Economia di guerra, inflazione, scioperi

Un tempo, quando il proletariato era consapevole della propria coscienza di classe, alle prime avvisaglie di una possibile guerra si mobilitava per opporsi alla lotta fratricida tra i popoli, consapevole che la guerra è strumento dei padroni per distruggere e ricostruire, rilanciando il profitto e consolidando lo sfruttamento e il
dominio di classe. A stimolarlo verso la mobilitazione e alla lotta, a difesa dei suoi interessi, un’avanguardia rivoluzionaria che si era sedimentata nel tempo come prodotto della coscienza di classe e della memoria storica del proletariato.
Oggi, ogni punto di riferimento sembra essere scomparso e le masse assistono attonite e disorientate alla guerra, anche quando essa è vicina e minaccia di scatenare un conflitto mondiale che causerebbe danni immensi e irreparabili.
Tuttavia, esse intuiscono che questo è uno degli indicatori essenziali ad individuare la collocazione di classe di una aggregazione politica che difenda gli interessi e valori del proletariato e non riconoscono anima e identità alle forze politiche della sinistra, sia che esse si dichiarino rivoluzionarie o anche semplicemente riformiste quando queste promuovono la guerra. Risiede nell’accettazione della guerra la ragione prima della perdita di identità della sinistra, la causa profonda che negando alla radice le cause fondanti del suo essere tale, produce a cascata quella perdita di valori e di progettualità che oggi vede prevalere il progetto politico delle destre e arretrare le posizioni delle forze anche solamente progressiste e liberali.
Con uno sguardo particolarmente attento all’Europa va detto inoltre che se è vero che la guerra è una costante della politica e che ve ne sono tante nel mondo, quella d’Ucraina tocca da vicino tutto il continente non solo per la collocazione geofisica del paese, ma anche per le conseguenze immediate e dirette che essa ha sugli equilibri politici ed economici del mondo intero. A causa del conflitto le economie dei paesi dell’UE e della stessa Unione, in particolare, hanno destinato una parte non irrilevante delle loro risorse al finanziamento della guerra, sottraendole ad un impiego civile e sociale, hanno dovuto ristrutturare e riorientare l’utilizzazione di infrastrutture produttive e il percorso neurale degli assi commerciali e di sviluppo e ancora molto dovranno fare per trovare un nuovo assetto, annullando il valore di investimenti decennali. Ciò vuol dire ai costi della guerra si sono aggiunti e resi necessari ed urgenti nuovi investimenti
che hanno sottratto risorse che avrebbero potuto e dovuto essere destinati al sostegno del welfare in crisi, alla lotta all’emergenza climatica, a contenere combattere e almeno limitare la povertà, investimenti volti a contenere la crisi demografica che sta spopolando il continente europeo.

