Biennio rosso e biennio nero

Il 18 dicembre 1922 Pietro Ferrero, segretario della sezione di Torino della Federazione Italiano Operaia Metallurgici (FIOM), dichiaratamente anarchico, viene barbaramente trucidato dalle squadracce fasciste “dopo essere stato colpito ferocemente, [fu] legato per i piedi ad un camion e trascinato a lungo per i i viali di Torino”. Maurizio Garino,
altro leader anarchico, leader storico del movimento operaio alla FIAT, attivo nella FIOM e durante l’occupazione delle fabbriche a Torino, lo riconosce a stento quando lo chiamano nella camera mortuaria dell’ospedale.
L’assassinio si inserisce nell’ambito della definitiva normalizzazione che il fascismo sta effettuando per conto della monarchia sabauda e della borghesia nazionale, che si è realizzata con omicidi e distruzioni di strutture proletarie nel biennio passato (definito dalla storiografia come nero in opposizione a quello rosso precedente). Visti i buoni risultati precedenti il re ha convocato il 28 ottobre dello stesso anno Mussolini che si
reca da Milano a Roma in carrozza letto, mentre le sue squadracce inscenano la finta “marcia su Roma”; se il re avesse voluto fermarle avrebbe potuto usare i carabinieri come sempre li usò contro le masse, da quelle che chiedevano pane e che fece in molti casi prendere a cannonate, ai contadini e agli operai che avevano appena lottato per un reale cambiamento sociale nel biennio rosso.
In realtà tutto si svolge in ambito “legalitario”: il re dà l’incarico di Presidente del Consiglio a Mussolini, che governa quindi secondo le regole del tempo fino al gennaio 1925 quando attua il vero e proprio colpo di stato, non senza il consenso degli industriali, degli agrari, delle forze armate e della Corona che avrebbe potuto,
come fece nel 1943, intervenire se avesse avuto altre idee.
Questo a ricordo dei fatti reali che determinarono poi la decisione dei Costituenti di dichiarare che i figli maschi Savoia non avrebbero più potuto rientrare in Italia, ed ora ci tocca vedere il bel Vittorio Emanuele anche in Tv (basta spegnere, comunque e in ogni caso meglio accendere poco!).
Tornando ai fatti di Torino quello che è importante è che Ferrero viene preso una prima volta durante l’assalto e la distruzione della Camera del Lavoro, che doveva essere forte se ancora a dicembre resisteva rispetto a molte altre del paese, già conquistate o distrutte nei mesi precedenti. Nonostante la prima volta fosse stato picchiato a sangue, Ferrero torna alla Camera del Lavoro per mettere in salvo la cassa della FIOM, da
bravo segretario.
Ancora oggi nell’atrio della Camera del Lavoro c’è un busto di Ferrero ed ogni anno la CdL tiene un commemorazione dei fatti del dicembre 1922.
Oggi di questi fatti si parla ben poco, il dibattito “politico” (o meglio dire giornalistico televisivo) si occupa di primarie, imprenditori buoni, tecnici super partes, bontà degli organismi internazionali che ci salvano con le banche (forse più loro che noi!) dalla crisi perché abbiamo mangiato troppo nel passato (anche qui sicuramente più le banche di noi!). Per non dire di quanto non si parli della presenza nelle lotte sindacali degli
anarchici che pure ci sono e non sono pochi neppure oggi. Il termine anarchico compare a livello di mass media quando si vuole denigrare un gruppo, una frangia di movimenti reali, che vengono in questo modo demonizzati e facilmente attaccati poi a livello delle forze dell’ordine, sia di polizia che di autorità giudiziaria.
Il fatto è che col termine anarchico oggi si designa una delle due correnti di questa teoria di origine internazionalista, quella individualista ed antiorganizzatrice, dimenticando che i tre quarti della storia mondiale dell’anarchismo è stata invece fatta, in Italia e nel mondo, dai comunisti anarchici come Ferrero e Garino che, ieri come oggi, praticano i principi comunisti che fanno da base alla loro teoria, mettendoli in pratica nelle lotte degli sfruttati e puntando alla loro organizzazione come motore reale di cambiamento della società.
