Politica agricola comune (PAC): i nodi vengono al pettine

La crescente intensità delle manifestazioni degli agricoltori in tutti i paesi d’Europa è indice di una crisi crescente dell’Unione che rischia di travolgerla. Ciò che accade è la risultante di alcune scelte che occorre prendere in esame per capire come correre ai ripari e superare la crisi. Per capire bisogna risalire al progetto della leadership attualmente al governo dell’Europa che ancora prima della crisi pandemica valutava come un pericolo da affrontare il fenomeno progressivo e crescente della globalizzazione. L’eccessivo peso della logistica nelle dinamiche dell’economia aveva indotto ad una riflessione, accentuata dalla pandemia, sulla insostenibilità delle relazioni economiche tra le diverse aree del pianeta per come si erano strutturate per effetto di una globalizzazione selvaggia e non governata. La pandemia ha rivelato la debolezza strutturale del sistema e indotto l’Unione europea a riflettere sugli effetti di una eccessiva delocalizzazione produttiva. Da questa riflessione è nata la proposta di adottare un nuovo sistema di relazioni economiche sintetizzato nella formula della politica green e che noi preferiamo definire più compiutamente “economia neocurtense”.

Il passaggio all’economia neocurtense

Con questo termine definiamo uno dei modelli possibili di gestione della deglobalizzazione; si tratta di un modo diverso e più articolato per definire l’economia green, alla quale fa riferimento dell’Unione, perché ricomprende alcune caratteristiche organizzative e strutturali che non appaiono evidenti ponendo al centro pressoché esclusivo dell’intervento sull’economia quello della transizione energetica. Questa strategia di ristrutturazione produttiva e sociale, messa a punto
in Europa, si propone di superare il tema del fabbisogno energetico attraverso l’adozione di un’economia green, ma prevede anche il parziale rientro delle produzioni strategiche essenziali nel territorio dell’Unione, ridimensionando l’incidenza della logistica nel processo produttivo e facendo tesoro dell’esperienza maturata con la pandemia che consiglia di non esternalizzare l’intero ciclo produttivo dei beni essenziali a garantire i servizi e i bisogni essenziali al fine di mantenerne la disponibilità.
L’economia neocurtense presuppone la costruzione di un modello produttivo peculiare, che ingloba schemi produttivi di relazioni economiche e sociali preesistenti e utilizza la coesistenza di modelli di sfruttamento differenziati, fa convivere sistemi produttivi “arretrati” tecnologicamente,come il lavoro a domicilio, con “isole” produttive altamente
tecnologiche e automatizzate.
Dal punto di vista della struttura sociale dello sfruttamento delle risorse sul territorio questi aggregati produttivi, o “isole”, dovrebbero essere organizzate economicamente in modo da sottrarsi alla notevole pressione fiscale esercitata dallo Stato, esternalizzano la sede sociale dell’impresa, in modo da sottrarsi alle imposizioni fiscali dello Stato, visto come depauperatore della ricchezza prodotta. La natura spiccatamente di classe del progetto emerge dalla scelta di non avere cura di distribuire il reddito prodotto sui territori, ma limitarsi a promuovere la maggiore estrazione di profitto possibile.
Nell’economia neocurtense il territorio e la sua gestione rivestono un’importanza fondamentale in quanto forniscono all’insieme di consumatori e fruitori dei prodotti, distribuiti secondo livelli di reddito differenziati, secondo uno schema articolato sui titolari e destinatari di diritti censitariamente amministrati, ritenendo fisiologica e tollerabile una quota percentuale di poveri assoluti. Il mercato del lavoro è fortemente segmentato e comprende una fascia ristretta di lavoratori impiegati nelle isole produttive che galleggiano su un mercato del lavoro dequalificato, spesso costituito da popolazione migranti, titolare di rapporti di lavoro precari e occasionali, incerti e non garantiti, con salari di sussistenza al limite dell’indigenza. Questi lavoratori sostengono il modello economico con il loro reddito, anche se marginale, e con il versamento dei contributi sociali, ma vivono una situazione precaria e possono essere espulsi in qualsiasi momento. I produttori piccoli e medi, ma anche i titolari di insediamenti a carattere multinazionale, preferiscono codeterminare e sottomettersi alle forze locali che gestiscono uno specifico territorio per sfuggire agli oneri di natura economica contratti verso lo Stato e perciò alimentano processi di decentramento e delocalizzazione politica e amministrativa.

Il progetto entra in crisi

Proprio quando il progetto stava per partire e le prime decisioni erano state adottate dal Parlamento europeo in materia di politica green esplode la crisi, pilotata e voluta, della guerra d’Ucraina. Questa scelta strategica viene vista dai competitors internazionali dell’Europa come un modo per sottrarsi alla concorrenza, il che costituisce un pericolo per tutte le economie basate sull’esportazione e il commercio, poiché il continente europeo rappresenta il più ricco e vasto mercato del mondo ma, a differenza di quello statunitense, è contendibile. Perciò per i tanti competitors dell’Europa comunitaria bisogna mettere in crisi l’economia del continente, colpendola dove essa è più vulnerabile: la disponibilità di energia a basso costo, garantita dai rapporti di fornitura energetica con la Russia. Questa partnership va spezzata, alimentando la conflittualità laddove le condizioni sono più favorevoli: da qui il sostegno alle rivendicazioni ucraine e
l’inserimento della crisi irrisolta delle relazioni tra Ucraina e Russia nel confronto internazionale, approfittando del fatto che il conflitto è in stallo già dal 2014.
L’interruzione delle forniture energetiche non è la sola conseguenza della guerra d’Ucraina, perché ad essa si aggiunge la necessità di reindirizzare il bilancio dell’Unione europea e dei paesi che ne fanno parte verso l’economia di guerra, dovendo necessariamente sottrarre risorse ad altre spese, non ultime quelle necessarie a finanziare il processo di trasformazione green dell’economia. Dalle ragioni su esposte discende una crescita incontrollata nel costo dell’energia, con il risultato che questa voce incide enormemente sul costo di produzione delle merci ed è l’intero bilancio comunitario a dover essere reindirizzato per provvedere alla fornitura di armamenti e munizioni all’Ucraina, per sostenere le spese di uno Stato fallito e corrotto, per accogliere i milioni di profughi che lasciano il paese sotto la minaccia delle bombe e della guerra. Apparentemente nulla cambia e l’Unione europea procede nel varo della politica green per la quale, tuttavia non esistono più le risorse.