Le ripercussioni in Europa

Tutto questo non poteva che avere ripercussioni a livello sovrastrutturale e mettere in discussione ruolo e funzione delle istituzioni, incidendo profondamente sullo stato di diritto e sull’insieme di quella che è la conquista più preziosa e originale dell’Europa unita: l’aequis comunitario, ovvero quell’insieme di diritti e di obblighi giuridici e obiettivi politici che – pur fra tante ambiguità e insufficienze – accomunano e vincolano gli Stati membri dell’Unione europea che devono essere condivisi e caratterizzare gli ordinamenti dai paesi che vogliano entrare a farne parte. I paesi candidati, infatti, devono accettare l'”aequis” per poter aderire all’Unione europea e per consentire una piena integrazione, devono accoglierlo nei rispettivi ordinamenti nazionali, adattandoli ad esso, applicandolo a partire dalla data in cui divengono membri della UE a tutti gli effetti.
Ma oggi la guerra rischia di rendere possibile il suo stravolgimento: ciò avverrebbe accogliendo per ragioni politiche e strategiche l’ingresso dell’Ucraina nell’unione – Stato dotato di un ordinamento tra i più estranei all’aequis comunitario – che finirebbe per cambiare profondamente l’assetto fondativo dell’Unione europea più di quanto ha già
fatto. Basti pensare che già oggi i paesi dell’Unione si trovano in uno stato di guerra non dichiarata, ma effettiva, senza che nessun Parlamento statale né quello unionale abbiano formalmente dichiarato guerra e senza che i cittadini siano stati chiamati a pronunciarsi a riguardo. Non solo, ma elevare l’Ucraina a primo candidato ad entrare nell’Unione mortifica gli sforzi decennali di altri paesi che da anni ambiscono a farne parte, creando un vuoto politico nell’area balcanica nel quale si stanno inserendo altri interessi come quelli turchi, con grave danno per la coesione del continente.
Ciò malgrado lo sforzo bellico a favore dell’Ucraina continua, si intensifica, assorbe risorse, e ancor più è destinato a crescere col tempo, alimentando vecchie e nuove emergenze, a cominciare dalle migrazioni interne – necessità di ospitare e redistribuire gli ucraini in fuga – che si aggiungono ai migranti dall’esterno del continente per crisi climatica alimentare e ulteriori guerre, nonché l’esodo prodotto dai disastri naturali, come il recente terremoto catastrofico in Anatolia, in Siria, nel Kurdistan e territori limitrofi. Non ha alcuna importanza se nell’opinione pubblica l’opposizione alla guerra cresce fino a superare il 50% in tutto il continente e in Italia raggiunge il 70%. Eppure nessuno ha osato osservare in un’informazione velinara e di guerra, ad opera di una stampa di fatto censurata che non vi è nessun partito politico che ha osato rivendicare la rappresentanza politica di un’opposizione alla guerra.
Non deve perciò stupire che tutti i tanti partiti della cosiddetta sinistra europea siano in crisi di identità e vengono battuti ovunque dalle destre. Essi hanno perso il proprio DNA e perciò non c’è da meravigliarsi se di fronte ai neofiti della reazione i pochi rimasti a votare scelgono l’usato sicuro, ovvero, i partiti e le forze politiche che storicamente
rappresentano quella parte di ceto sociale benestante che costituisce la base sociale e quindi elettorale dei regimi oligarchici, o per dirlo come è di moda oggi, delle democrature, dove il corpo elettorale si riduce al 30 – 40% degli aventi diritto, perché la guerra, uccide anche le democrazie liberali.
Il modello istituzionale di governo oligarchico consente di dichiarare guerra per decreto, forte del fatto che gli Stati, dotatisi di eserciti professionali, non hanno bisogno di ricorrere alla mobilitazione popolare per condurre in guerra il paese. Prova ne sia che attualmente l’Italia ha impegnato le proprie forze armate in 37 missioni “di pace” e nessuno lo sa o se ne accorge: quello di militare è diventato un mestiere come un altro! Un mestiere per il quale da tempo si addestrano uomini e donne, si preparano armi: dal 2014 paesi Nato, e in particolare la Gran Bretagna, addestrano gli ucraini alla guerra e nessuno ha dato segno di accorgersene, salvo poi dichiarare la Russia paese aggressore e stupirsi che all’improvviso scoppi una guerra.

L’inflazione

Per quanto riguarda la classi subalterne uno degli effetti più macroscopici di quando sta avvenendo è la crescita dell’inflazione, innescata da una crisi economica e da una guerra sui mercati già palese prima della pandemia [1], da questa aggravata e definitivamente scatenata con la guerra combattuta sul campo e l’obiettivo (raggiunto) da parte USA di piegare la competitività del modello produttivo europeo, elevando a livelli esponenziali il costo dell’energia e la sua incidenza per unità di prodotto, a tutto vantaggio dell’economia statunitense e avendo come effetto/obiettivo collaterale il
tentativo di dissoluzione della Russia.
La durata della guerra, l’effetto delle sanzioni, il riorientamento dell’economia russa sui mercati e il complessivo riallineamento delle economie verso nuove aree stanno nel tempo rivelandosi un danno non solo per l’economia europea ma anche per l’economia USA nel medio e nel lungo periodo. Le sanzioni alla Russia sono un sostanziale fallimento e nella guerra la sua economia cresce, come dimostrano i dati a disposizione di tutti. Ciò non toglie che i rischi di recessione siano superati, soprattutto per quanto riguarda alcuni paesi impegnati nello sforzo bellico, come la Gran Bretagna, per la quale si prepara una crisi che – si spera da parte nostra – porti alla sua naturale dissoluzione come entità statale di questo Stato, tanto più che venuta meno la coesione rappresentata dalla monarchia, Irlanda del Nord e Scozia sembrano avviati all’indipendenza.
Le autorità monetarie occidentali e soprattutto dell’UE – da parte loro – tentano di domare un’inflazione che ha superato il livello medio del 10% pensando di utilizzare il rialzo dei tassi e strumenti esclusivamente finanziari, mentre in realtà applicano politiche economiche sempre più restrittive che riducono il welfare, abbassano i salari e le pensioni, aumentano l’orario di lavoro e lo sfruttamento, accrescono il divario tra ricchi e poveri, aumentando la massa degli incapienti (coloro che vivono al di sotto della soglia minima di povertà anche quando percepiscono un salario) sul totale della popolazione, privatizzano istruzione e sanità.
Ne l’azione a danno dei proletari è settoriale; prova ne sono i più di 500 mila morti sul campo della guerra in Ucraina, il più di un milione di feriti, le sofferenze inflitte alla popolazione ucraina e russa: i costi della guerra, diretti e indiretti, li pagano i popoli. L’inflazione – che è una tassa sui poveri – continuerà dunque a crescere, almeno fino a
quando non si mette fine alla guerra e non riparte un ciclo di lotte che ponga al centro delle mobilitazioni e delle lotte l’interesse delle classi sfruttate. È quanto stanno cercando di fare i lavoratori inglesi, francesi e spagnoli, spinti dalla difesa immediata delle loro condizioni salariali e di vita, sempre più precarie.