Ben lo sapevano i numerosi militanti anarchici che furono fra i promotori delle prime Leghe ottocentesche, del primo Partito Operaio, poi a fine Ottocento e inizi del nuovo secolo, della nascita delle Federazioni di mestiere, ma soprattutto delle Camere del Lavoro, organismi che si legavano in maniera organica alle strutture del movimento operaio e contadino sul territorio. Una scelta opposta a quella del Partito Socialista
Italiano che, in maniera leninista, fin dalle origini, riteneva che i sindacati e le loro strutture non dovessero essere indipendenti, ma solo il Partito avesse la possibilità di guidarle quando la lotta si fosse fatta più politica.
Nella teorizzazione anarchica, fin dalle origini bakuniniste, il motore reale del cambiamento verso una società comunista saranno sempre le masse, la loro capacità di analisi e di organizzarsi in strutture che abbiano un triplice scopo:
1) conquistare quanto più è possibile alla ferocia del capitalismo per una vita più dignitosa di tutti, con un’azione che potrebbe sembrare riformista ma non la è se portata avanti insieme alle altre due seguenti;
2) anche se presi dalla lotta di sopravvivenza quotidiana, di conquiste di maggiori salari e condizioni di vita, è fondamentale per gli anarchici non dimenticare mai il fine, la costruzione di una società comunista e libertaria. Per questo le masse devono sperimentare, secondo gli anarchici, anche l’alternativa al capitalismo, occuparsi di come sarà la società futura, e cercare di darsi strutture che non siano in contrasto con quel fine;
3) dandosi strutture e modi di funzionamento libertari il proletariato potrà provarsi nella propria forza, sperimentare parti di una società di uguali e liberi, e così attaccarsi ancor di più a quelle idee.
E’ quanto gli anarchici nel biennio rosso sperimentano in tutta Italia. Molti di loro furono presenti nelle strutture del movimento operaio del triangolo industriale, da Torino a Milano e Genova, in molte aree a forte concentrazione industriale come la costa tirrenica, Terni, Taranto, tanto per smentire chi li definì residui arcaici del movimento operaio.
I quattro anni che vanno dalla fine della guerra all’uccisione di Ferrero gli anarchici sono al centro dell’attività e dell’elaborazione politica che porterà ai Consigli di fabbrica e all’occupazione della FIAT.
Particolare significato rivestiva il concorso all’elaborazione relativa ai consigli di fabbrica soprattutto da parte di Maurizio Garino e Pietro Mosso, assistente di filosofia teoretica alla locale università e autore, con lo pseudonimo di Carlo Petri, del saggio Il sistema Taylor ed i consigli dei produttori. Non a caso quindi il “gruppo libertario torinese” figurava tra i firmatari del manifesto per il congresso dei consigli di fabbrica, Agli
operai e ai contadini di tutta Italia, lanciato nel marzo 1920 dall’”Ordine Nuovo” per l’estensione dell’esperienza consiliare.
Il movimento delle occupazioni delle fabbriche che vede a Torino il suo punto di forza, ma è esteso a tante altre aree, sarà l’applicazione pratica di quelle elaborazioni, attraverso un modo di agire tipicamente anarchico. Non c’è spazio per descrivere quel periodo nel dettaglio, per cui rimandiamo a una bibliografia minima che sta a fondo del numero e ad alcuni documenti che pubblichiamo sul nostro sito: www.ucadi.org
Possiamo sintetizzare la peculiarità della loro azione con una frase di uno dei protagonisti di quel periodo, Maurizio Garino, intervistato da Marco Revelli, che gli chiede “com’è avvenuta la partecipazione dei Consigli di fabbrica all’elaborazione della piattaforma rivendicativa” che ha portato all’occupazione delle fabbriche di fronte alla serrata padronale.
“Attraverso le assemblee dei comunisti di reparto e la convocazione delle masse, completamente senza distinzioni: organizzati e non organizzati. Allora non era consentito fare le assemblee nelle fabbriche. Dopo, quando l’operaio si è fermato in fabbrica e l’ha occupata, da quel momento tutte le assemblee si sono poi tenute
nelle fabbriche, ma prima le facevamo alla Camera del Lavoro oppure nei rioni, dove si potevano fare queste riunioni”.
Un metodo libertario che ha prodotto uno dei punti più alti di sperimentazione della classe operaia italiana e forse internazionale; stroncata, come disse Luigi Fabbri “dalle male arti dei riformisti” , che dettero campo a quella che sempre Fabbri definì “la controrivoluzione preventiva”.