Osservatorio economico

 

serie II, n. 30, dicembre 2015

Germania – Tutte le stime di crescita del Pil a livello mondiale sono ottimistiche, in quanto antecedenti ad alcuni fatti di “scarso rilievo” per l’economia internazionale: il rallentamento del mirabolante sviluppo della Cina e gli “infortuni” della macchina produttiva tedesca (ovviamente dentro le ottimistiche previsioni complessive si situa anche la stima che riguarda l’Italia). La Cina sta dimezzando il proprio ritmo di crescita, che all’inizio dell’anno corriva sul filo del 12% ed ora viaggia poco sopra il 6%; è inutile dire che tale ridimensionamento incide pesantemente sulle possibilità di esportazione di tutti i paesi, visto il ruolo centrale che l’economia cinese aveva conquistato nell’arengo internazionale grazie alle difficoltà del primo e del secondo mondo. Non meno importante appare la situazione del motore produttivo dell’Unione Europea, la Germania. Il caso Volkswagen non è che la goccia che fa traboccare il vaso: è vero che essa è una delle aziende tedesche più importanti, ma è anche vero che con ogni probabilità i trucchetti sulle auto diesel non sono un’esclusiva del gruppo di Wolfsburg, ma rischiano di coinvolgere molti altri marchi. Inoltre la Volkswagen è un’azienda troppo grande per essere abbandonata al tracollo, con grave rischio per l’intero mercato dell’auto. Uno dei pochi che ancora tira a livello globale. La verità è che l’economia tedesca batteva in testa già prima dello scandalo diesel; infatti l’export della Germania era già calato dai 103,3 miliardi di € di luglio ai 97,7 di agosto (-5,24%) toccando il punto più basso dal febbraio 2015 (“Il Sole 24 Ore”, a. 151, n° 278, 9 ottobre 2015, p. 5). Tant’è che le previsioni baldanzose di una crescita del 2,1% del Pil 2015 formulate ad aprile sono state riviste al ribasso, prima all’1,9% e poi all’1,7% (“Il Sole 24 Ore”, a. 151, n° 306, 6 novembre 2015, p. 5).

Stabilità – l’Italia felice che la propaganda valdarnese continua a dipingere giorno dopo giorno deve per forza ignorare la crudele realtà dei fatti. Il governo si è catapultato in promesse mirabolanti volte a suffragare le magnifiche sorti e progressive dell’universo renziano. Per tenere alto il morale delle truppe il rancio deve sempre essere ottimo ed abbondante; e così tutte le notizie, anche le più sconfortanti devono subire una patina di belletto che le faccia apparire positive, oppure, ove ciò non sia possibile, passare sotto silenzio. Inosservata, ad esempio è passato il dato economico dello scorso agosto: le vendite sul mercato interno sono calate del 2,2% e l’export e sceso dello 0,5% per un calo complessivo del fatturato dell’1,6%: per di più gli ordinativi sono crollati del 5,5% (“si tratta del dato peggiore dal settembre 2011”, titolava “Il Sole 24 Ore”, a. 151, n° 293, 24 ottobre 2015, p. 11). Nel disastro si salvavano solo i mezzi di trasporto (+21%), per le cui prospettiva future si rinvia al punto precedente. Invece è stata presentata come una luce in fondo al tunnel la notizia delle ultima stime di crescita fornite dall’UE: “La Ue alza le stime di crescita per l’Italia” (“Il Sole 24 Ore”, a. 151, n° 306, 6 novembre 2015, p. 5); il clamore stava nel fatto che le ultime stime dell’Unione accreditavano per l’Italia un +0,9% che rivedeva il precedente +0,8%, un fatto enorme!

