pericolo percepito proveniente da una minaccia oscura, che non si riesce o non si vuole comprendere. La mancanza di solidarietà è irrazionale, mentre lo spirito solidaristico è naturale e razionale al contempo; ma va coltivato opportunamente.
10. Riconquistare il senso degli altri
Troppo spesso nel mondo globalizzato, dove i diritti sono stati distrutti e generalizzate le insicurezze, gli individui sono portati a perseguire il meglio possibile per sé, dimenticandosi che gli altri non possono per questo essere calpestati. Degli altri abbiamo bisogno, perché nessuno può bastare a se stesso e più la scienza, la tecnologia, la società si sviluppano e non è possibile pensare ad un ultrauomo in grado di provvedersi di tutti i beni atti a soddisfare le proprie necessità. Solo lo sforzo collettivo può generare questo progresso, perché, come pensava Proudhon, un uomo non è in grado da solo di erigere un obelisco, cosa che invece riesce possibile ad un gruppo di essi che coordinino i propri sforzi.
I beni che oggi sono a disposizione, le risorse di cui possiamo disporre sono il frutto di generazioni ed anche il genio scientifico è sempre meno un pensatore isolato, quanto l’autorevole membro di un gruppo, senza la cui esistenza non avrebbe le stesse possibilità di innovazione. L’individualismo imperante è per la maggior parte delle persone solo una via per la sconfitta e per una caduta senza tutele; per pochi la loro felicità, ma a patto che molti altri tale felicità sia del tutto negata. La salvezza generale può generarsi solo attraverso il riconoscimento della reciproca interdipendenza e quindi dalla ricostruzione di legami solidali, nella prospettiva di una società più giusta ed egualitaria.
11. Il collettivo rispettoso dell’individuo
Le ragioni che hanno portato, a loro tempo, alla crisi del collettivismo ed al suo rifiuto, poggiano su solide basi strutturali, ma hanno trovato un’utilissima sponda nelle forme in cui è stato allora coltivato. La necessità di identificare il collettivismo con il conformismo non ha alcuna ragion d’essere; era il secondo ad essere non gradito, tant’è che l’abbandono delle prospettive collettive ha fatto rifluire il bisogno associativo degli esseri umani in altre forme aggregative, come sopra detto.
A ben riflettere l’idea che il collettivismo comporti un’uniformità d’usi, di costumi, di vestiario, di comportamenti e, in ultima analisi, di pensiero, fa gioco solo a chi deve e vuole esercitare il potere sulle masse collettivizzate. È però possibile pensare a forme di collettività locali o di interesse, che siano al contempo rispettose delle differenze dei singoli, delle loro aspirazioni, delle loro preferenze, delle loro idee.
Collettivismo, in altre parole, non significa massificati ed eguali, ma bensì liberi e meravigliosamente diseguali, ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie capacità, le proprie preferenze. L’uguaglianza non è una divisa sotto cui nascondere le differenze, ma la possibilità per tutti di godere la stessa porzione dei beni e delle risorse che lo sviluppo sociale mette a disposizione, tramite il concorso di tutti.
Saverio Craparo
[1] Consapevoli di questi limiti è la dichiarazione che “il personale è politico” e il conseguente tentativo di risolvere a livello di microsistemi di relazione il problema: rapporti di coppia, rapporti di gruppo, nell’organizzazione politica, ecc. con conseguenze devastanti sulla individuazione e condivisione di obiettivi comuni. Da qui il ricorso a soluzioni di estraneità o sospensive della realtà attraverso l’uso di sostanze stupefacenti a livello di massa il passo è stato breve.
[2] Gli ambiti di libertà individuale, aperti sia pure come certificazione legali di comportamenti diffusi (superamento della genitorialità coatta attraverso l’introduzione della convivenza libera e dell’interruzione della gravidanza poi trasformate nell’abolizione formale del matrimonio religioso e l’introduzione dell’aborto legale) non vengono ne analizzati né presi in considerazione
[3] Riemergono i valori codini della fede, della rinascita del ruolo pubblico della religione , dell’infeudamento dei comportamenti sociali e umani a valori tratti dall’immaginario delle diverse fedi, frutto della prima cristallizzazione dei valori umani alla ricerca di definire un insieme di precetti e comportamenti apparentemente avulsi da una cultura e da un tempo ma in realtà frutto della codificazione di rapporti sociali e produttivi: basti pensare alle immagini bibliche o evangeliche del rapporto servo padrone, padre figlio, uomo donna ecc.
[4] Per spiegare il cambiamento l’analisi marxista non basta. La concentrazione del capitale finanziario, gli effetti della caduta tendenziale del saggio di profitto (supposta!) non possono nascondere che il capitale è capace di progettare e programmare e non riescono a nascondere il rapporto tutto da indagare tra sviluppo della tecnica (scienza-tecnologia-manualità) e sviluppo del capitale e il nuovo rapporto tra informatica e connessa rivoluzione tecnologica e capitale. Cambia la concezione del tempo, della distanza, e sul piano economico c’è una diversa configurazione delle materie prime come della gestione delle scorte, ecc.
[5] È lo Stato o quella parte di esso che dovrebbe garantire funzioni di supporto alla collettività ad entrare in campo. Infatti noi, in quanto comunisti anarchici, siamo per l’abolizione e il superamento dello Stato in quanto apparato del capitale ma non contro l’esistenza di strutture di gestione collettiva dei beni pubblici, dei cosiddetti beni comuni, anzi crediamo che lo sviluppo di strutture collettive di tutela sociale vadano perseguite.
[6] CILIBERTO, Michele, Quell’asociale di Stirner, in Il Sole 24 Ore, a. 154, n° 227, 19 agosto 2018, p. 23