La scelta di un’agricoltura “alternativa”

Motivati dal rifiuto di una vita scandita da una corsa senza scopo e senza senso al successo e al denaro nasce nella sensibilità delle persone l’esigenza di perseguire come obiettivo tangibile, visibile, palpabile una vita che si distingua per la sua qualità, riconciliando le persone alla natura. È forse questa la ragione che spinge molti giovani e meno giovani a ritornare a coltivare la terra. adottando una serie di pratiche agronomiche e zootecniche, utilizzando il più possibile i processi naturali, a fare ricorso al potenziale biologico e genetico dei vegetali e degli animali, così da evitare nella misura maggiore possibile, oltre a sprechi, danni all’ambiente.
Nasce così l’esigenza di dar vita a modalità proprie di una agricoltura “alternativa” che si propone, con la lavorazione diretta della terra, di godere di una giusta alimentazione, dandosi ritmi del vivere compatibili con la dimensione umana del tempo e dello spazio, in modo da poter godere e fruire di ciò che la natura offre.
Per conseguire questo obiettivo è necessario ritrovarsi, confrontarsi, scambiarsi esperienze, organizzarsi, per poter gustare prodotti genuini, ottenuti con modalità artigianale, nelle giuste quantità, con ritmi di lavoro sostenibili. C’è chi pensa che ciò permetterà di ricreare un legame tra i luoghi, le tradizioni produttive agricole, i sapori strettamente legati alla stagione, accompagnando questa riappropriazione della dimensione umana del vivere con la scoperta dei luoghi, dei dintorni, delle bellezze nascoste storico naturalistiche, facendo di queste attività in ulteriore occasione per una economia “dell’ospitalità a misura d’uomo” che consenta un tenore di vita dignitoso a chi ha scelto di lavorare la terra. Se tutto questo, viene fatto con i ritmi giusti, senza correre, visitando magari meno, ma assaporando di più e meglio i prodotti della terra, ne guadagneranno anche coloro che vivono nelle città e si dedicano con altri ritmi di vita alle loro attività.
Questi sono, per alcuni, insieme, l’obiettivo e la chiave ottimale per rivedere il rapporto con il mondo, facendo sì che nello scorrere della vita trovino spazio anche le pause, le riflessioni, le passeggiate, il gusto di un buon libro, di una conversazione, di attenzione a quanto ancora intorno a noi è rimasto incontaminato e meritevole di essere valorizzato e riscoperto. Riavvicinarsi alla terra, riscoprire i ritmi naturali ed i cicli stagionali, promuovere prodotti genuini collegati alla tradizione del territorio è un obiettivo che può essere perseguito a condizione di essere disponibili a ridimensionare la tentazione di accumulare profitti sempre più grandi, optando per maggiori soddisfazioni a vantaggio delle poche cose che conferiscono qualità alla vita, con un rapporto più armonico verso tutto ciò che ci circonda, persone, animali, piante e
luoghi.
Sono queste le ragioni che spingono e motivano la scelta di molti che si sono dedicati a praticare l’agricoltura “alternativa” non solo per ciò che dà in qualità della vita, ma come modalità di sostentamento, come scelta economica di supporto della propria esistenza e alla soddisfazione dei propri bisogni, accettando di misurarsi con le proprie necessità,
con il mercato e la complessità dell’economia nella quale siamo immersi.

