C’era una volta… se mai c’è stato

Premessa

La sensazione netta è che qualcosa stia mutando negli asseti geopolitici e che nel contempo le forme istituzionali vi si adattino. Il cambiamento non è repentino, come lo è in tempi rivoluzionari; la borghesia ha costruito i presupposti della propria ascesa al potere per secoli, ma poi la rottura del vecchio involucro si è verificata repentinamente: la rivoluzione appunto. Ma ora non stiamo assistendo ad un cambio di classe dominante, ma alle modalità del dominio e quindi questo procede per gradi, a volte quasi  impercettibilmente ed altre con tappe più ravvicinate; occorre fare attenzione ai particolari che possono apparire insignificanti, ma che creano precedenti con pesanti ricadute sul futuro. Fino all’inizio del secolo scorso l’assetto datosi dal capitalismo imperante era fondato sullo stato nazione, la cui vita interna si basa sulla logica della democrazia liberale, i cui principi ispiratori, pur con le differenti forme che essi assumevano in sede locale, sembravano essere universalmente accettati; è ovvio che questa fosse solo una
facciata e che la brutalità del potere si mostrasse a viso scoperto ogni qual volta se ne presentasse la necessità, ma laddove questo non si verificava il gioco politico-istituzionale poteva dispiegarsi entro regole di fair play. Nel 1848 Marx ed Engels scrivevano: “Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di
tutta quanta la classe dirigente”[1]. Il problema oggi è se i concetti di Stato e di Governo abbiano ancora pregnanza politica e se il disimpegno della loro azione amministrativa sia appannaggio dell’intera classe borghese o di una parte minoritaria di essa, quale sia oggi il ruolo delle borghesie nazionali ed i loro margini di manovra.

Democrazie e democrature

La recente crisi in Ucraina ha scatenato un fiorire di interpretazioni a dir poco tagliate grossolanamente: scontro tra Oriente ed Occidente, scontro tra democrazie e democrature e via semplificando. Allo scopo del presente scritto è la seconda dicotomia che interessa. Il brutto termine “democratura” starebbe a designare quelle forme istituzionali apparentemente democratiche (ed anche questa è una semplificazione), perché caratterizzate dalle presenza del diritto di voto, ma dove in effetti la vita politica si svolge al di fuori dei canoni dello Stato liberale: per esemplificare Federazione Russa, Bielorussia, Turkmenistan, molte delle ex repubbliche sovietiche asiatiche, diversi paesi del terzo e quarto mondo; è appena il caso di notare che la Turchia, paese appartenente alla NATO, non viene trattato e definito come una democratura. Ma i processi decisionali, le garanzie costituzionali o semplicemente consuetudinarie, le prerogative dei corpi legislativi, i famosi pesi e contrappesi, fanno ancora parte della prassi istituzionale delle democrazie liberali del cosiddetto Occidente? È molto forte la distanza tra democrazie e democrature, come si tende a far credere o molto sta cambiando a partire dallo scorcio del secolo scorso?

La velocità decisionale

Uno dei temi cavalcati per sostenere la differenza tra uno Stato liberale e una dittatura (o democrazia accentrata ed autoritaria, una dittatura camuffata) è la velocità decisionale che la seconda forma presenterebbe. La crisi bellica ucraina ha mostrato come anche le democrazie borghesi possano, all’occorrenza, intervenire rapidamente quando se ne presenti loro la necessità. Nell’arco di pochi giorni sono state assunte decisioni a livello europeo e recepite prontamente dai singoli stati. Le costituzioni prevedono strumenti di assunzione centralizzata del potere normativo in casi giudicati eccezionali, quali la decretazione dello stato di emergenza. Ma questa è storia ordinaria. La realtà è che da molto tempo ormai gli esecutivi hanno assunto poteri propri delle assemblee legislative, quelle che nella concezione liberale rappresentano la volontà popolare, tramite l’esercizio del diritto di voto. Queste ultime si sono via via ridotte a puri momenti di ratificazione dei provvedimenti presi in ambiti governativi. Ciò avviene nei paesi storicamente caratterizzati dal bipartitismo per il fatto che le associazioni partitiche, un tempo frastagliate dai molti interessi in esse contenuti, dalle lobby che ad esse facevano capo e che garantivano una maggiore libertà del/la singolo deputato/a, si vengano ora compattando nell’asprezza dello scontro sempre più radicale, non già per difformità ideologica o di principi, ma per la
conquista del potere da parte dei loro leader. Ma quale potere? Multipartitismo?

