L’attenzione i tutti i media del mondo è concentrata sul vertice di Copenaghen, in trepida attesa di quel che ne sortirà: nuovo accordo vincolante (per chi lo sottoscrive e che poi lo applica davvero), nuovo accordo con semplice dichiarazione d’intenti, nessun accordo, etc.). l’unica cosa certa è l’imputato: l’accumulo dei cosiddetti gas serra nell’atmosfera terrestre ed il conseguente riscaldamento globale del pianeta.
È curioso che un effetto, ovviamente preoccupante e da tenere sotto stretto controllo, tenga banco così prepotentemente nelle agende politiche di tutti i paesi e di tutti i movimenti ambientalisti. Perché due cose sono assodate. La prima è che il riscaldamento della terra è stato inferiore ad un grado e mezzo negli ultimi centocinquanta anni; tra l’altro il famoso punto di non ritorno circa la temperatura della Terra continua ad oscillare tra il 2050 ed il 2100. E la seconda è che altre emergenze urgono alle porte della sicurezza del nostro futuro relativamente ai disastri ambientali: piogge acide che distruggono interi tratti di costa, rifiuti altamente inquinanti smaltiti in un moda tale da non suscitare alcuna tranquillità, cambiamenti climatici dovuti alla dissennatezza con cui immense aree verdi vengono adibiti a culture adatte a imbandire le nostre tavole, ma che creano disequilibri spesso irreversibili, e così via.
Circa mezzo secolo fa un gruppo di scienziati lanciò un allarme sulla possibile implosione del sistema ambientale se gli allora livelli di incremento produttivo fossero continuati al ritmo dell’epoca: pubblicarono un saggio intitolato “I limiti dello sviluppo”. I ritmi di crescita sono aumentati e le fosche previsioni non si sono avverate, ma negli anni settanta prese corpo l’industria del disinquinamento, con i relativi profitti. Da allora diffido degli allarmi catastrofisti, che pure si basano su fatti reali, perché mi viene sempre da chiedermi. “cui prodest?”
Ovviamente ciò non significa che si possa continuare ad ignorare i problemi, tanto qualcuno li risolverà, prima o poi. Ma quando partono campagne mediatiche in grande stile è opportuno sempre chiedersi quali interessi esse servano, visto che è difficile credere alla reale preoccupazione di chi i disastri li provoca nella più pura logica del profitto a qualunque costo, per poi gridare al pericolo e fare altri profitti per rimediare al mal fatto.
Credo che l’attuale situazione, più che riguardare la morigeratezza dei paesi nei confronti dell’inquinamento da CO2, sia da inquadrare in una guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti (cui naturalmente l’Europa fa spettatore impotente: la prima chiede agli Usa di Obama (salito alla casa Bianca con l’auspicio delle industrie legate alle energie alternative) di fare il passo più grande, come doveroso da parte della nazione che più emette e più consuma; la seconda chiede alla Cina di rallentare l’invasione del mercato mondiale, con una concorrenza basata sul basso costo della manodopera e sull’assoluto disprezzo dei problemi ambientali.
Nulla di buono ne può uscire e fanno bene i gruppi ambientalisti ad inscenare vibrate proteste nella capitale danese. Ma pure a questi ultimi qualcosa si può addebitare. Precisamente lo spargere la convinzione che siano i nostri comportamenti individuali che vadano cambiati per salvare il salvabile. Ciò è negativo da due punti di vista. Prima di tutto, se è vero che uno stile di vita più attento agli inutili sprechi non è incompatibile con una dimensione che preserva livelli accettabili di benessere, è ben più vero che gli eccessi da un lato sono prima di tutto nel sistema produttivo e dall’altro sono frutto di un attenta campagna che induce i bisogni: la frutta fuori stagione, ad esempio, è una grande fonte di inquinamento sia laddove si produce, sia per i trasporti che comporta, ma la mostra che essa fa nei supermercati non induce certo a questa riflessione
La cosa principale è un’altra. I comportamenti individuali, seppur utili e virtuosi, non cambiano sostanzialmente la radice reale dei problemi. Sono i processi produttivi legati al profitto che generano gli squilibri, incuranti di essi, ma che poi, come detto, addirittura ne traggono ulteriori profitti. Addossare, invece, le colpe agli individui, vittime di un vortice che non controllano, come fanno, ad esempio i teorici del non sviluppo, non solo vuol dire errare il segno cui mirare, ma anche e per di più allontanare la coscienza che solo un radicale cambiamento dei rapporti sociali di proprietà può risolvere realmente i problemi che il capitalismo di rapina, ovverosia tutto il capitalismo, continua a generare.