Le lotte salariali in Gran Bretagna

È quanto sta avvenendo in Gran Bretagna dove il paese, trascinato in guerra da Boris Johnson, da Teresa Mey. Liz Trass, Rishi Sunak, in altri tempi avrebbe visto i suoi primi ministri processati per alto tradimento o almeno rinchiusi nella Torre di Londra quanto meno per le modalità con le quali hanno coinvolto il paese nel conflitto.
Ebbene è dal mese di giugno che nel paese è iniziata un’ondata di scioperi in risposta alla crisi economica e sociale prodotta dalla Brexit, dalla pandemia e dalla guerra. È pur vero che l’obiettivo è economico e riguarda i bassi salari, ma alle agitazioni che da allora continuano con intensità e sono programmate almeno fino alla fine del mese di
marzo riguardano il sistema dell’istruzione e quello sanitario ridotti allo stremo da anni di disinvestimenti e da una politica fiscale che premia i ricchi a tutto svantaggio delle classi meno abbienti, sulla quale le spese di guerra incidono pesantemente. La privatizzazione di servizi, il costo della vita non possono più essere affrontati con i bassi salari che sostengono un’economia sempre più debole che non è in grado di sostenere i costi imperiali di governi conservatori e guerrafondai e di un partito di opposizione labourista silente e prono alle scelte di una élite sempre più ristretta.
Il mese di febbraio è iniziato con uno sciopero di mezzo milione di lavoratori, coordinato e contemporaneo messo in atto da un vasto schieramento di categorie del settore pubblico: inclusi, per la prima volta in questa stagione di grande scontento, gli insegnanti dell’85% delle oltre 23.000 scuole non private d’Inghilterra, Galles e di 2 contee della Scozia.
L’agitazione ha coinvolto anche macchinisti dei treni, autisti di bus, personale di università, doganieri di porti o aeroporti, paralizzando in larga misura settori chiave per la vita di milioni di persone e famiglie, come l’istruzione e il trasporto ferroviario. Stazioni semi deserte, istituti scolastici sbarrati, uffici vuoti, anche se in piazza non si son viste le folle oceaniche insorte negli ultimi giorni a Parigi e nel resto della Francia contro la stretta sulle pensioni; tuttavia, i picchetti promossi sull’isola dalle varie sigle sindacali hanno visto la partecipazione compatta di lavoratrici e lavoratori al punto da costringere quasi il 90% delle scuole coinvolte alla chiusura parziale o totale. E il panorama era quanto di più vicino possibile a uno sciopero generale che la normativa britannica rende quasi impossibile se si vuole restare nella legalità.
Per chi conosce il paese si tratta di un quadro senza precedenti “da almeno 12 anni” per numero di lavoratori e categorie interessate all’unisono, stando al Trades Union Congress (Tuc). Il premier Sunak, ha insistito a negare di volere lo scontro totale, ma anche a invocare “ragionevolezza” contro richieste “insostenibili” per la tenuta dei conti, pena il rischio di alimentare la spirale dell’inflazione superiore al 10% e paventando la recessione. Con l’occasione si è scagliato contro i docenti (in sciopero l’ultima volta nel 2016) in difesa del “diritto di bambini e ragazzi di poter andare a scuola”. I sindacati hanno invece accusato il Ministro dell’Istruzione e il Primo ministro di rigidità negoziali e ideologiche dinanzi al collasso del potere d’acquisto degli stipendi di tanti dipendenti pubblici.
Intanto la battaglia continua. Nella prima settimana di febbraio è scesa in campo la sanità in piena crisi tra liste d’attesa record per le prestazioni sanitarie, carenze d’organico aggravate dal post Brexit, paghe non sufficientemente aggiornate da tempo, affaticamenti dell’emergenza Covid – con la terza tranche da dicembre di scioperi di infermiere e infermieri del servizio sanitario nazionale (Nhs) il 6 e 7 febbraio. Gli addetti alle ambulanze sono scesi in sciopero il 10 unitamente alla prima agitazione delle ostetriche, seguiti dai vigili del fuoco iscritti alla Fire Brigades Union (Fbu).
Ben 150 università del Regno Unito sono coinvolte in uno sciopero durate tutto l’arco del mese per protestare contro i bassi salari. I loro bilanci sono in crisi anche a causa della riduzione del numero degli studenti provenienti dall’estero e anche perché per la fine del programma universitario Erasmus e degli altri programmi comunitari, il flusso di
studenti dall’Europa si è molto ridotto riducendo il Budget delle Università anglosassoni. Ad essi si sono uniti i lavoratori degli altri settori della cultura, primi tra tutti quelli dei musei.
Continua intanto la durissima vertenza dei ferrovieri dell’Rmt, il sindacato più bellicoso e organizzato nella fase attuale, apripista delle lotte di questi mesi fin dall’autunno, dietro la leadership di Mick Lynch, critico verso il Labour, assente dalle barricate, quando non ostile alle lotte, sotto la guida neomoderata di sir Keir Starmer.
Le lotte in corso in Gran Bretagna , caratterizzate da un calendario di scioperi programmati almeno fino alla fine del mese di marzo vede assente il partito laburista non sono per lo scarso legame tra lotte sindacali e politiche, tipico del paese, ma per il totale appiattimento delle posizioni politiche del Labour sulla politica estera, per la subordinazione che caratterizza la politica di tutti i partiti della “sinistra” e la sua soccombenza rispetto ad una destra ben ferma nelle proprie posizioni ideologiche e guerrafondaie.

