Tra delocalizzazione e reshoring

Il capitalismo, per massimizzare i profitti cerca costantemente di abbassare i costi di produzione. Lo fa incidendo su quelli delle strutture, sul costo dei macchinari e soprattutto sul costo della forza lavoro. L’intervento inizia violentando l’ambiente, utilizzando e consumando il suolo; spesso lo inquina irrimediabilmente, lo sfrutta fino alla desertificazione. Investendo sulla tecnologia cerca di disporre di macchinari sempre più efficienti, poco preoccupandosi dei danni collaterali che questi possono produrre come ad esempio le morti sul lavoro a causa degli alti ritmi di produzione e dell’abbassamento di ogni ragionevole cautela nelle attività di lavoro. Infine, ma non da ultimo, l’imprenditore crea le condizioni per utilizzare la forza lavoro umana a un costo il più basso possibile. Quest’insieme di voci costituisce il costo di produzione per quelle che vengono spacciate come attività meritorie, mentre in realtà siamo di fronte a un’azione di rapina di quelli che sono i beni pubblici e del prodotto del lavoro dei propri simili. Quando tutti gli altri costi sono incomprimibili o gli investimenti necessari a ridurre i costi sono troppo alti l’imprenditore agisce sul costo della forza lavoro, operando sui salari e sui costi indiretti del lavoro (assicurazione malattie, pensioni, ecc. della forza
lavoro). Ricorre quindi alla delocalizzazione degli impianti produttivi.
Questo modus operandi caratterizza soprattutto le aziende multinazionali che spostano tutte o parti delle attività in altri paesi nei quali il costo del lavoro è più basso e la manodopera abbondante, in modo da poter ne disporne ad un costo minore. Non ha alcuna importanza se l’impresa produce comunque profitti, se si distrugge la struttura economica di un territorio, se si travolgono le vite delle lavoratrici e dei lavoratori, se si gettano nella miseria gli abitanti di una regione, se si mette in crisi un intero distretto produttivo, determinando il fallimento delle aziende collegate a quella principale che
costituiscono l’indotto: è la bellezza del capitalismo e dell’economia liberista.

La delocalizzazione delle aziende italiane.

Questo processo coinvolge anche le aziende italiane e prima della pandemia il fenomeno sembrava in attenuazione perché mentre nel 2001-2006 coinvolgeva ben il 16% delle aziende nel 2015-2017 riguardava il 3%. Il 62% delle aziende ricorreva alla delocalizzazione per ridurre il costo del lavoro mentre le altre per meglio accedere ai mercati esteri. [Annuario statistico Commercio estero e attività internazionali delle imprese Istat & ICE del 2019, https://www.istat.it/it/archivio/annuario+Istat-Ice].
Malgrado che questa fosse la tendenza generale non mancavano, anche prima della pandemia le aziende coinvolte come la Embraco (2017, compressori) o la Whirlpool della quale veniva annunziata la chiusura. Si tratta nella gran parte di aziende di media dimensione che vedono compromesso il loro futuro dalle scelte della proprietà che ritiene più conveniente andare a produrre da altre parti. La sospensione dei licenziamenti introdotta con l’esplosione della pandemia è ripresa con la fine del blocco e sono esplose la crisi della Riello, quella della Gianetti ruote di Ceriano Laghetto (152
operai), dello stabilimento Timken di Villa Carcina, in provincia di Brescia, che lascia a casa i suoi 106. Nel settore dell’automobile troviamo la Vitesco che producono iniettori per motori termici visto l’orientamento del mercato verso quelli per l’ibrido e l’elettrico con 750 esuberi a partire dal 2024 e la KGN di Campi Bisenzio con 422 lavoratori
licenziati ai quali bisogna aggiungere quelli dell’indotto., annunciati sono 750.
Per queste aziende la delocalizzazione annunziata è verso i paesi ex socialisti, in Polonia, ma anche in Slovenia e in genere dei paesi dell’Est. La ragione che spinge i padroni è il costo del lavoro ridotto a meno del 50%, posto che lo stipendio medio di un metalmeccanico in Polonia è di 750 € e il salario di ingresso è di 600 €. Ci sono poi gli incentivi fiscali dei governi, le facilitazioni e una legislazione più snella per stimolare gli investimenti. La libera circolazione dei capitali e delle merci prodotte, assicurate dai trattati CEE fa il resto e rende possibile e conveniente l’investimento.

