LUCI ED OMBRE SUL CILE

«Non mi dimetterò. Pagherò con la mia vita la lealtà della gente». Così dichiarò Salvador Allende prima di essere falciato nelle stanze de La Moneda da una raffica di mitra sparata dai golpisti di Pinochet l’11 settembre 1973. Mezzo secolo dopo, l’11 marzo 2022 Gabriel Boric, eletto Presidente del Cile, si insedierà al suo posto per gestire il varo di una nuova Costituzione che prenderà il posto di quella voluta dal Dittatore. La vittoria è giunta dopo che al primo turno il candidato della destra José Antonio Kast, di origini tedesche, figlio di un nazista che rivendicava con fierezza di essere stato iscritto al partito nazista, ammiratore dichiarato di Pinochet e che aveva chiuso in vantaggio il primo turno elettorale. Il rovesciamento del voto è avvenuto perché i cileni, turandosi il naso, hanno messo da parte le perplessità sul programma del giovane leader che ha modificato, ammorbidendole, molte sue posizioni, per rassicurare l’elettorato moderato. Lo ha fatto fiutando il pericolo, optando per una transizione più lenta verso una società più aperta e per l’attenuare le differenze sociali.
Il Presidente neo eletto, partecipando ai festeggiamenti per la vittoria, ha esordito dicendo: «Buonasera Cile, dico grazie a voi, a tutte le persone, a tutti i popoli che abitano la terra chiamata Cile», ripetendo il saluto nelle lingue dei popoli nativi (Rapa Nui, Aymara e Mapuche), dando immediatamente un segnale della strada di attenzione ai problemi della diseguaglianza che intende percorrere, aggiungendo tuttavia «Dobbiamo muoverci in modo responsabile. attraverso cambiamenti strutturali senza lasciare indietro nessuno». Il neopresidente sa bene che l’1,5% dei contribuenti cileni
guadagna oltre 4,5 milioni di pesos al mese, pari a circa 5.200 dollari) e che la ricchezza del paese è concentrata nelle mani di pochi – come ovunque – ma sa anche che il Cile e – a suo modo un caso particolare – avendo rappresentato la culla della sperimentazione del neoliberismo più sfrenato.

