GIÙ IL TURBANTE

In queste settimane i ragazzi in Iran si mettono alla prova dando la caccia a imam isolati e presa la rincorsa arrivano alle loro spalle e con un colpo veloce fanno rotolare a terra il turbante (amama) dei religiosi islamici. Molto spesso si tratta di studiosi e teologi musulmani che indossano turbanti bianchi come distintivo di ufficio,
mentre i chierici sciiti e gli ayatollah portano turbanti neri che sono chiamati Sayed, ovverosia dignitari, perché discendono dal profeta o dalla tribù del profeta: sono dunque la preda più ambita. Questo abbigliamento li distingue dagli altri uomini sciiti che portano un turbante nero avvolto intorno a un berretto bianco, mentre altri scelgono il verde come omaggio al tradizionale colore del Paradiso. Questo, che all’apparenza sembra solo un gioco, è invece il segno del disprezzo e dell’irriverenza verso gli appartenenti al clero e a verso coloro che manifestano uno stretto legame con la
tradizione.
La protesta verso il regime è ricca di gesti simbolici: il taglio dei capelli da parte delle donne, ad esempio, non è solo un atto di lutto e partecipazione al dolore per le vittime ma anche una deturpazione della bellezza femminile che nascosta dal velo e dagli abiti informi è destinata ad essere goduta solo dagli uomini ai quali queste donne appartengono.
Ma la lotta delle donne non si esprime solo attraverso gesti simbolici per quanto efficaci e potenti ma anche mettendo in campo il proprio corpo nelle manifestazioni, agendo a volto scoperto, celebrando il lutto secondo la tradizione. Così la commemorazione dei defunti al quarantesimo giorno dalla morte diviene occasione per partecipazione
di massa al dolore, per adunate intorno alle tombe e nei cimiteri.
Questi messaggi potenti stanno penetrando nella società iraniana e la prova più evidente viene dal fatto che malgrado le centinaia di morti, i pestaggi, gli arresti, i processi che si preparano, la crescita costante degli incarcerati picchiati e speso torturati, le minacce di ricorrere alla pena di morte, la protesta e la mobilitazione continua e si allarga, coinvolgendo non solo operai e studenti ma anche il bazar, ovvero il cuore pulsante dell’economia del paese.
Ecco, quindi, che la ribellione contro il regime si consolida e si cronicizza e utilizza la frammentazione del paese in numerose etnie e in particolare la resistenza crescente della componente curda al potere centrale di Teheran, in solidarietà e in sincronia con i curdi iracheni e quelli siriani, rompendo quella unità etnica che fino ad ora aveva contraddistinto la classe dirigente del paese. Il danno maggiore che le proteste in atto hanno prodotto è proprio la durata nel tempo del movimento di protesta, segno evidente che la coesione sociale del paese si va spezzando in modo irreversibile. È questo aspetto delle proteste a preoccupare il regime che tuttavia non può e non riesce ad immaginare altra risposta che la repressione alimentando la spirale della protesta endemica e insanabile.
Fino a ieri a preoccupare il regime sembrava essere la pressione dell’emigrazione politica che ha raggiunto la cifra ragguardevole di sei milioni circa, soprattutto giovani che sono emigrati dal paese in parte per ragioni politiche in parte economica e che in molti casi hanno perso il loro legame con il paese a causa dei tanti anni di esilio. Questa opposizione è ben più pericolosa perché erode alla radice il consenso e perché coinvolge la collocazione dei giovani nel mercato del lavoro e il loro stesso futuro.

I giovani in Iran

Su 86 milioni di abitanti questa è la distribuzione della popolazione per classi di età:
0-14 anni: 24,23% (maschi 10.291.493 /femmine 9.823.838)
15-24 anni: 14,05% (maschi 5.973.320 /femmine 5.689.501)
25-54 anni: 48,86% (maschi 20.698.748 /femmine 19.863.223)                                       55-64 anni: 7,39% (maschi 3.022.134 /femmine 3.113.443)
65 anni ed eccedenza: 5,48% (maschi 2.111.390 /femmine 2.437.655) (2018 est.)