L’eteronomia

L’esautorazione delle assemblee legislative, la perdita di peso dei corpi intermedi tra governi e cittadini non sono gli unici fatti che caratterizzano la fase che attualmente interessa le democrazie liberali. Anche i governi nazionali sono sotto stretta sorveglianza di attori più potenti, quelli che gestiscono l’economia internazionale. Il potere che asseta ipolitici in competizione nei vari paesi non è quello della gestione in prima persona dei destini della propria contrada, ma quello del proprio assetto personale, della risoluzione dei propri stili di vita. Il governo non è più “il comitato di affari” della borghesia nazionale, ma è il gestore delle politiche economiche e sociali e dei compiti particolari che le formazioni
transnazionali e le potenze economiche multinazionali assegnano all’aera geografica ad essi assegnata. Il TUE (Trattato sull’Unione Europea) ed il TFUE (Trattato per il Funzionamento dell’Unione Europea) sono emblematici in questo senso[2]. L’organo elettivo e legislativo dell’UE è praticamente privo di iniziativa e si limita a ratificare quanto deciso dalla Commissione Europea e dal Consiglio Europeo (il consesso dei capi di Stati dei singoli paesi), ossia di quegli organi che più sono esposti alle “pressioni” delle potenze economiche e militari; organi che non hanno con i cittadini un rapporto diretto, ma molto mediato; alle decisioni così prese si debbono poi attenere i governi degli Stati, con nuovi processi di ratifica da parte degli organi assembleari elettivi. Negli Stati Uniti d’America le pressioni dei settori e delle associazioni economiche più importanti nei confronti dell’esecutivo vengono legittimamente e palesemente effettuate dalle attività di lobbying. Sta di fatto che sempre più i governi operanti nelle democrazie borghesi non sono liberi di effettuare le proprie scelte, ma vengono eterodiretti e sempre meno rispondono ai cittadini [3].

Decadimento dei corpi legislativi elettivi

La perdita di importanza delle assemblee elettive ha fatto pure decadere la qualità degli eletti. Il Parlamento Europeo è divenuto una casa di riposo (lussuosa) per politici trombati. Ma si è abbassato ovunque il livello culturale, di preparazione politica, di competenza tecnica dei singoli rappresentanti del popolo. Coloro che dovrebbero dettare le regole che condizionano la vita dei cittadini spesso mostrano una desolante inettitudine, un pressapochismo disarmante, una totale disinformazione sui temi trattati. Un tempo i partiti facevano percorrere, ai propri militanti chiamati a svolgere ruoli politici di alto livello, una lunga e formativa gavetta; avevano scuole politiche che formavano i quadri, gli amministratori, i gruppi dirigenti. Ma i partiti si sono dissolti ed oggi ci si affaccia alla politica sull’onda di una propria capacità affabulatoria, sulla presenza di spirito nei dibattiti, sulla telegenia; è la confezione del pacco che conta, non il suo contenuto. Sono i sistemi elettorali, la centralizzazione di partiti sempre meno partecipati, l’emergere di leader
improvvisati a formare una pletora di politici che si vantano di non aver mai fatto politica; ma ciò non importa, tanto sono solo chiamati ad alzare la mano quando loro lo si comanda. L’incapacità tracima anche nelle compagini governative, anch’esse luoghi di concentrazioni di teste annuenti.

Dove sono gli statisti?