La lotta sulle pensioni in Francia

Le manifestazioni in Francia in occasione degli scioperi del 31 gennaio (a Parigi più di mezzo milione di manifestanti), del 7 febbraio e del 16 dello stesso mese hanno visto una partecipazione massiccia sia nelle adesioni che nelle manifestazioni di piazza, con punte di mobilitazione che hanno toccato i 2 milioni e mezzo di persone in tutta la Francia, da Parigi alla provincia più profonda (con. punte di 100 mila a Tolosa). Le tante città e piccoli centri del Paese hanno fatto a gara a contendersi di volta in volta l’ospitalità delle manifestazioni di piazza più numerose, malgrado che il Ministero degli interni abbia sistematicamente avuto cura di fornire stime al ribasso del numero di manifestanti per screditare la portata politica della mobilitazione.
Tuttavia gli scioperi si caratterizzano per una forte compattezza e le manifestazioni di piazza a sostegno, svoltisi durante i giorni festivi, hanno raccolto una larga partecipazione popolare, con la presenza di intere famiglie, segno della mobilitazione sociale a favore della vertenza. Come dimostrano ampiamente le cronache la partecipazione è stata trasversale alle diverse fasce d’età. A protestare non sono stati solo i lavoratori anziani che svolgono lavori usuranti o che difendono i particolari regimi di tutela pensionistica conquistati durante faticosi cicli di lotte, ma anche i lavoratori
giovani e le donne, gravemente colpiti dalla riforma. Non è un caso che le scadenze di lotta per il mese di marzo prevedono una grande mobilitazione sindacale in coincidenza per il 7 marzo che va ad aggiungersi per continuare alla mobilitazione per l’8 marzo in quanto la lotta si connette a quella delle donne e dei loro diritti, colpite da norme
decisamente penalizzanti.
Tuttavia Macron non ha intenzione di cedere e, forte dell’alleanza con i Républicain, che sperano in tal modo di aumentare il loro peso politico rispetto al Governo, intende forzare il voto parlamentare ,approvando d’autorità la riforma, ricevendo in risposta da tutti i sindacati la promessa di scioperi continuati, anche dopo l’eventuale approvazione del provvedimento. In questo modo il paese si avvia a vivere una fase di continua mobilitazione e conflittualità sociale, con la differenza rispetto ad altri paesi europei di una presenza non irrilevante in una mobilitazione sindacale e sociale, sia pure su temi difensivi, dei partiti politici della sinistra, soprattutto per il tramite di Mélenchon e de la France Insoumise.