Ritorno alla terra e rivoluzione

C’è poi in alcuni la tendenza a credere che questo sia un primo passo verso la costruzione di nuovi rapporti sociali e produttivi che preparano alla rivoluzione sociale o che realizzano nel seno stesso del dominio del capitale nuove forme di socialità, dimostrando così che “l’utopia” è possibile. C’è poi chi si spinge oltre, e ipotizza che queste esperienze possano crescere fino ad imporsi e a prevalere, grazie all’esempio che esse rappresentano e agli evidenti vantaggi in qualità della vita che consentono.
A queste compagne e compagni noi comunisti anarchici diciamo, con amicizia e franchezza, che l’anarchismo ha più volte tentato queste esperienze e che tuttavia, come la storia dimostra, queste sono tutte dolorosamente fallite; che le inevitabili relazioni economiche e sociali di queste aggregazioni con la società capitalistica e le sue leggi di mercato, stritolano queste esperienze sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista esistenziale e valoriale e distruggono con il trascorrere del tempo i rapporti di solidarietà che si instaurano fra chi vive queste esperienze. Diverso è il caso in cui queste esperienze si sviluppano in un contesto rivoluzionario e di forte tensione sociale, perché in questo caso il conflitto sociale che coinvolge ed investe l’assetto dei rapporti economici produttivi e sociali fa da sostegno a queste esperienze, che assurgono anzi a grande importanza, perché dimostrano che un mondo diverso è possibile. Valga per tutti l’esempio delle collettività e delle strutture sociali collettive realizzate dall’anarchismo durante la guerra civile spagnola.
Ne consegue che queste esperienze sono certamente apprezzabili e accettabili come esperimenti esistenziali e tentativi di vivere ora e subito secondo regole e forme di relazione sociale e economiche “alternative”, ma tuttavia senza illudersi che si possa andare oltre a dar vita a forme di relazioni più umane e più vicine alla natura. ed anzi avendo ben presente che esperimenti di questo tipo sono sottoposti a una pressione continua da parte della società circostante e che perciò vanno difese con le unghie e con i denti e nella consapevolezza delle difficoltà da affrontare.

L’agricoltura di prossimità

Vi è poi l’agricoltura di prossimità che – come si diceva – si prefigge di “fornisce i prodotti della tradizione, prodotti di stagione e sostenibili da un punto di vista ambientale, senza mai abbandonare l’aspetto qualitativo”.
Sviluppandosi nella vicinanza della città essa offre rilevanti opportunità alle aziende agricole, proprio perché intimamente legate alla prossimità di un potenziale mercato – quello cittadino – che ne dovrebbe permettere il sempre maggiore sviluppo. Un progetto così ambizioso, dovendo fare i conti ogni giorno con le logiche capitalistiche di un sistema agroalimentare che tutela le grandi industrie alimentari danneggiando al contempo i piccoli produttori di cibo, non poteva vivere e svilupparsi senza cercare di dar vita a una rete di realtà contadine. È quanto fanno – ad esempio – associazioni
come “Genuino Clandestino”, un movimento nato nel 2010, che ha come scopo quello di ridare dignità e valore al piccolo ma grande mondo contadino e per farlo ha scelto l’autodeterminazione e la sovranità alimentare.
Mettendo al centro della propria azione la terra come bene comune queste associazioni hanno lanciato un loro “Manifesto” che si concentra su obiettivi sociali quali:

  • “il sostegno alle esperienze di ritorno alla terra come scelta di vita e strumento di azione politica;  l’appoggio e la diffusione di scelte e pratiche cittadine di resistenza al sistema dominante;
  • la costituzione di un’alleanza fra movimenti urbani, singoli cittadini e movimenti rurali, che sappia riconnettere città e campagna superando le categorie di produttore e consumatore. Un’alleanza finalizzata a riconvertire l’uso degli spazi urbani e rurali sulla base di pratiche quali l’autorganizzazione, la solidarietà, la cooperazione e la cura del territorio;
  • il sostegno delle comunità locali in lotta contro la distruzione del loro ambiente di vita”.