Lyndon B. Johnson, Ricard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Reagan, George H. W. Bush, Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama, Donald Trump, Joe Biden; questo è l’elenco dei Presidenti degli Stati Uniti d’America succeduti a Kennedy: un cowboy, un mentitore seriale, una nullità, un debole, un attore di seconda fila, un impacciato,
uno zuzzerellone, un alcolizzato, un guerrafondaio, un golpista, un vecchietto sonnacchioso. Il giochino può essere ripetuto per i premier britannici dopo Churchill o per i Presidenti francesi dopo Mitterand o per i cancellieri tedeschi dopo Brandt. Qui non sono in discussione i dubbi profili morali che contraddistinguono i leader politici di tutto il mondo e di tutti i tempi, la loro assoluta mancanza di scrupoli, la loro marcata tendenza al “proprio bene individuale”, la loro capacità sfrontata di raccontare panzane, quello che si vuole evidenziare e la loro statura di statisti. Ancora dopo la Seconda guerra mondiale il cosiddetto Occidente vantava figure come Roosevelt, Churchill, Adenauer, De Gaulle, De Gasperi, personaggi conservatori, legati a ben precisi interessi economici, ma sicuramente capaci di guidare uno Stato; la loro scomparsa ha portato alla ribalta personaggi mediocri, pur sempre legati a ben precisi interessi economici. Le cosiddette democrature, tranne brevi intervalli hanno sempre selezionato personalità forti e capaci, che, come ognuno, possono talvolta sbagliare i propri calcoli, intraprendere azioni avventate, ma che nel complesso sanno ben condurre i loro paesi verso i traguardi che
si sono prefissi. Per esempio, Putin ha risollevato la Russia dalla bancarotta in cui era precipitata sotto la guida di Eltsin, l’alcolista tanto amato dagli statunitensi e che aveva bombardato il proprio Parlamento liberamente eletto, anche se al momento sembra avere imboccato una strada molto rischiosa. Per non dire di Xi Jinping che, proseguendo sul sentiero tracciato da Deng Xiaoping ha fatto della Cina la potenza economica in ascesa verso il controllo dei mercati internazionali. Ovviamente non vi è in questa constatazione alcuna ammirazione verso autocrati che opprimono il proprio ed altri popoli, la cui avversione alle classi sfruttate è fuori discussione; si vuole solo sottolineare la differente caraturapolitica dei personaggi dell’oggi nelle diverse tipologie di sistema politico. Come si è creata questa differenza e quali ne sono le cause?

Modello europeo e modello statunitense

Meglio detto: qual è il sistema di selezione della classe dirigente nel mondo “occidentale”, ovverosia nelle democrazie borghesi? Nello scorcio dell’ultimo mezzo secolo il mondo politico liberal-democratico ha subito una profonda mutazione. L’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa ha inciso sulle modalità di costruzione dei leader politici: non più personaggi cresciuti e formati nelle amministrazioni locali, che hanno seguito un iter di crescita di
competenze attraverso la militanza, che hanno accumulato un bagaglio di esperienze nell’arena politica. Sono venuti al loro posto alla ribalta personaggi improvvisati la cui unica forza risiede nelle capacità affabulatorie e nella loro prontezza di spirito nei dibattiti politici televisivi. Questo spiega anche l’affacciarsi ai vertici politico-istituzionali di personaggi
dello spettacolo. L’idea che è invalsa è che quello che conta per fare politica non è la preparazione, la visione strategica, il programma che si intende perseguire, ma al contrario la freschezza, la novità, l’intraprendenza. È così che in Francia, ad esempio, una figura come Macron, poco noto precedentemente e di cui si sconoscevano intenzioni, capacità, retroterra, è assurto in poco tempo all’Eliseo. Ma tutto ciò è possibile per la percezione, spesso non del tutto consapevole, che l’elettorato ha del fatto che i luoghi delle decisioni politiche e strategiche fondamentali non risiedono più all’interno delle
istituzioni di cui un paese si è dotato; dipende anche dal fatto che poco importa ai centri effettivamente direttivi extraterritoriali di chi sarà chiamato a dare corpo legislativo alle loro decisioni nei singoli territori.

Modello cinese

La Cina è l’esempio paradigmatico di quelle che vengono definite “democrature” o anche semplicemente dittature.
La selezione della classe dirigente avviene attraverso un lungo percorso all’interno del partito e le sue articolazioni; un percorso irto di ostacoli, dove occorre essere sì acquiescenti alla linea dettata dall’altro, ma dove gli inciampi sono sempre possibili, se non si agisce con scaltrezza; dove l’adulazione spinta può divenire un handicap se non si mostra anche unacapacità gestionale innovativa e proficua; dove occorre guardarsi attorno attenti alle trappole che agguerriti concorrenti possono tendere. In altre parole, una scuola dura, ma altamente selettiva e formativa: chi si eleva in essa ha senza dubbio
capacità di conoscere gli uomini che lo circondano, visione strategica, consapevolezza delle mille sfaccettature dell’apparato di comando ed amministrativo, astuzia e spregiudicatezza.