L’impegno nella guerra Ucraina

Oggi, i nodi vengono al pettine e l’intero sistema dell’informazione non riesce più a mentire ed è costretto ad ammettere che dicevamo la verità quando affermavamo che esiste una diretta connessione tra la guerra in Ucraina e i sacrifici che essa comporta sul bilancio dell’Unione europea. Le manifestazioni degli agricoltori che in tutti i paesi
d’Europa si ribellano contro la politica agricola comunitaria (PAC) sono motivate dal fatto che sono essi chiamati a pagare i costi della guerra perché al loro comparto vengono sottratte le risorse.
Infatti pur di reperire le risorse economiche occorrenti a finanziare la guerra d’Ucraina, combattuta in nome della salvaguardia dei principi dell’Unione, peraltro più volte violati negli stessi paesi che ne fanno parte, si fa di tutto: lo scontro in atto viene presentato come la difesa di un paese democratico, che democratico non è, ma è un’oligarchia, in
tutto simile a quella con la quale l’Ucraina combatte, e cioè con il regime di Putin. I contendenti di questa guerra sanno bene che le vere sole vittime del conflitto sono i popoli ucraino e russo, chiamati a dissanguarsi sui campi di battaglia e ad affrontare le conseguenze devastanti di un conflitto fratricida e che la difesa di istituzioni democratiche è uno specchietto per le allodole. Lo si comincia a vedere con chiarezza ora che il conflitto sembra aver ottenuto gli obiettivi che i suoi veri sostenitori e sponsor perseguivano , e cioè quello di mettere in crisi le scelte economiche e di sviluppo dell’Unione. Sta accadendo infatti che la necessità di reperire risorse, di fronte al venir meno probabile del finanziamento statunitense che costituiva una parte rilevante dell’investimento necessario alla guerra, diviene necessario reperire risorse da altre poste di bilancio, tra queste da quello agricolo dell’Ue., dimenticando che la PAC è stata alla base della coesione e del successo della politica comunitaria.
All’opinione pubblica si racconta che gli agricoltori scendono in piazza con i loro trattori per denunciare le restrizioni di bilancio, la diminuzione dei finanziamenti a livello comunitario e statale, la crescita delle imposizioni fiscali, si additano a causa delle loro proteste gli effetti delle politiche ambientaliste e la riduzione della superficie coltivabile, ma in realtà la situazione è ancora più complessa poiché la scelta scellerata di manifestare la solidarietà verso l’Ucraina creando “corridoi di solidarietà” per i suoi prodotti agricoli per far fronte al blocco del commercio sul Mar Nero, ha consentito agli oligarchi ucraini, proprietari dei terreni agricoli e le multinazionali, di vendere le loro merci sul mercato interno europeo ,facendo concorrenza ai produttori comunitari e lasciando invenduti parte dei loro raccolti.
Si è trattato di una concorrenza sleale perché non solo i commercianti ucraini hanno guadagnato facendosi pagare le merci in euro, per loro moneta pregiata, ma hanno venduto sul mercato prodotti, evitando i severissimi controlli comunitari sui modi di produzione delle derrate alimentari, applicate alle merci dei paesi europei, con il risultato che è entrato in crisi il delicato sistema dell’economia agricola comunitaria, con danni profondi ai bilanci degli agricoltori di tutti i paesi d’Europa. Da qui le proteste e la richiesta di interrompere questi trattamenti speculativi di favore verso gli ucraini, arginati con ritardo da un numero crescente di governi, attraverso l’adozione di provvedimenti protezionistici.
A tutto questo si è aggiunta l’abrogazione di una serie di misure di sostegno previste dalla PAC che riequilibravano i costi di produzione degli agricoltori, nonché restrizioni delle quote di terreno coltivabile, l’imposizione di rotazioni quadriennali obbligatorie, che hanno ridotto le capacità produttive delle aziende, approvato l’abolizione dei dazi con il Mercosur il che ha creato una situazione economica insostenibile nel rapporto prezzi di produzione – profitti, mettendo sulle spalle degli agricoltori il costo della riconversione green dell’economia e i costi crescenti della guerra.
È questo insieme di motivi che ha provocato la crisi della politica agricola che coinvolge l’Europa ed essa sarà difficilmente risolvibile a meno che i politici comunitari tutti, impegnati ad affrontare le prossime elezioni, non decidano che il costo del sostegno all’ineffabile istrionico partner ucraino è troppo alto da sopportare e che quindi occorre rivedere gli impegni profusi nello sforzo bellico e arrivare comunque e al più presto a una trattativa.
Assediata dai trattori la classe politica europea sembra aver dato l’ordine “indietro tutta!” e sta ritirando molte delle decisioni adottate, ma ormai le problematicità della politica agricola sono esplose e riguardano la ridefinizione delle politiche di filiera,il costo della grande distribuzione, il suo peso sul prezzo del prodotto che annulla i profitti degli
agricoltori, il rapporto tra grandi e piccoli produttori, e tanto altro.

La Redazione

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