“Genuino Clandestino” ha assunto anche ben definite posizioni politiche auto qualificandosi come movimento antirazzista, antifascista e anti-sessista, contro il neocapitalismo. Tra i suoi obiettivi vi è quello di battersi contro quel groviglio di norme ingiuste che equiparano le trasformazioni dei cibi contadini a quelli delle grandi industrie alimentari, richiedendo provvedimenti legislativi – spesso a livello regionale – di sostegno alla propria attività. Vi sono differenze profonde tra il modo di produzione industriale in agricoltura e la dimensione individuale e quella di piccole e piccolissime aziende e dunque le regole, le procedure, i controlli non possono essere le stesse per tutti, soprattutto per ciò che concerne le modalità con le quali le attività ispettive vengono effettuate: troppi i costi, troppe le trasformazioni richieste nelle modalità di produzione che arrivano fino al punto di snaturare le caratteristiche del prodotto.
Per perseguire questi obiettivi il movimento “Genuino Clandestino” si propone di costruire «sistemi di garanzia partecipata per tessere relazioni fra città e campagna e sperimentare reti economiche alternative».
A tutela di questi valori è stata emanata in molti paesi, e in Italia a livello regionale, una legislazione di sostegno normativo e finanziario all’agricoltura di prossimità, le cui norme sostengono un’imprenditoria medio piccola e a volte anche di medie dimensioni, che riforniscono gruppi di acquisto e mercati rionali. Ma non è raro trovare anche
imprenditori che realizzano produzioni di nicchia che si presentano come coltivatori diretti, ma si dirigono verso consumatori “consapevoli”, ma soprattutto abbienti, alla ricerca del “genuino, anche se non lo faccio io”, abitudine tanto cara ad ambienti cosiddetti radical chic in possesso di una buona capacità di spesa. Ciò non toglie nulla alla validità di numerose esperienze di vita e di lavoro, rispetto alle quali, tuttavia, bisogna avere coscienza dei limiti, non illudendosi – come dicevamo prima – che dall’interno del modo di produzione capitalistico possa, come allo schiudersi di una crisalide, fuoriuscire la farfalla della nuova società.
Per quanto gli scopi sociali del movimento siano condivisibili e meritevoli, poiché si prefiggono “l’eliminazione dei fertilizzanti, degli OGM, dei pesticidi chimici e, di conseguenza, l’abbattimento dell’inquinamento di aria e suolo, accompagnato dal sostegno delle economie locali, svincolate dall’agribusiness e che adottino sistemi di autocontrollo partecipato delle modalità di produzione”, il circuito di produzione costituito finisce inevitabilmente per alimentare e soddisfare un consumo di nicchia. Questo limite è strutturale e dipende dal fatto che questo modo di produrre non vuole e
non può sostenere un volume di produttività in grado di sopperire ai fabbisogni della grande massa di consumatori sempre più poveri la cui presenza caratterizza le società più sviluppate, ma anche quelle più arretrate del pianeta.
Riteniamo difficile dunque che si possa sfuggire alla necessità che sia l’agricoltura industriale e su larga scala a dover far fronte alle necessità di cibo per la parte più povera dell’umanità, a condizione di mutare radicalmente modi di utilizzo della manodopera, modalità di gestione e di produzione, modalità di consumo del suolo, rapporto tra agricoltura e deforestazione, salvaguardia dell’ambiente e soprattutto gestione del rapporto con il mondo animale, e modalità dell’allevamento. Intervenire su questi aspetti significa tuttavia spostare il discorso e l’attenzione sulla necessità di una
rivoluzione sociale che ripensi profondamente i modi di produzione e i rapporti con la natura e le specie animali.

Gli orti urbani e sociali, le attività agricole integrative di sussistenza

Da tempo si vanno diffondendo, e oggi anche in Italia, gli orti urbani e gli orti sociali, che costituiscono una modalità di uso del territorio iper-urbano per la sussistenza alimentare, pratica molto diffusa nei paesi dell’Europa del Nord. Ai margini delle città vengono assegnati piccoli appezzamenti di terreno demaniale da destinare ad orto purché direttamente coltivati dagli assegnatari e/o dalle loro famiglie. Si tratta, oltre che di un’attività destinata a impiegare il tempo libero recuperando un rapporto con la terra e la natura, di forme integrative del reddito familiare dello stesso tipo di quelle praticate da lavoratori che prestano la loro attività nei pressi di piccoli borghi e che utilizzano la produzione di un piccolo appezzamento di terreno per integrare il reddito, potendo in tal modo disporre di verdura e frutta autoprodotta e che praticano l’allevamento di animali da cortile.
In questo caso il reddito prodotto va ad integrare il reddito da lavoro dipendente e paradossalmente consente la sostenibilità di bassi salari, peraltro imposti dai rapporti di forza nella società. In tal modo il datore di lavoro impone, anche se in modo indiretto una quota di lavoro “volontario” che va a integrare mediante un aggravio di lavoro il salario.
Vi è tuttavia una differenza tra i due tipi di gestione degli orti ed è legata alla funzione educativa, civica ed etica dell’orto sociale, che manca in quello urbano e naturalmente in quello che va a costituire una parte integrativa del reddito.
La prima città di medie dimensioni in Italia a mettere a disposizione gli orti urbani è stata Bologna. In alcune località della Campania, l’esperimento degli orti sociali, attraverso la partecipazione all’iniziativa degli abitanti, a partire dalle fasce più disagiate, ha riqualificato zone pericolose, occupate dalla criminalità organizzata e prive di un tessuto sociale forte. Altrettanto è avvenuto nel Parco Eco-Archeologico di Pontecagnano in provincia di Salerno, dove sono stati realizzati orti gestiti dagli anziani, recuperando aree molto degradate, prova ne sia che oggi si è sviluppato un luogo di
aggregazione sano e partecipato. Ancora più significativo il caso del quartiere napoletano di Scampia dove al posto di una piazza nella quale avveniva lo spaccio sono stati creati degli orti gestiti in modo collettivo dagli abitanti.
Gli orti sociali vengono affidati attraverso appositi bandi a cooperative locali, come strumento per dare lavoro a persone con handicap o in condizioni di grave disagio. Gestiti con metodi preindustriali, senza l’utilizzo dei macchinari e dei prodotti tipici dell’agricoltura estensiva utilizzati dalle aziende, permettono di ritrovare il contatto con la terra, con i suoi frutti, di conoscere il ciclo delle stagioni e di comprendere meglio l’ecosistema, oltre che la necessità di rispettarlo, soprattutto a studenti e giovani.
La funzione didattica degli orti sociali trova la sua massima espressione in diversi progetti che vedono gli alunni partecipare direttamente alla coltivazione: preparano il terreno, lo seminano, eliminano le piante infestanti, organizzano turni per innaffiarlo; in una parola, se ne prendono cura e danno il buon esempio al resto della collettività. È del tutto evidente che questo tipo di produzione agricola pur essendo psicologicamente e terapeuticamente utile non può costituire una soluzione alle necessità di una disponibilità di massa di prodotti della terra in grado di soddisfare il fabbisogno.
Contribuisce tuttavia ad alimentare il bisogno di cibi genuini e di riscoperta del mangiar bene tradizionale.