Il ruolo della pandemia

D’altra parte, anche le cosiddette “democrazie” occidentali stanno cambiando pelle. La pandemia ha accelerato il processo di delegittimazione dei corpi legislativi elettivi; la necessità di prendere decisioni in tempi brevi, connessa alla dichiarazione dello stato di emergenza, ha accentuato il ricorso alle decretazioni di urgenza, con l’aggravante che la
conversione in legge dei decreti diveniva spesso inutile, in quanto gli effetti della loro messa in atto aveva già ottenuto l’effetto voluto; alla loro scadenza potevano tranquillamente decadere in quanto rimpiazzati da un nuovo decreto. In Italia il Governo Draghi, che gode di una maggioranza asfissiante in Parlamento, pure salta le tappe dei passaggi nel luogo deputato alla discussione democratica degli eletti del popolo. Ma anche l’Esecutivo viene spesso messo con le spalle al muro, chiamato a votare provvedimenti di cui ha ricevuto il testo solo la sera antecedente alla votazione.

I paraocchi liberali

Il declino delle democrazie borghesi, per come le abbiamo conosciute, è sotto gli occhi. Il problema non è del momento, ma è legato alla cultura dominante: la velocità delle decisioni è solo un paravento, quello che è determinante è il fatto che i luoghi decisionali risiedono ormai fuori della portata degli stati cosiddetti “occidentali”. La dittatura non origina nei luoghi del potere politico, ma in quelli dove si decide la politica economica. Per lungo tempo si è parlato della preminenza del “mercato” sulla amministrazione più o meno oculata delle classi dirigenti, ma il mercato è un’entità astratta, che non esiste in natura; il mercato viene controllato e diretto da coloro che controllano i flussi finanziari: è la loro capacità decisionale che fa fluttuare il mercato secondo i loro interessi. Le supposte leggi di mercato (domanda e offerta) vengono piegate dall’immissione massiccia di masse monetarie, che si orientano laddove la finanza internazionale decide che è opportuno per massimizzare i profitti a breve termine. Anche questo, però, non può essere un punto di vista sempre oggettivo: i finanzieri (spesso fondi anonimi di enorme portata) possono orientare le loro speculazioni non finalizzandole all’immediato, ma secondo scelte politiche che produrranno un rendimento maggiore più tardi; si fanno fallire istituzioni bancarie, si mettono in crisi leadership politiche, si orientano i flussi elettorali, si organizzano
rovesciamenti istituzionali, si alimentano guerre per massimizzare i futuri ricavi, anche se tali operazioni possono momentaneamente sembrare in perdita. La finanza, però, ha comunque un orizzonte temporale limitato, la realizzazione dei ricavi derivanti dalle operazioni intraprese deve essere a portata di mano; quella perseguita è una manovra tattica, che manca di un vero respiro strategico. Ciò comporta che la navigazione a vista dell’economia internazionale va frequentemente incontro a dissesti imprevisti, perché le scelte sono affidate a previsioni che originano dalla fiducia cieca in meccanismi presupporti automatici e sicuri, ma in realtà basati su calcoli fondati su equazioni non verificate e sull’utilizzo dei “big data”; l’assommarsi di dati storici, anche di dimensioni gigantesche, non assicura un’accurata previsione delle conseguenze future, sia perché mancano dei presupposti teorici di elaborazione solidamente fondati su una teoria economica che faccia perno su di un’affidabile interpretazione della realtà, sia perché le varabili in gioco sono talmente numerose che l’assenza di un’adeguata interpretazione teorica rende vane le elaborazioni numeriche, per quanto immani. Ne esce priva di significato la fiducia sull’assetto liberale della società e sui suoi presunti pesi e contrappesi
istituzionali.

La disaffezione alla politica

Più la gestione del potere si allontana dal cittadino, più quest’ultimo sente inutile la propria partecipazione alla vita pubblica, meno si dedica all’attività politica. Le passioni ideali si smorzano e si rafforza la tendenza a curare il “proprio particulare”. Ora che le assemblee elettive sono esautorate e spogliate del proprio potere legislativo; ora che anche i governi rispondono ad istanze lontane ed avvolte nell’anonimato, ora che i ruoli decisionali afferiscono ad organismi svincolati da controlli autenticamente democratici, i cittadini si rinchiudono nell’isolamento, smettendo di praticare luoghi di socializzazione; questa tendenza è rafforzata dai nuovi mezzi di comunicazione telematica. Ne è un riflesso
immediato la diminuzione dell’affluenza alle urne. Il fatto che quest’ultima sia più scarsa alle elezioni amministrative che a quelle politiche non contraddice quanto asserito: persiste ancora un minimo di fiducia sui poteri decisioni dei parlamenti, mentre il basso cabotaggio cui sono destinati i poteri locali non appassiona più gli elettori; meno ampia è la
platea elettorale, meno potere è in gioco e più aumenta l’astensionismo che ormai spesso, molto spesso, supera abbondantemente la metà degli aventi diritto.