Le delocalizzazioni nell’U. E., in Cina, nel mondo

Il problema delle delocalizzazioni è avvertito in tutti i Paesi sottoposti alla globalizzazione. In particolare, i paesi dell’Est, con il loro ingresso nell’Unione, sono divenuti estremamente competitivi praticando sia il dumping finanziario sia quello del costo del lavoro. Altrettanto è avvenuto con i paesi dei Balcani anche se alcuni di questi sono ancora ai margini dell’Unione. Tutti comunque hanno fatto da serbatoio di manodopera per l’Occidente ponendo anche momentaneamente riparo alla sua crisi demografica. Lo sviluppo delle infrastrutture e la scelta della delocalizzazione e di
un modello economico basato sull’utilizzazione massima della logistica hanno contribuito a incentivare le delocalizzazioni che, tuttavia, in una prima, fase hanno riguardato le lavorazioni a basso contenuto professionale e a medio utilizzo della tecnologia. Si sono successivamente diffuse tendenze al reshoring quando ci si è resi conto che la caduta di qualità del prodotto danneggiava la presenza sui mercati e grazie all’incremento sia della migrazione interna che di quella dall’esterno dell’unione che è uno dei pochi antidoti reali alla delocalizzazione perché, alimentando il mercato
del lavoro, a volte anche quello grigio o nero, costituisce, a nostro avviso, il vero antidoto strutturale alla delocalizzazione, anche perché rilancia i consumi del mercato interno.
Specifici aspetti presenta la delocalizzazione verso la Cina e la politica di contrasto che quel paese ha a sua volta messo in atto per contrastare le delocalizzazioni. Per comprendere cosa è avvenuto bisogna tenere conto che ci occupiamo di un Paese sedicente “socialista” che mantiene un forte controllo sull’economia. D’altra parte, la stessa politica hanno perseguito gli USA, specie durante la presidenza Trump, attraverso il controverso sistema dei dazi doganali. Sia detto per inciso che in Europa, soluzioni del genere potrebbero teoricamente essere adottate verso le frontiere esterne (cioè per impedire delocalizzazioni al di fuori del territorio U. E.), ma sono impedite per quanto concerne le frontiere interne.
La Cina, comunque in una prima fase ha creato le zone economiche speciali nelle quali ha concentrato gli investimenti stranieri concedendo la possibilità di un brutale e disumano utilizzo della forza lavoro e successivamente, quando l’interesse per la delocalizzazione di produzioni è cresciuta ha imposto la creazione di imprese miste, nelle quali il socio cinese sedeva nei consigli di amministrazione e aveva così accesso al know-how dell’azienda. In caso di reshoring lo Stato imprenditore rileva l’azienda abbandonata e la riavvia dotandola know-how revisionato e aggiornato per poter competere sul mercato, forte del fatto di poter disporre di manodopera in abbondanza, di conoscenze tecnologiche accresciute, vendendo un prodotto migliorato, in un mercato in espansione. La Cina a sua volta delocalizza le produzioni a più bassa tecnologia nei paesi del Sud Est asiatico e investe utilizzando la propria forza lavoro in Africa.
L’investimento dei paesi occidentali verso aree esterne all’U. E. nei paesi del terzo mondo, nell’America Latina e addirittura negli USA si rivela economicamente positivo solo quando trova sbocchi nel mercato interno, il che non accade con frequenza.