Un po’ di storia non fa male. Inizialmente il governo aveva avanzato un ipotesi di crescita dello 0,7% (l’ottimista onirico aveva subito detto che la stima era prudenziale e che forse si sarebbe giunti addirittura all’1%), poi il dato era stati rialzato allo 0,9% e la stima dell’UE confermava questa previsione. Peccato che nessuno si sia curato del contorno: le stime dell’Unione facevano riferimento ad un quadro di crescita globale che non teneva conto dei fattori di crisi che si sono di recente innescati (Cina e Germania); contemporaneamente il Fondo Monetario Internazionale forniva (sempre all’interno di un contesto internazionale di fiducia complessiva) una stima dell’Italia dello 0.8%; infine anche l’1% lascerebbe l’Italia all’ultimo posto, in termini di crescita, ben al di sotto della media dell’Eurozona (+1,6%) e del 3,1% della Spagna (dietro di noi ci sarebbero solo la Finlandia con lo 0,3%, su cui occorrerebbe riflettere, ed ovviamente la Grecia con -1,4%). Poi è successo un fatto di nuovo passato sotto silenzio, il terzo trimestre del 2015 ha segnato una crescita solo dello 0,2%, inferiore allo 0,3% del secondo trimestre, che rende tendenzialmente più difficile raggiungere il mitico obbiettivo del +0,9% a fine anno. Tutta questa lunga storia della crescita del Pil è importante per capire la fragilità della legge di stabilità (l’ossimoro è puramente volontario) in discussione attualmente in Parlamento. Di fatto le ipotesi di crescita stanno alla base della sostenibilità della legge in fieri e se queste saltano, cade il castello di carta. Questo, però, non è l’unico problema. Stiamo parlando di una manovra di circa 30 mila mld di € (29.600 per l’esattezza). Circa i due terzi delle uscite servono a coprire i mancati introiti derivanti dalla sterilizzazione delle clausole di salvaguardia, e se le coperture per farvi fronte venissero a mancare, le tasse nel 2016 salirebbero vertiginosamente. Per inciso la tassazione, nonostante la martellante propaganda contraria, non è prevista calare nell’anno prossimo per effetto della legge di stabilità e con la prevista abolizione della tassa sulla prima casa; ciò che ci aspetta è un aumento del prelievo fiscale che passa dal 44% del 2015 al 44,2% del 2016 (“Il Sole 24 Ore”, a. 151, n° 289, 20 ottobre 2015, p. 3). I problemi veri si presentano sul fronte delle previste entrate. Se entrate si possono considerare. 2 mila miliardi “dovrebbero provenire dalla “voluntary disclosure”, ovverosia dal rientro volontario e agevolato dei capitali all’estero e relativa tassazione (l’operazione sembra procedere bene, anche se ne sono stati prorogati i termini, a testimoniare che l’obiettivo non è stato ancora raggiunto; 500 miliardi dovrebbero venire da nuove gare per gli appalti dei giochi d’azzardo, con buona pace per coloro che credono che il governo miri a ridurre la loro proliferazione; ben 5.800 mld sono previsti provenire dalla “spending review” (o più facilmente detta “revisione della spesa”), peccato che se ne siano perse le tracce e l’ultimo commissario ad essa preposto e nominato da Renzi sia andato via sbattendo la porta. La nota più dolente concerne il fatto che la metà delle coperture (14.600 mld) provengano dalla voce “flessibilità UE”, ovverosia il permesso richiesto di soprassedere al “fiscal compact”, diminuzione drastica massiccia in più anni di contrazione del debito pubblico e quindi prioritariamente del deficit annuale, misura varata dal governo Monti, e giocondamente approvata da quasi tutti i partiti nel 2012 in ossequio ai voleri dell’Europa. Qui le considerazioni sono molte. Prima di tutto non saremo certo noi a difendere il rigore ed i parametri di Maastricht, per altro ampiamente disattesi da Spagna, Francia e Germania, ma qui il fatto è che queste non sono entrate ma ulteriori spese e che queste spese servono solo alla campagna elettorale del nefando (cioè di colui di cui non è bene pronunciare il nome). Secondo di poi, non pare che per ora la Commissione Europea abbia concesso tale flessibilità e che per avere una risposta nel merito occorrerà aspettare la primavera; non è inutile ribadire che altri paesi hanno fatto e stanno facendo largo uso dello sforamento del parametro del 3% come massimo possibile di deficit annuale in rapporto al Pil, a riprova di quale peso abbia l’Italia nel contesto continentale: a Renzi non viene concesso non di sforare il limite del 3%, ma neppure di avvicinarcisi. Infine c’è il rischio concreto che la mancata concessione dell’intera flessibilità richiesta, invalidi l’intero impianto della manovra, costruita in deficit, e che questo si risolva in un forte aumento della tassazione; in tal modo tutti verrebbero chiamati a pagare l’abolizione della tassa sulla prima casa anche a coloro che, possedendo case di pregio, potrebbero ben permettersi di pagare un migliaio di €, o più, all’anno, senza per questo ridursi alla fame, mentre l’aumento dell’IVA e delle accise andrebbe a gravare maggiormente sui ceti meno abbienti.

chiuso il 23 novembre 2015