Il golpe cileno e il neoliberismo

Nel 1970 venne eletto Presidente il socialista Salvador Allende. sostenuto da Unidad Popular, una coalizione di partiti della sinistra. L’estrazione del rame, principale ricchezza del paese, e le aziende vengono nazionalizzate, ma questo provoca la reazione delle multinazionali, colpite nei loro interessi e della borghesia nazionale preoccupata soprattutto di mantenere il possesso delle terre. Su indicazione del Segretario di Stato Kissinger, la CIA intervenne pesantemente: il paese precipita in una grave crisi economica e l’inflazione raggiunge la doppia cifra; l’economia, viene ulteriormente messa in crisi da continui scioperi da parte di medici, insegnanti, studenti, camionisti, minatori, sostenuti dal ceto medio.
Si moltiplicano le difficoltà nel garantire la stabilità e la sicurezza del Paese e la CIA mobilita le Forze Armate, costruite a suo tempo sul modello della Germania nazista (il paese ospita infatti numerosi criminali di guerra), ma in realtà formatosi nella cosiddetta scuola “delle Americhe” di Panama, gestita dalla CIA.
Effettuato il golpe e ucciso il Presidente, che muore combattendo (come dimostrerà un’autopsia condotta da una commissione medica internazionale nel 1990), il Generale Pinochet, comandante dell’esercito, assume il potere e durante la sua feroce dittatura, durata dal 1973 al 1990, vengono torturate, uccise e scompaiono, almeno 30.000 persone, tra cui dirigenti e militanti di Unidad Popolar, militanti dei partiti comunista, socialista, anarchici e qualche democristiano, accademici, artisti e musicisti, come Victor Jara, professionisti, religiosi, studenti e operai. Il paese subisce la “cura” dei
Friedman Boys, un gruppo di economisti ultra liberali che “sperimentano” nel paese un liberalismo sfrenato: l’industria mineraria viene privatizzata, così come tutte le attività produttive, scompare ogni traccia di welfare a livello sanitario, sociale, assicurativo, pensionistico, ogni tutela sul lavoro scompare e anche l’istruzione viene privatizzata, mentre la repressione è senza fremi, colpisce chiunque, la polizia arresta e tortura, invia chi ritiene pericoloso in campi di concentramento in Patagonia, in prossimità dell’Antartide. Le popolazioni indigene subiscono una capillare persecuzione.
Nel 1988 il regime, dopo 25 anni di repressione, accetta di mettersi alla prova e viene indetto un plebiscito per conferire un altro mandato di Presidente al dittatore, derogando alla sua stessa Costituzione. Inopinatamente il dittatore perde e il 14 dicembre 1989 vengono indette le elezioni. Pinochet lascia il mandato 11 marzo 1990, ma mantiene la carica di capo dell’esercito. Il silenzio cala sui delitti commessi con l’attuazione della politica della riconciliazione nazionale, malgrado che gli omicidi di Stato degli oppositori continui con costante intensità: il regime s’era rifatto la faccia, ma non era mutato. Formalmente Pinochet, nominato Senatore a vita con conseguente immunità ed impunità, viveva tranquillamente.
Se non che il 22 settembre 1998, deve recarsi a Londra per un’operazione chirurgica. Amnesty international e altre organizzazioni chiedono il suo arresto per violazione dei diritti umani. Pochi giorni dopo il giudice spagnolo Baldasar Garzón emette un mandato di cattura internazionale, chiedendo di incriminare il generale per l‘assassinio di cittadini
spagnoli durante la dittatura cilena. Il governo britannico rispedisce Pinochet in Cile “per ragioni umanitarie”. Una volta in Cile l’assassino di tante donne è di tanti uomini riesce a non comparire davanti ad un tribunale e muore finalmente a 91 anni, il 10 dicembre 2006. Lo piangono sconsolati gli oligarchi del paese, i militari, il clero della Chiesa cattolica cilena.
Occorreranno altri 16 anni perché il Cile possa disintossicarsi del suo carnefice e avviarsi verso un lento ripristino dei diritti.

Le lotte contro la dittatura

La Concertación de Partidos por la Democracia, più conosciuta come Concertación, è la coalizione di partiti di centro e di sinistra che ha governato il Cile dall’11 marzo 1990 all’11 marzo 2010. Pur continuando ad applicare politiche neoliberiste la Concertación ha allentato la stretta sul paese, concedendo qualche risicata e contestata riforma, come quella dell’istruzione, contestata da un forte movimento studentesco: all’interno di queste lotte si è formato Gabriel Boric, eletto poi al Parlamento. Superata con qualche successo la crisi economica del 2008-2009 al governo, della Presidente Bachelet è succeduto quello di Sebastián Piñera, sostenuto dalla Coalizione per il cambiamento (alleanza per il Cile), un’alleanza dei partiti del centro destra. Questo partito ancora oggi detiene la maggioranza in almeno una Camera e governa molte amministrazioni locali, Ad essa si contrappone Apruebo Dignidad (AD), la coalizione che ha sostenuto il
presidente neoeletto, creata l’11 gennaio 2021 dal Frente Amplio e Chile Digno e voluta principalmente dal Partito Comunista e Convergencia Social, ai quali poi si sono uniti una serie di altre organizzazioni e movimenti.
Questa situazione ha indotto il neopresidente a smussare le rivendicazioni sociali della sinistra anche se egli ha dichiarato: «Dovremo non soltanto crescere economicamente, ma riuscire a convertire quelli che per molti sono beni di consumo, in diritti sociali, indipendentemente dalle dimensioni del portafoglio. E garantire a tutti una vita tranquilla e sicura». Che è necessario riscrivere la Costituzione, difendere le donne e le minoranze poiché «La non discriminazione e la fine immediata delle violenze saranno fondamentali nel nostro governo»: così nel suo manifesto elettorale. Ma il vero problema per Boric è porre fine al modello neoliberista, ereditato dalla dittatura, rendere pubblico il sistema pensionistico e sanitario trasformandolo in universale, introdurre un limite massimo di 40 ore di lavoro settimanale (ora ufficialmente sono 45 alle quali si sommano quelle del lavoro a nero).