Il potere immagine

In tale situazione non appare strano che i luoghi del potere politico che ci appaiono siano privi di spessore e scorrano dinanzi ai nostri occhi come una pellicola. La finzione e non la fantasia è andata al potere; quello che ci viene presentato è un paravento dietro cui si nasconde il vero potere decisionale: quello economico-finanziario. Le parti vengono interpretate da attori, talvolta professionali, tal altra dotati di capacità interpretative innate, tutti altrettanto fasulli come marionette che il puparo anima a propria volontà. Le scaramucce della politica nazionale finiscono per essere talvolta imbarazzanti, lasciando dietro di loro un leggero sentore di incenso che ottunde i sensi, mentre la grancassa dei
media di regime cerca di fare da colonna sonora alla rappresentazione, contribuendo a confondere le menti e le ragioni.
Anche se il palcoscenico è affollato e gli interpreti variano con rapidità, resta la sensazione che nulla di realmente nuovo accada veramente e che i copioni si ripetano, molto simili nel tempo.

La crisi dello stato liberale non è quella della borghesia

Le procedure decisionali, che un incalzare frenetico degli eventi sembra rendere lente e burocratiche, forzano e mutano nel profondo le regole della democrazia borghese: il magico equilibrio dello Stato liberale, puramente teorico e storicamente disatteso quando la classe dominante ha percepito che il suo potere veniva messo in discussione, si squarcia svelando l’essenza reale del comando di classe. Le differenze tra democrature e democrazie si assottigliano e la distinzione tra oligarchi e capitalisti diventa puramente nominale. Se lo Stato liberale entra in crisi (ma già altre volte la congiuntura economica e sociale ha indotto il padronato a scegliere strade molto distanti dalla democrazia), ciò non
corrisponde ad un cambio dell’assetto proprietario sui cui esso si fondava. Le regole della convivenza, che di volta in volta, gli stati adottano mutano nel tempo e corrispondono alle esigenze di comando che la borghesia individua per il mantenimento del proprio privilegio accaparratorio. La differenza tra quella attuale ed altre fasi della storia e che ora i mutamenti non sono subitanei e precipitosi, ma si svolgono con lentezza, divenendo impercettibili e mitridatizzando in tal modo la coscienza civica.

La rivoluzione si allontana

In una dichiarata dittatura il lavoro politico è senza alcun dubbio più difficile e con esso la crescita di coscienza delle masse sfruttate; può scoppiare una sommossa, una rivolta, ma non la rivoluzione. Le privazioni e la fame possono esasperare, ma ben difficilmente il proletariato arriverà alla rottura del sistema con la capacità concreta di prendere in mano il proprio destino.
Dal lato delle cosiddette “democrazie liberali” la mutazione delle regole (spesso illusorie) della Stato borghese, il declino delle garanzie di partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, non aprono spazi alla considerazione di un possibile diverso assetto sociale e dei rapporti proprietari. Quello che accade è che l’allontanarsi dei luoghi del potere reale verso lidi remoti e poco visibili crea distacco dalla militanza politica o dalla semplice attenzione agli eventi determinati della condizione di vita di tutti. La disaffezione al voto elettorale non nasconde un’attività consapevole diversa ed antagonista, ma il distacco da ogni forma di impegno politico; auspici il dilagare dei social network e del lavoro da remoto, corresponsabili i vertici sindacali che inanellano una sconfitta dietro l’altra, seminando sfiducia nella contrattazione collettiva e rafforzando l’idea che la lotta non paga; lavorando in sinergia, la pandemia e la chiusura dei sia pur minimi centri di aggregazione sociale, gli individui tendono a rinchiudersi nel cerchio ristretto dei propri interessi e delle proprie amicizie. Le idee rivoluzionarie perdono le gambe su cui possano camminare.

[1] KARL MARX, FRIEDERICH ENGELS, Manifesto del partito comunista, in KARL MARX, FRIEDERICH ENGELS, Opere complete, vol. VI, Editori Riuniti 1973, p. 486                         [2] https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/file/repository/relazioni/libreria/novita/XVII/Trattato_sull_unione_europea.pdf
[3] “l’Europa lo vuole”!

Saverio Craparo