Erano solo alcuni/ Su tutta la terra/ Ognuno si credeva solo/ D’improvviso furono moltitudine

Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel

L’indicazione del movimento di lotta è chiara in difesa dello stato sociale e delle condizioni di vita e di lavoro, per una destinazione a scopi di pace delle risorse elaborando nelle piazze e nelle lotte le piattaforme politiche, le strategie di lotta, costruendo l’unità, spezzata e frammentata da una politica di potere che si fa sempre più arrogante lasciando spazio e ampliando il consenso alle destre.

Le lotte sociali in Spagna

La mobilitazione è stata raccolta in Spagna dai cittadini della comunità autonoma di Madrid il 12 febbraio che sono scesi in lotta contro le politiche della governatrice della regione Isabel Diaz Ayuso, promotrice di tagli sempre più radicali alle risorse destinate alla sanità. Erano almeno 250 mila i madrileni che hanno partecipato alle manifestazioni organizzate per chiedere al governo regionale più fondi alla sanità pubblica. Quella di Madrid è la comunità autonoma con la spesa pro capite per le cure primarie più bassa in tutta la Spagna.
I cortei che hanno sfilato per le vie della capitale fino a piazza Cibeles hanno reclamato migliori servizi sanitari di base, lo stop alle privatizzazioni dei servizi, in particolare nei centri territoriali e in quelli rurali, dove i tagli alla spesa sanitaria sono stati ancora più gravi.
La manifestazione fa seguito alla mobilitazione del 13 novembre che aveva visto scendere in piazza mezzo milione di persone nella sola Madrid e sarà seguita da uno sciopero di due giorni a cui sono chiamati a partecipare i medici degli ospedali di Madrid, l’1 e del 2 marzo. Azioni di sciopero per protestare per le condizioni della sanità si sono svolte nelle ultime settimane anche in altre regioni spagnole. con una partecipazione ampia; ad esse fa eco una mobilitazione della destra sempre più contraria alla politica del governo, sostenuto dal Partito Socialista e da Podemos.
A questa vertenza si affianca quella sul finanziamento statale alle scuole provate sempre più sostenute dalle comunità autonome governate dalla destra, acuite dallo scontro nato da due sentenze del Tribunale Costituzionale che hanno sancito il divieto di finanziamenti pubblici per le scuole private per soli uomini o sole donne (150 in tutta la Spagna) che sono una prerogativa dell’Opus Dei, potentissima prelatura personale della Chiesa Cattolica che opera come centro di potere elitario nella società ,soprattutto spagnola, vero centro di formazione delle élite della componente cattolica integralista nel paese e nel mondo.

L’opposizione si forma nelle lotte

Ai partiti della sinistra in crisi basterebbe affacciarsi dalla finestra, uscire dalle loro sedi e tornare nelle piazze e nei quartieri, frequentare i luoghi dove si lavora. Si accorgerebbero delle file crescenti ai centri di carità e di assistenza sociale solidale, alle mense per poveri, vedrebbero le persone per strada e senza casa o lavoro, o con un lavoro che non fornisce un salario sufficiente ad una vita minimamente dignitosa e allora saprebbero come risolvere la loro crisi identitaria e di programma, iniziando con porre la parola fine ad una guerra tra oligarchi ucraini e russi, dove nessuno dei due è migliore dell’altro.

[1] Newsletter, Analisi della fase, Numero 163 – Settembre 2022, Anno 2022 da Ucadi.

La Redazione