La questione dei popoli nativi

Ma il problema politico emblematico è la questione dei popoli Mapuche, (ma anche Rapa Nui, Aymare), i popoli nativi del paese che rivendicano il possesso delle terre ancestrali. Il nome deriva da che, “gente”, e mapu, “terra”, ossia “gente della terra”. Questo nome gli è stato attribuito a metà del XIX secolo ed è motivato dalla lotta che popolazioni indigene hanno sempre portato avanti contro lo Stato cileno e quello argentino, che si sono impossessate delle loro terre.
Prima dell’arrivo degli spagnoli il territorio ancestrale del mapuche, chiamato Wallmapu (“la terra circostante”), oggi coincide grossomodo con la regione dell’Araucanía cilena. All’arrivo dei conquistadores circa un milione di indigeni abitavano nella regione. La regione è una delle più piovose al mondo, perché le Ande schermano l’umidità oceanica lasciando dall’altro lato, la Patagonia argentina, con scarse precipitazioni e quindi rendendola una steppa arida, buona per l’allevamento. I territori sono stati divisi tra le diverse comunità, le lofches, ognuna guidata da un lonko. La sacralità della
natura ne fa il centro della cultura: secondo la cosmovisione mapuche, l’uomo non può considerarsi superiore al suo habitat e la vita deve svilupparsi in simbiosi e profondo rispetto dell’ambiente. Ritroviamo, e non a caso, questi concetti traslati nell’Enciclica “Laudato si”, che insieme al rispetto della natura fa, di questi concetti il fulcro del messaggio pontificio.[1]
L’elemento di singolarità è costituito dal fatto che queste popolazioni si opposero con successo alla conquista degli Inca e dei conquistadores, i quali furono costretti a stipulare nel 1640 un trattato di pace che stabilì la frontiera tra mondo indigeno e mondo coloniale lungo il fiume Bío-Bío. Gli abitanti del Wallmapu avevano così acquisito dei diritti di indipendenza e sovranità territoriale, ufficialmente riconosciuti dalla Spagna e dal diritto internazionale e lo Stato cileno non aveva giurisdizione sui territori mapuche. Il Cile, come l’Argentina, per ottenere a sua volta l’indipendenza dalla
Spagna, sfruttò le lotte degli indigeni, dichiarando che quelle per l’indipendenza erano la prosecuzione delle precedenti, raggiunse il suo scopo, per poi appropriarsi dei territori dei nativi nella seconda metà del XIX secolo. Successivamente i mapuche furono confinati in reducciones, piccoli appezzamenti di terra, perlopiù improduttiva. La superficie totale di questi terreni rappresentava solo il 6,4% del Wallmapu. Il popolo guerriero perse così l’autonomia politica e i suoi membri vennero trasformati forzatamente in contadini o costretti a trasferirsi nei sobborghi delle nascenti città e costituiscono oggi la parte più povera e diseredata dei suoi cittadini.
Durante il XX secolo, venne sottratto altro territorio agli indigeni. La frammentazione territoriale, l’imposizione delle regole dello Stato e dei modelli sociali wincas (termine mapudungun per riferirsi ai bianchi) hanno messo in difficoltà la sopravvivenza della società mapuche. I nativi si sono dovuti adattare a forme di vita molto lontane dalle
tradizioni ancestrali e incompatibili con la loro concezione di rapporto con la natura. Inoltre, nelle reducciones la scarsità del terreno lascia ben poco con cui sostentarsi e gli indigeni si sono ritrovati in condizioni di assoluta povertà.
Le riforme agrarie hanno fatto ben poco per restituire la terra al mapuche, con l’eccezione della presidenza di Allende. L’instaurazione della dittatura di Pinochet nel 1973 stroncò tale processo, oltre a eliminare la proprietà comune della terra, aumentare la repressione contro la resistenza indigena e promulgare una nuova legge per promuovere lo sviluppo forestale nelle regioni del Centro-Sud del Paese. Questa legge ridusse ulteriormente i territori degli indigeni, danneggiò quelli residui: le piantagioni intensive di alcuni tipi di alberi per l’industria del legno, come lucalipto e pino, causano il deterioramento del suolo limitrofo. A partire dagli anni Novanta, in corrispondenza con i processi di transizione democratica, i movimenti indigeni si sono rafforzati in tutto il continente. I mapuchi oggi costituiscono il 10 % della popolazione cilena, con circa 1,700.0000 abitanti. La questione mapuche rappresenta un problema centrale di giustizia sociale e di uguaglianza di diritti per l’intero paese. A Boric, spetta l’onere di trovare il modo di aprire il dialogo.
superando una componente di razzismo da non sottovalutare ed evitare il ripetersi di episodi di violenza, diventati negli anni motivi a sé stanti di radicalizzazione del problema.

