Lavorare pericolosamente

1. Contrariamente a quanto si crede il numero delle morti sul lavoro in Italia non è molto diverso dalla media europea. Contro una media europea di 2,21 incidenti all’anno ogni 100.000 lavoratori, l’Italia presenta una statistica di 2,6 eventi mortali. Ciò significa che se ci sono paesi più virtuosi (Olanda 0,71, Germania 1,11, Svezia 1,21, Regno Unito 1,46, ma anche Polonia 1,61, Grecia 1,93 e Repubblica Ceca 2,19), ve ne sono anche dr peggio messi; non si parla solo della Romania (6,11), Slovacchia (2,72) e Bulgaria (3,74), ma pure della Francia (4,14), la Svizzera (2,65), l’Austria (5,44) ed anche il microscopico Lussemburgo (10,8). Si sa le statistiche vanno prese con le molle ed interpretate.
Il caso citato per ultimo, per esempio, ci fa riflettere sul fatto che pochi casi su di un piccolo numero di riferimento possono far registrare percentuali eccessivamente elevate. Sul caso italiano, invece, il sospetto che sorge, anche se prove non ne esistono, è che non tutti gli incidenti vengano denunciati se avvenuti a scapito di lavoratori a nero, anche se nei casi mortali il loro occultamento diviene più problematico. Il dato che più ci interessa al momento è che nei primi quattro mesi dell’anno 2021 gli incidenti mortali sono cresciuti del 9,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Già il 2020 aveva segnato un aumento del 16,6% rispetto al 2019. Ora entrambi gli ultimi due anni sono stati caratterizzati da un forte rallentamento delle attività produttive a causa della pandemia. Come si spiegano questi aumenti?
2. Della situazione dei braccianti agricoli, spesso di colore ed in nero anche come lavoratori, ridotti a novelli schiavi, abbiamo già detto nel numero precedente ed in questo. Il settore agroalimentare non ha conosciuto soste durante la pandemia e quindi il suo contributo alle morti bianche non è, purtroppo, sostanzialmente mutato, se non per le inevitabili fluttuazioni statistiche; esso rimane impressionantemente alto, ma non può rendere ragione degli aumenti percentuali sopra registrati.
3. Non subito l’avvento del Sars-Cov-2 ha fermato la produzione industriale e quando lo ha fatto non per molto tempo. Il caso della Val Seriana è tristemente noto. Lo spasmo produttivo ha procrastinato la chiusura in quella zona a forte insediamento industriale e ciò ha provocato un’accelerazione della circolazione del virus. I contagi nei luoghi di lavoro vengono classificati dall’Inail come incidenti di lavoro, ma il conteggio dei decessi non grava sul numero delle morti sul lavoro; invece, gran parte delle dipartite di quel periodo andrebbero conteggiate tra le morti bianche e non solo quelle dei lavoratori che hanno contratto la malattia in fabbrica, ma anche quella dei familiari da loro contagiati. Tutti questi sono stati immolati sull’altare della produzione.
4. La produzione appunto, che in realtà ha subito una sospensione temporanea, è andata incontro ad un vistoso rallentamento per mancanza di adeguate commesse. Se il settore agroalimentare, come detto, non ha conosciuto soste o interruzioni, l’industria ha scontato il rallentamento della congiuntura; ristorazione, turismo, attività ricreative si sono interrotte e con esse tutto l’indotto. Nel 2020 l’edilizia è andata in profonda recessione, il mercato dell’auto in Italia è crollato del 27,9%, i consumi in generale sono diminuiti del 10,9%. Ne è conseguito un drastico calo anche della domanda di beni durevoli. L’inizio di ripresa dell’attività del 2021 non ha spinto l’imprenditoria italiana a guardare ai nuovi profitti in arrivo, ma essa è stata colta dall’ansia di recuperare anche quelli persi l’anno precedente ed ovviamente ciò ha comportato un’intensificazione dello sfruttamento attraverso due strumenti classici: l’aumento dei ritmi di lavoro che come a Prato hanno portato alla morte di una giovane operaia Luana d’Orazio di 22 anni e la riduzione della manodopera. Per il secondo asse strategico dell’incremento dei profitti, la fine del blocco dei licenziamenti, fortemente voluta da Confindustria e dalla destra leghista, è caduta come il cacio sui maccheroni e gli effetti non hanno tardato a manifestarsi.