Ciò vuol dire che circa il 60% è in età lavorativa o comunque in cerca di occupazione in una società nella quale svolgono un ruolo centrale le bonyad (ovvero la versione sciita dei waqf o hubus, propri dei paesi sunniti – gestiti da persone provenienti dall’ambito dei pasdaran, di fatto nominati dal clero che controllano circa il 20% del PIL iraniano e
gestiscono l’impiego di grandi masse di lavoratori e lavoratrici secondo criteri clientelari di affiliazione. Esenti da tasse, ricevono enormi sussidi dal governo, e sono stati nazionalizzati dopo la rivoluzione del 1979 incamerando senza alcun indennizzo i beni di molti iraniani le cui idee o posizioni sociali erano contrarie al nuovo governo islamico senza alcun compenso.
Oggi esistono più di 100 Bonyad che rispondono direttamente (e solo) alla Guida Suprema dell’Iran Le Bonyad producono di tutto: gestiscono coltivazioni di soia e cotone, producono automobili, gestiscono hotel, compagnie di navigazione, sono coinvolti in tutto. La Bonyad-e Mostazafen va Janbazan, (Fondazione per gli oppressi e i disabili), “controlla il 20% della produzione nazionale di tessuti, il 40% delle bibite, i due terzi di tutti i prodotti in vetro e possiede una quota dominante anche della produzione di piastrelle, prodotti chimici, pneumatici, prodotti alimentari. Oltre ai grandissimi Bonyad nazionali, “quasi ogni città iraniana ha il proprio Bonyad”, affiliato e controllato dai mullah locali.
Attraverso queste strutture il clero gestisce il mercato del lavoro, prova ne sia che si calcola che più di 6 milioni siano coloro che lavorano alle loro dipendenze. Le Bonyad svolgono anche un ruolo molto importante nel potenziare e diffondere l’influenza iraniana attraverso vaste attività transnazionali e internazionali, tra cui la filantropia e il commercio.
Questa forma di imprenditoria protetta e finanziata dallo Stato ha dato vita a un mercato del lavoro fortemente clientelare in netta competizione con il settore imprenditoriale privato che fornisce tuttavia la base sociale al governo e al clero, fortemente connessa da un reticolo di rapporti clientelari che soprattutto le nuove generazioni cercano di sprezzare.
In altre parole, le Bonyad invece che essere – come erano in origine – delle organizzazioni di beneficenza, sono “società finanziarie orientate al mecenatismo che assicurano la canalizzazione delle entrate a gruppi e ambienti che sostengono il regime”, ma non aiutano i poveri come classe e hanno abbandonato sempre più le loro funzioni di assistenza sociale per dedicarsi ad attività commerciali. La corruzione domina sovrana a tutti i livelli e per ottenere un lavoro occorre spesso ricorrere alla “mazzetta” da elargire a un clero e a una classe di funzionari corrotti.
Alle fine di agosto, in coincidenza con l’inizio della protesta, un rapporto parlamentare ha reso noto una appropriazione indebita di tre miliardi di dollari all’interno della direzione del più grande produttore di acciaio iraniano, la Moharakeh Steel Company, prova ne sia che il titolo dell’acciaieria è stato sospeso dalla borsa di Teheran e ciò malgrado nulla è stato fatto per perseguire i responsabili.

Le ragioni profonde della rabbia

Mentre per effetto delle misure di austerity introdotte il livello di vita delle classi popolari si abbassa, a fronte di un’inflazione che arriva al 40% , il che fa si che il 45 % degli iraniani viva al di sotto della soglia di povertà e il 10% sia povero assoluto, ovvero non abbia nulla da mangiare, le condizioni di vita di chi “sta meglio” si abbassano al punto che il consumo di carne latte e uova è diminuito del 50%.
In questa situazione la protesta si alimenta di gesti simbolici che in altre parti del mondo sono più che normali: si ascolta la musica (cosa vietata dall’islam integralista), pubblicamente, per strada, ci si da un bacio in pubblico che viene fotografato e postato sui socia, sfidando la polizia morale e il rigido codice islamico imposto dal regime. Così la rivolta, l’insubordinazione diviene diffusa, capillare, endemica, facendo impazzire di rabbia i religiosi e gli squadristi della polizia morale, sempre più criminali e sempre più odiati. Questo spiega perché la protesta sembra dilagare sempre più e, resa pubblica dai media, superando ogni censura e restrizione, coinvolge 80 città ed è particolarmente forte in nel Kurdistan iraniano e nel Belucistan, soprattutto nella città di Zehedan dove le tensioni etniche e separatiste sono forti.
La lotta dei giovani è quindi certamente diretta a ottenere le libertà più elementari, ma è forte e radicata perché cerca di rimettere in discussione le radici stesse sulle quali la Repubblica islamica fonda il suo potere e la struttura sociale marcia e corrotta dei sistemi clientelari con i quali le relazioni economiche e sociali vengono gestite. Questo tanto più che la stragrande maggioranza dei giovani ha una formazione scolastica medio alta e rivendica perciò diritti ed autonomia, chiede una vita degna di essere vissuta.
Può succedere che il movimento di protesta cali di intensità, ma quel che è certo e che esso avrà un andamento carsico perché motivato da profonde ragioni di carattere strutturale e perciò è destinato a durare nel tempo. Per sfondare ha bisogno di coinvolgere l’economia del bazar che è un elemento strutturale dell’economia iraniana. Questo può farlo facendo crescere l’instabilità sociale che danneggia i commerci.
Dalla perseveranza e dalla determinazione dei manifestanti in lotta dipende in larga parte il successo.

Gianni Cimbalo