L’obiettivo del “Cile verde”

Durante la campagna elettorale Boric ha dichiarato: «Uno degli obiettivi del nostro futuro governo è accelerare la decarbonizzazione della nostra matrice energetica», ma non si tratta di mettere a punto solo un piano di riqualificazione energetica delle abitazioni, la trasformazione della flotta di autobus urbani ed extraurbani (da diesel a elettrico) ma di puntare soprattutto a una gestione più efficiente ed equa dell’acqua. Il Cile, infatti, soffre di gravi siccità prova ne sia che è in atto da oltre tre decenni un contenzioso con l’Argentina per il possesso degli “hielos continetales”, i ghiacciai andini:
il “bene” dell’acqua non è garantito come diritto umano e quella disponibile viene attualmente utilizzata dalle più grandi aziende agricole e zootecniche, con il risultato che ampie zone del territorio, e centinaia di famiglie, vivono ancora oggi senza acqua corrente. Perciò la lotta al cambiamento climatico e per l’ecologia oltre che un fatto culturale è una questione di classe. A riguardo Boric ha dichiarato «Nei primi 100 giorni del nostro governo firmeremo l’Accordo di Escazú per proteggere l’ambiente, gli oceani e le comunità che dipendono da loro» smarcandosi dai precedenti governi cileni. Fino
ad ora 24 Stati hanno aderito all’accordo, ma soltanto 12 lo hanno poi ratificato.
Per finanziare le riforme necessitano risorse che il nuovo presidente pensa di trovare modificando il prelievo fiscale per un importo pari al 5% del Pil attraverso un miglioramento della “progressività fiscale”, con aumento della tassazione per i più ricchi. Sono previste anche l’introduzione di “tasse verdi” e una royalty (ancora da definire) per
l’estrazione del rame (il Cile è il primo produttore al mondo). Come era prevedibile i mercati azionari non hanno accolto bene l’elezione di Boric: la Borsa di Santiago ha registrato un calo superiore al 7%, il peso cileno è sceso del 4%. La SQM Lithium, una delle più grandi società minerarie del Cile, ha perso oltre l’11% del suo valore. Bisogna tenere conto che l’economia cilena è una delle più solide del Sud America. Oltre al rame (30 % delle esportazioni) nel paese sono presenti giacimenti di ferro, nitrato, zolfo, carbone, argento, oro, manganese e molibdeno.
Il possesso delle terre ha consentito all’oligarchia del paese di sviluppare l’allevamento e soprattutto l’agricoltura: il paese esporta frutta e verdura anche approfittando della sua collocazione nell’emisfero meridionale riuscendo a far giungere i prodotti sui mercati dell’emisfero settentrionale fuori stagione e collocandoli quindi nelle migliori condizioni di vendita. Molto sviluppati anche i settori della silvicultura e della pesca (il paese ha superato la Norvegia per la pesca del salmone) e la produzione di vino. Questa situazione ha conseguentemente portato a un notevole sviluppo dell’industria agro alimentare: Il paese ha poi un ruolo leader nella produzione di farina di pesce essenziale per gli allevamenti. Questo assetto economico produttivo alimenta il paradosso costituito dal fatto che un paese sostanzialmente ricco è il più diseguale nella distribuzione della ricchezza e soprattutto non dispone di un sistema di welfare pubblico e universale.