Il movimento operaio tedesco contro le delocalizzazioni

Il problema non è solo italiano, ma anche soprattutto tedesco e francese. Questi due paesi hanno affrontato il problema con strumenti diversi. La Germania ha decentrato in una prima fase molte delle sue produzioni a basso contenuto tecnologico o di segmenti delle diverse produzioni verso paesi dell’Est come Polonia e Ungheria (dove le leggi
sul lavoro consentono uno sfruttamento bestiale della manodopera, Vedi: Procedura d’infrazione, Neswletter Crescita Politica, 23 Luglio 2021, n. 148), ma già bel 2004 è stata organizzata la campagna Besser statt Billiger, articolata in iniziative nazionali e regionali, con lo scopo di sostenere i rappresentanti dei lavoratori nel proporre alternative sostenibili alle prospettive di esternalizzazione, delocalizzazione e tagli al personale e di invertire il fenomeno inducendo le imprese a effettuare il reshoring ovvero il rientro in Germania. Sono stati varati i progetti Arbeit 2020, Arbeit und Innovation e trans fA+Ir, lanciati tra il 2015 e il 2020 per promuovere il coinvolgimento attivo dei consigli di fabbrica nei progetti di innovazione nei luoghi di lavoro: il sindacato IG METAL ha operato, spesso in partnership con esperti e ricercatori, per accrescere le competenze dei consigli di fabbrica nell’accompagnare, anche sfidando l’unilateralità di certe scelte strategiche delle aziende, i percorsi di riorganizzazione e modernizzazione in azienda e da ultimo è stata approvata dal Governo federale (31 marzo 2021), dopo mesi di discussioni la “Legge per la modernizzazione dei consigli di fabbrica” (Betriebsrätemodernisierungsgesetz) per dar modo ai lavoratori di influire e mettere sotto controllo l’operato delle aziende.
Proprio quando l’economia tedesca stava rallentando l’ingresso in un sol colpo di un milione di migranti nel paese ha portato alla disponibilità improvvisa di manodopera che ha frenato insieme alla crescita dell’emigrazione stagionale soprattutto dall’Ucraina l’esternalizzazione delle imprese tedesche. Le aziende tedesche, che decidono di
ritrasferire in patria le capacità produttive, lo fanno principalmente per motivi di flessibilità e di raggiungimento degli standard di qualità. Tuttavia, per mantenere questi trend la Germania necessita di disporre di mano d’opera a basso prezzo, cosa possibile solo a condizione che si accettino grandi quantità di immigrati da altri continenti, possibilmente già selezionati nel paese di primo arrivo, cosa alla quale gli altri paesi europei si oppongono veementemente − ed è chiaro perché.
La popolazione tedesca invecchia e inizia a contrarsi perché la natalità è bassissima; perciò, non offre la possibilità di aumentare i consumi interni. Né possono essere in espansione i mercati tradizionali di vendita all’estero: l’Europa è satura di prodotti tecnologici tedeschi e non ha una popolazione in crescita, il mercato russo al momento è da sanzioni internazionali che politicamente non si possono aggirare. Il settore finanziario tedesco è tutt’altro che eccellente, le banche sono sottocapitalizzate e poco efficienti. Malgrado ciò, per ora l’economia tedesca rimane la più florida del Continente, però il suo potenziale di crescita è grandemente ridotto. Occorre un cambio di marcia, un diverso orientamento, una politica che apra nuovi mercati di vendita e nuovi mercati di produzione a costi inferiori di quelli europei.

La legge Florange in Francia incentivo al reshoring

La Francia ha tentato di rispondere alla delocalizzazione con una legge rivelatasi di dubbia efficacia: ci riferiamo alla legge Florange.[1] In base a questa legge qualsiasi amministratore di società appartenente a un gruppo di più di 1.000 dipendenti e che desideri chiudere uno dei suoi stabilimenti deve cercare un acquirente. I dipendenti stessi possono presentare un’offerta di acquisizione. Il comitato aziendale è informato delle offerte di acquisto, può esprimere un parere ed essere assistito da un esperto, pagato dall’impresa. Il datore di lavoro consulta il comitato aziendale su qualsiasi offerta
a cui desidera dare seguito. Se non è stata ricevuta alcuna offerta o se non è stata intrapresa alcuna azione sulle offerte, il datore di lavoro invia una relazione al comitato aziendale. Le azioni intraprese dal datore di lavoro sono prese in considerazione nel contratto di rilancio, che viene concluso dalle aziende che effettuano i licenziamenti collettivi al fine di sviluppare l’occupazione nel territorio interessato.
Il comitato aziendale o i rappresentanti del personale possono rivolgersi al Tribunale commerciale se ritengono che l’impresa non abbia rispettato l’obbligo di trovare un acquirente, o che si sia rifiutata di dare seguito a un’offerta che considerano seria. Il Tribunale può poi imporre una sanzione fino a venti volte il valore mensile del salario minimo per lavoro cancellato, ovvero più di 28.000 euro per dipendente. L’importo della penale tiene conto della situazione dell’azienda e degli sforzi compiuti per trovare un acquirente. L’importo ricavato dalla penale è destinato alla creazione di attività e posti di lavoro nel territorio interessato, nonché alla promozione e allo sviluppo del settore industriale interessato. Il Tribunale commerciale può obbligare la società a rimborsare in tutto o in parte l’aiuto finanziario pubblico ricevuto per lo stabilimento chiuso. Inoltre, sono previste misure a favore degli azionisti di lungo termine; il diritto di voto è raddoppiato per le azioni per le quali si dimostri che siano detenute da più di due anni dallo stesso azionista.
Per facilitare l’applicazione della legge la soglia di attivazione obbligatoria per un’offerta pubblica di acquisto (OPA) è ridotta dal 30% al 25% del capitale. Tuttavia, un emendamento della relatrice socialista Clotilde Valter prevede la soppressione di tale disposizione. Il comitato aziendale deve essere consultato dal promotore dell’offerta anche prima del suo lancio.[2] La legge si è purtroppo rivelata poco efficace nell’ostacolare il decentramento produttivo e stimolare il reshoring.
In verità si sono rivelate più utili e produttive per i padroni i provvedimenti e gli interventi del governo francese nel promuovere l’espansione e le acquisizioni del capitalismo d’oltralpe, anche grazie alle partecipazioni pubbliche nelle aziende ritenute strategiche per il Paese. Tuttavia, nel cercare una via d’uscita ai propri problemi i lavoratori italiani hanno cercato soluzioni di tipo legislativo, alla francese.
Da parte di chi scrive si ritiene certamente necessario il sostegno legislativo e certamente quello del diritto del lavoro che la vicenda GKN ha dimostrato, ma questo non basta a superare il problema. Occorre intervenire sui nodi economici strutturali per impedire che il progettò degli speculatori prevalga.