Paesi poveri e economia locale di sussistenza

Si potrebbe dire che questa utilizzazione del suolo e il rapporto diretto con la terra e la natura richiamano, la riflessione sviluppata da alcuni sulla distruzione dell’economia rurale di sussistenza nei paesi poveri che ha incentivato la desertificazione e alimentato il bisogno di emigrazione. Basti pensare che fino a pochi decenni fa l’Africa era in grado di garantire la sussistenza della propria popolazione grazie alla coltivazione diretta della terra. Il colonialismo, sviluppandosi e diffondendosi ha proceduto anche in quei territori alla concentrazione della proprietà della terra nelle mani dei colonizzatori e delle nascenti borghesie nazionali. Un ruolo particolare ha avuto la soppressione nei paesi islamizzati del wafq religioso o sociale che permetteva una forma di godimento collettivo della terra la cui proprietà è stata privatizzata e immessa sul mercato. Riproducendo il fenomeno della soppressione delle enclosures nell’Inghilterra che precedette la prima rivoluzione industriale.
L’idea che l’economia di sussistenza possa essere ripristinata, e con essa i fenomeni generati dall’esproprio di terre e dalla concentrazione nelle mani di pochi della proprietà terriera possano regredire, è utopica. E questo non solo per le difficoltà economiche e sociali del progetto, ma perché questa scelta necessita di quella rivoluzione dei rapporti sociali e produttivi che riteniamo necessaria e perché un tale obiettivo non può essere perseguito in un contesto economico sociale che considera l’appropriazione nelle mani di pochi dei beni di produzione primaria come la prima fase dello sviluppo capitalistico. Senza il passaggio rivoluzionario il sistema di produzione alternativo e naturale diviene solo un’ulteriore occasione di business.

Il capitale scende in campo: Eataly

A prova del fatto che dichiarare di produrre dei cibi in modo naturale costituisce un buon espediente per accentuarne il valore sul mercato e che ciò costituisce un obiettivo imprenditoriale serve segnalare che nel 2004 viene fondata la catena di distribuzione alimentare di eccellenza Eataly che propone di far mangiare italiano, ma non soltanto
italiano, utilizzando la produzione agroalimentare della cucina mediterranea, della cultura e della storia enogastronomica del nostro Paese. L’azienda propone la ‘riproducibilità’ dei molti piatti di origini povere, accogliendo le contaminazioni positive che la cucina italiana ha ricevuto da altri Paesi, e diviene così un‘esperienza industriale di successo.
L’obiettivo dell’azienda è dimostrare come i prodotti di alta qualità possano essere a disposizione di tutti, facilmente reperibili e a prezzi sostenibili. Per raggiungere i suoi obiettivi riunisce un gruppo di piccole aziende che lavorano nei diversi settori dell’enogastronomia. Si crea così un rapporto diretto fra produttore e distributore, e ispirandosi a parole chiave come sostenibilità, responsabilità e condivisione, anche se la struttura è aziendale e altamente professionale, prova ne sia che pochi anni dopo la sua fondazione il marchio può vantare una diffusione a livello mondiale, con 38 sedi di cui 16 all’estero (Europa, Giappone, Stati Uniti, Emirati Arabi) e diviene partner strategico del progetto Fico (Fabbrica italiana contadina) grande parco tematico dedicato al cibo con sede a Bologna che ha aperto i battenti nel 2017.
Esraly è un esempio di come i valori e gli obiettivi di una agricoltura che afferma di essere sana e con un rapporto positivo con la terra e la natura possono essere utilizzati dal sistema economico capitalistico per massimizzare i profitti e accumulare significativi utili che, dichiarando di perseguire la ricerca quasi ossessiva della genuinità, realizzano un circuito di mercato esclusivo al quale possono accedere soltanto consumatori di alta gamma in punti di distribuzione e vendita posizionati nei luoghi più esclusivi del pianeta.