Il Governo di Boric

Boric ha annunciato la composizione di quello che sarà il suo governo: 24 ministri di cui 14 donne. Il nome che salta inevitabilmente agli occhi è quello di Maya Fernández Allende, deputata del Partido Socialista vicina al Frente Amplio nipote di Salvador Allende, ministero della Difesa, distintasi nelle proteste studentesche. Agnhe agli Interni, Ministero chiave, va una donna Izkia Siches, 35 anni, ex capo della campagna elettorale di Boric e ha presieduto l’importante Colegio Médico. Altri ministeri come gli Esteri, la Giustizia, la Salute, le Miniere vanno a delle donne, ivi compreso quello strategico dell’Ambiente al quale va la fisica e climatologa Maisa Rojas, direttrice del Centro di Scienza del clima e resilienza e coordinatrice del Comitato scientifico sul cambiamento climatico. Tre le donne Ministro del Partito Comunista Flavia Salazar (Scienza e tecnologia), Camila Vallejo, leader del movimento studentesco del 2011, alla
guida della Segreteria generale di governo, e Jeannette Jara, al Ministero del Lavoro. Al Ministero dell’Educazione Marco Antonio Ávila, un insegnante che dovrà ricostruire l’educazione pubblica.
Per fronteggiare l’assenza di una maggioranza in Parlamento Boric ha incluso nel proprio governotici provenienti la ex Concertación, soprattutto del Partido socialista a cui sono andati Difesa, Esteri e Politiche abitative e urbane. Ma la concessione più importatnte riguarda gli imprenditori: al Ministero dell’Economia è andato di Mario Marcel, già presidente della Banca centrale sotto i governi di Bachelet e Piñera e presente in tutti i governi della Concertación. In lui confida il Presidente per «Rilanciare l’economia senza riprodurre le disuguaglianze strutturali. Crescita sostenibile con una giusta redistribuzione delle ricchezze». Ma procedendo passo passo. Queste posizioni hanno sollevato forti critiche della sinistra che promette di vigilare e pungolare il governo incalzandolo sulle sue scelte.

Le prospettive

Per il nuovo presidente sarà molto difficile governare: dovrà negoziare, mediare, fare accordi e alleanze e mostrare molta moderazione e gradualità negli interventi, evitando di mettere sul tavolo tutte le riforme contemporaneamente, senza poter contare su una solida maggioranza al Congresso che lo sostenga. Non lo aiuta come ovunque, una forte e diffusa presenza della corruzione d la presenza di una oligarchia che è composta da proprietari terrieri militari e imprenditori che hanno costruito le loro fortune all’ombra della dittaturra o consolidato le posizioni che già ricoprivano ai tempi del golpe. La dittatura ha distrutto una generazione: oggi i giovani di allora hanno 70 anni, un prezzo altissimo ghe il popolo cileno non intende pagare due volte!
Ecco perché l’azione di governo dovrà tenere conto della mobilitazione popolare che ha consentito la sua elezione; le aspettative di questa parte dei 17 milioni di abitanti del paese non può essere delusa. In questi anni si sono formati nel paese organismi di base, strutture di potere popolare che controllano larga parte del territorio e che devono far fronte a una povertà crescente, all’assenza di un servizio sanitario universale, di un sistema pensionistico pubblico e dell’uguaglianza salariale tra uomini e donne. Occorre che giunga forte il segnale che la situazione sta cambiando. Il presidente eletto non può dimenticare che i risultati elettorali sono cambiati quando al secondo turno è scesa in campo la parte più svantaggiata del paese.
La vittoria della sinistra in Cile viene dopo quella in Peru [2] ed è di buon auspicio per l’intero continente. È significativo che il candidato di destra che aveva come modello Bolsonaro sia stato sconfitto; speriamo che ne sappia trarre buoni auspici Lula che sta per ritornare in campo in Brasile, chiave politica del continente.

[1] Sul costituzionalismo latino-americano e sulla cultura dei popoli nativi recepiti dall’Enciclica “Laudato si” vedi: Giovanni Cimbalo, La Chiesa di Francesco verso la costruzione della Fraternité: un nuovo costituzionalismo per la Chiesa di Roma. (RI §418506), Revista General de derecho publico comparado, Justel, n. 20 febbraio 2017, pp. 1-19                                                                                                                            [2] La Redazione, Perù: un Presidente campesino. UCADI, Newsletter, n.°147, Giugno 2021

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