NUOVI FUOCHI IN MEDIO ORIENTE

Con una decisione improvvisa il principe ereditario Mohammed bin Salman dell’Arabia Saudita ha disposto l’arresto del principe miliardario saudita Alwaleed bin Talal e altri unici principi e trentotto di ex ministri, accusati di aver messo “il loro interesse personale al di sopra di quello pubblico”. Il principe Miteb bin Abdullah, tempo fa considerato un contendente al trono saudita, è stato invece rimosso dalla carica di capo della Guardia Nazionale. In tal modo il potere torna saldamente in mano della famiglia reale o almeno di quella sua componente molto vicina all’attuale amministrazione USA. E’ questo uno degli effetti della recente visita di Trump a Riad e soprattutto un passo necessario per gli Stati Uniti per riprendere l’iniziativa nello scacchiere mediorientale dopo il successo indubbio di Putin in Siria e il consolidamento di Assad. Gli Stati Uniti sono preoccupati dal rafforzamento complessivo dell’asse sciita che condiziona fortemente la politica iraniana. L’Iran dopo essersi stanziato nel nord del paese (regione a maggioranza sunnita), dopo la sconfitta dell’ISIS, sostiene e finanzia gli Hezbollah libanesi, appoggia i ribelli Houthi in Yemen; e gli USA guardano con preoccupazione al rafforzamento e radicamento di Putin nell’area mediorientale e perciò hanno deciso di far saltare definitivamente gli equilibri politici nell’area. La vittima sacrificale sembra essere inevitabilmente il Libano, ma questa volta la guerra verrebbe condotta per procura dall’Arabia Saudita e da Israele che sembrano destinate a stringere un’inedita alleanza, stante alle dichiarazioni del capo di stato maggiore israeliano.
La balcanizzazione del Libano Uno scontro rinnovato tra le diverse fazioni libanesi getterebbe il paese nel caos e alimenterebbe il flusso già immenso di profughi che da sempre ormai è stanziato nei suoi confini. Ai profughi palestinesi sopravvissuti dopo la guerra arabo-israeliana del 1948 (persone stimate 270 mila), molti dei quali vivono nella valle della Bekaa, si sono aggiunti un milione di siriani registrati e altri 500 mila siriani non registrati, 42 mila rifugiati palestinesi provenienti dalla Siria, 35 mila libanesi ritornati in patria: complessivamente circa 2 milioni di persone su una popolazione totale di circa 6 milioni. In sostanza oggi in Libano una persona su tre proviene dalla Siria o è un rifugiato palestinese. La rinascita degli scontri tra le diverse fazioni, che tra l’altro mal sopportano questo numero così grande di ospiti, aprirebbe la strada a un massacro e comunque costituirebbe un incentivo potente alla ripresa di un’emigrazione politica verso l’Europa.
L’obiettivo sembra a prima vista ricco di implicazioni negative anche a causa del coinvolgimento negli scontri della Turchia, paese appartenente alla Nato e nel quale hanno sede le principali basi Usa, ma non è escluso che anche per far fronte all’accordo tacito sul campo tra Russia e Turchia che ha visto riconoscere a quest’ultima un’influenza su una parte del territorio siriano, gli Usa pensino di scaricare il loro “infedele” alleato ottenendo nuove e più avanzate basi all’interno del territorio tutto da definire di un’entità politica curda della quale gli Usa non possono oggi fare a meno, se vogliono mantenere – come si dice in termini di strategia militare – lo scarpone sul campo senza impegnare proprie forze di terra.
In questo gioco complesso di interessi ai quali non è estraneo decidere chi sfrutterà e commercializzerà le risorse petrolifere della regione di Kirkuk sono chiamati a partecipare in prima persona un numero sempre maggiore di Stati, al punto che diventa difficile quale sia lo sbocco finale di questo sempre più ampio campo di battaglia. In gioco non c’è solo il progressivo logoramento dei diversi contendenti, ma il tentativo di arrivare a un tavolo negoziale dove da un lato verrà misurato il peso dell’influenza dei nuovi attori presenti nello scacchiere, ma anche un diverso assetto del potere regionale.
Comunque lo scontro si concluda non vi sono dubbi che la conflittualità inter araba riceverà alimento come è indubbio che ne beneficeranno i venditori di sistemi d’arma sempre più distruttivi ai diversi contendenti. In gioco poi c’è l’attuazione del progetto redatto proprio da Alwaleed bin Talal, “Vision 2030”. Si tratta di un imponente progetto per ridurre progressivamente la dipendenza dell’economia saudita dall’estrazione del petrolio, di cui detiene circa un quinto delle riserve mondiali, che prevede investimenti in ogni settore industriale e che coinvolgerebbe in modo assolutamente rilevante l’economia americana e alla cui attuazione è interessato Jared Kushner, genero del presidente americano Donald Trump e suo consigliere personale che non a caso è stato uno dei più attivi membri della delegazione USA durante la visita di Trump.
C’è da aggiungere che Vision 2030” ha anche delle implicazioni a carattere sociale e porta con se alcune innovazioni come la concessione della guida alle donne e una parziale seppur timida apertura verso un islam più tollerante che è quello sgradito invece ai religiosi dell’establishment wahabita. Da decenni la famiglia reale ha ottenuto il loro appoggio in cambio del controllo di alcuni settori chiave del paese come l’istruzione, il sistema giudiziario e anche la segregazione delle donne. Per rafforzare la sua presa sul paese, Alwaleed bin Talal tenterà probabilmente di scardinare il loro potere, come annunciato nelle interviste in cui ha anticipato il ritorno di un Islam “moderato”. Bisognerà capire se e quando l’establishment wahabita deciderà di reagire.

G.L.