Il caso della GKN e la proposta dell’intervento legislativo

Per risolvere i loro problemi i lavoratori della GKN hanno chiesto un aiuto ai Giuristi democratici che hanno pubblicato un documento in otto punti per la stesura di una legge contro le delocalizzazioni che parte dalla considerazione che “delocalizzare un’azienda in buona salute, trasferirne la produzione all’estero al solo scopo di aumentare il profitto degli azionisti, non costituisce libero esercizio dell’iniziativa economica privata, ma un atto in contrasto con il diritto al lavoro, tutelato dall’art. 4 della Costituzione”.
Di seguito riproduciamo gli otto punti individuati che rappresentano anche una procedura per queste situazioni di crisi.
1. Procedura di licenziamento collettivo da parte delle imprese.
2. L’impresa che intenda chiudere un sito produttivo deve informare preventivamente l’autorità pubblica e le rappresentanze dei lavoratori presenti in azienda e nelle eventuali aziende dell’indotto, nonché le rispettive organizzazioni sindacali e quelle più rappresentative di settore.
3. L’informazione deve permettere un controllo sulla reale situazione patrimoniale ed economico-finanziaria dell’azienda, al fine di valutare la possibilità di una soluzione alternativa alla chiusura.
4. La soluzione alternativa viene definita in un Piano che garantisca la continuità dell’attività produttiva e dell’occupazione di tutti i lavoratori coinvolti presso quell’azienda, compresi i lavoratori eventualmente occupati nell’indotto e nelle attività esternalizzate.
5. Il Piano viene approvato dall’autorità pubblica, con il parere positivo vincolante della maggioranza dei lavoratori coinvolti, espressa attraverso le proprie rappresentanze. L’autorità pubblica garantisce e controlla il rispetto del Piano da parte dell’impresa.
6. Nessuna procedura di licenziamento può essere avviata prima dell’attuazione del Piano.
7. L’eventuale cessione dell’azienda deve prevedere un diritto di prelazione da parte dello Stato e di cooperative di lavoratori impiegati presso l’azienda anche con il supporto economico, incentivi ed agevolazioni da parte dello Stato e delle istituzioni locali. In tutte le ipotesi di cessione deve essere garantita la continuità produttiva dell’azienda, la piena occupazione di lavoratrici e lavoratori e il mantenimento dei trattamenti economico-normativi. Nelle ipotesi in cui le cessioni non siano a favore dello Stato o della cooperativa deve essere previsto un controllo pubblico sulla solvibilità dei cessionari.
8. Il mancato rispetto da parte dell’azienda delle procedure sopra descritte comporta l’illegittimità dei licenziamenti ed integra un’ipotesi di condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 l. 300/1970 [2].