Alcune considerazioni di sistema

In generale il problema della produzione agricola come di quella e zootecnica e ittica va affrontato nei terni della compatibilità con l’ambiente, l’equilibrio ecologico, quello dell’inquinamento chimico e dell’etica verso ogni forma di vita: ne va della sopravvivenza del pianeta. Tra i fattori produttivi va compreso il fattore umano e quindi il lavoro delle donne e degli uomini coinvolti ai quali vanno garantiti pari diritti e, nella persistenza del sistema salariale, retribuzioni in grado di garantire esistenze di vita dignitose e in ogni caso la salvaguardia della vita. Benché sarebbe saggio ripristinare
forme di agricoltura di sussistenza per contenere desertificazione e migrazioni, ciò non basta, poiché l’agricoltura industriale è la sua persistenza, anche se in forme rivisitate, è necessaria ad assicurare la sussistenza della specie umana.
Di questi pilastri di intervento che evidentemente vanno declinati in piani di azione specifica di settore non si trova traccia nei progetti del capitale e da ultimo nemmeno nel tanto decantato PNRR che sulla carta dovrebbe accompagnare la transizione verso una economia e una società migliore. Bisogna dunque continuare a battersi contro
l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, la delocalizzazione produttiva, lo sfruttamento del lavoro, l’impoverimento ecologico e culturale, sviluppando le lotte di settore condotte in una visione e in un’ottica di classe, continuare a fare guerra al sistema neoliberista, battendosi contro l’ipocrita politica capitalista che ha avuto, ha e avrà a cuore solo ed esclusivamente la strenua salvaguardia di un sistema economico che opprime miliardi di donne e uomini per creare le condizioni di un cambiamento nella convinzione profonda che un mondo migliore è possibile.
Intanto si potrebbe lanciare una grande vertenza di civiltà e solidarietà, certamente gestibile, chiedendo che con i fondi del PNRR o sul bilancio dello Stato si provveda a fornire di alloggi dotati di servizi alle migliaia di braccianti e lavoratori stagionali che rendono possibile all’agricoltura industriale e estensiva, alla zootecnia e all’allevamento ittico e alla pesca di funzionare. Dovrebbero farsene carico le Organizzazioni Sindacali ma anche le forze politiche sedicenti riformiste, ma naturalmente di qualcosa di simile non si vede traccia.

Gianni Cimbalo

Ci ostiniamo a cercar di capire, ad indagare e ragionare offrendo con modestia il nostro contributo alla maturazione di una coscienza collettiva e di una consapevolezza che ha tuttavia bisogno di operare nel concreto dell’intervento politico.
Ecco perché queste riflessioni non sono rivolte solo all’area comunista anarchica o anarchica del movimento di classe, ma anche ai marxisti non dogmatici e a quanti, intervenendo sui problemi concreti dei proletari, mettono in atto un intervento politico su posizioni di classe ed hanno bisogno di appropriarsi criticamente di conoscenze per applicare alla loro azione un moltiplicatore, una valenza che, se carente di prospettive, diviene sterile.
Di queste compagne e di questi compagni noi oggi, come sempre, siamo al servizio, disponibili a cogliere ogni richiesta, ogni domanda di riflessione, a fornire quel retroterra che può essere utile a rinforzare e motivare l’intervento politico: questo senza alcuna pretesa di assumere un ruolo di guida e di direzione politica, ma desiderosi soltanto di svolgere la funzione di memoria storica.