5. Da ormai molto tempo in Italia si lamenta la scarsezza dei controlli sulle condizioni di lavoro nei luoghi di produzione ed il numero esiguo di ispettori. A lungo le ispezioni sono state a carico di enti diversi, con procedure e compiti differenti.
All’inizio del secolo il governo Prodi ha unificato le procedure ed ampliato i poteri degli ispettori. Nel 2015 Renzi (sempre lui) ha istituito, con il non mai troppo vituperato Job Act, l’INL (Istituto Nazionale del Lavoro) e le cose sono peggiorate: calo del numero degli ispettori, complicazioni delle procedure, pluralità di passaggi autorizzativi con
conseguente facilità di soffiate agli imprenditori soggetti ad ispezione. Un raffronto tra i numeri degli addetti all’attività ispettiva nei vari paesi industrializzati lascia il tempo che trova, perché la struttura produttiva italiana è del tutto peculiare, basata com’è sulle piccole e medie aziende (PMI), soprattutto piccole e piccolissime; questa diffusione della manifattura sul territorio, la sua disseminazione in tanti capannoni, rende molto difficile il controllo sulle condizioni di sicurezza in cui si svolge il lavoro, complice la scarsità di personale, il cui incremento pare sia nelle intenzioni del Ministro Orlando.
6. I sindacati hanno recentemente menato vanto dell’aver ottenuto l’equiparazione di trattamento e diritti tra i lavoratori dell’azienda madre e quelli della ditta cui questa conferisce l’appalto; ciò, però, riguarda i lavori assegnati all’interno del PNRR. La catena di appalti e subappalti degrada inevitabilmente le condizioni di sicurezza in cui l’attività produttiva viene svolta, oltre, ovviamente, alla diminuzione delle retribuzioni con cui i lavoratori delle ditte al temine della filiera vengono remunerati ed all’aumento incontrollato dei carichi e degli orari della prestazione lavorativa.
7. La logistica è uno dei settori in cui il rischio si incidenti mortali si è di recente particolarmente evidenziato. Se le produzioni di prossimità e il riaggregarsi di porzioni di produzione un tempo parcellizzate in territori fortemente distanti l’uno dall’altro, ne hanno ridotto l’importanza strategica, un notevole impulso essa ha ricevuto, complice la pandemia, dall’esplosione del commercio elettronico; il trend dell’e-commerce delle piccole aziende attive nel settore doveva, secondo le previsioni, crescere dal 9,1% del 2019 all’11,1% nel 2021, mentre i dati parlano per il 2021 del 15%. Le ditte che assicurano questi servizi si basano, per le corte distanze, sui cosiddetti rider, il cui sfruttamento sta forse conoscendo ora una qualche limitazione. Per le lunghe distanze ne hanno beneficiato le ditte della logistica, che però devono fronteggiare una crescente richiesta di velocità nelle consegne. La tensione derivante dalla puntualità dell’effettuazione del servizio si riverbera inevitabilmente sulla sicurezza degli addetti.
8. Volendo trarre delle conclusioni, ciò che può rendere conto della crescita delle morti bianche è la bulimia del profitto.
La voglia di recuperare il tempo perduto spinge l’imprenditoria a comprimere i prezzi per aumentare i margini di guadagno e tale compressione può essere ottenuta in vati modi: i) aumentare i ritmi di lavoro; ii) risparmiare sui costi, quelli della sicurezza in particolare; iii) ridurre il personale; iv) velocizzare le intermediazioni; v) adibire personale sottopagato a mansioni che non gli competono. Tutti questi espedienti hanno un tragico riflesso sulle condizioni di lavoro, sulla lucidità con la quale la prestazione lavorativa viene erogata, sull’adeguatezza e consapevolezza di chi questa prestazione effettua. La velocità, feticcio di questi tempi, è cattiva consigliera e quando essa si accoppia con la rapacità non può che discenderne una disgrazia che sempre colpisce i più deboli.

Saverio Craparo