Alcune considerazioni strutturali

Con onestà intellettuale manifestiamo ai compagni della GKN i nostri dubbi e perplessità relativamente alla proposta dei giuristi democratici alla quale guardiamo con rispetto ed attenzione. In linea generale dubitiamo che una legge possa con efficacia affrontare e risolvere il problema, tanto più se si tratta di una legge nazionale, peraltro avversata da Confindustria e Governo e che sarà difficile dotare di strumenti realmente attuativi.
Gli industriali rivendicano mani libere nella gestione della forza lavoro e il Governo nella persona del Ministro leghista dell’industria, che tanto difende gli interessi nazionali, ha dichiarato che le leggi ci sono già (e sono pessime e inefficaci), mentre più esplicitamente il demiurgo Presidente del consiglio pensa che è il mercato che decide e, dunque, se i padroni decidono che un’azienda deve cessare la produzione sono i lavoratori a doversi adattare, riciclandosi ad altri mestieri. Compito della politica è al massimo sostenerli nella transizione per un certo periodo, predisporre un piano di
riqualificazione professionale o più realisticamente di riciclo. Pensare dunque a una legge, come strumento risolutivo, al di là delle promesse, è dura. Necessario invece fare una riflessione politica generale e pensare poi a come eventualmente
supportarla a livello legislativo, tenendo presente che poiché l’interesse dei lavoratori europei è comune conviene cominciare a pensare sul lungo periodo a una azione comune a livello U. E. chiedendo che dell’agenda politica entri al far parte il contrasto al dumping della forza lavoro, anche perché nulla mette al riparo i lavoratori dell’Est Europa da delocalizzazioni future.

Qualche ipotesi per soluzione di lungo periodo ed immediate

Occorre probabilmente pensare a due possibili piani di intervento: uno strategico di medio e lungo periodo e uno di intervento immediato per la soluzione di problemi specifici come quelli delle compagne dei compagni della GKN e di tante altre aziende che si trovano di fronte alla delocalizzazione.
Intanto va salutata come un primo importante risultato – anche se non sufficiente – la decisione dell’Unione Europea a proposito di una tassazione minima comune al 15% degli utili, percentuale che occorre elevare, Un analogo criterio deve essere adottato per il costo del lavoro per il quale va fissato almeno un salario minimo europeo partendo dal quale si sviluppa l’azione contrattuale dei sindacati. Lo sbocco inevitabile non può che essere un sistema fiscale comune a tutta l’Unione. Paesi come quelli del blocco di Višegrad vanno non solo circuitati politicamente ma sospesi dai finanziamenti comunitari perché e da questi paesi che viene messo in atto principalmente il dumping salariale. Un primo strumento di contrasto a questa politica è l’adozione generalizzata del salario minimo: occorre allora discutere con il sindacato le modalità di adozione di questa misura per legge vincolandone il rispetto all’accesso alle risorse comunitarie.
Sul piano legislativo bisogna dotare la legge di protezione degli investimenti e di contrasto alle delocalizzazioni magari costituendo un autority che abbia competenza ad indagare sulle operazioni speculative del tipo di quelle messe in atto dal fondo finanziario Melrose, disponendo in questi casi un’indagine fiscale e patrimoniale che possa sfociare nella sospensione dal mercato azionario. Tutto questo in aggiunta, ovviamente, agli altri interventi sul piano finanziario e azionario ipotizzati.
Sul piano generale è necessario che le Organizzazioni Sindacali definiscano col Governo e con le rappresentanze datoriali delle politiche di filiera che del resto sono compatibili e necessarie se si viole dare attuazione al PNRR ricordando che per attuarlo il Paese si è indebitato per gli anni a venire e che quindi un’economia florida è la sola
condizione per onorare gli impegni assunti.

[1] La legge è stata proposta durante la campagna elettorale da Francois Hollande a seguito della chiusura del sito per la produzione di acciaio della ArcelorMittal situato a Florange nel tentativo di contrastare il movimento di deindustrializzazione e delocalizzazione e promuovere la rinascita dei siti industriali. È stata promulgata il 29 marzo 2014 col titolo di “riconquista della economia reale”.
[2] Per un commento della legge Floramge: J. Brosset, N. Cuntz, avvocato presso Brandford Griffith e associati, disegno di legge Florange: presentazione del meccanismo volto a rafforzare l’efficacia dell’intervento dei comitati aziendali nelle offerte pubbliche, Joly Bourse Bulletin, 1 luglio 2013 n° 7-08, p . 334 ss. ; E. Serverin, R. Dalmasso, La procedura per la ricerca di acquirenti in cerca di certezza del diritto rispetto alla proposta di legge “volta alla riconquista dell’economia reale”, Semaine Lamy 1603, 2013.

La Redazione