Tra conflitto e concertazione – Lotta operaia e sviluppo dell’accumulazione e del capitale

Nell’ ottobre 1984 l’Unione dei Comunisti Anarchici della Toscana (U.C.A.T). editava per i tipi di CP editrice di Firenze, Ai compagni su: I comunisti anarchici e l’organizzazione di massa, con l’intento di far conoscere la posizione dei comunisti anarchici sulla lotta di classe e sull’organizzazione di massa, in particolare sul sindacato e il bisogno di battersi sul proprio posto di lavoro unificando le lotte di tutti gli sfruttati. In quell’occasione scrivevamo:

“1.2. II sindacato come organizzazione di massa.
Il sindacato è nato storicamente nel luogo di lavoro, su precisi bisogni materiali delle masse lavoratrici che ne fanno parte, e sotto il diretto controllo di quest’ultime. Tuttavia nello scontro di classe il sindacato si è trasformato. Poiché la lotta di classe è al tempo stesso messa in crisi del profitto e del comando capitalistico ed anche elemento costante di cambiamento, di trasformazione e di sviluppo del capitale, in quanto lo costringe, per rispondere all’attacco, a ristrutturarsi in fabbrica e sul territorio, a mutare organizzazione del lavoro e processi produttivi, il sindacato, espressione organizzativa della lotta di classe, assume la doppia veste di difensore degli elementari bisogni del proletariato e quella di elemento di costante razionalizzazione del capitale.
Questa doppia funzione del sindacato si dispiega in un senso o nell’altro a seconda del prevalere di una fase offensiva della lotta di classe o di una fase difensiva. È bene precisare che stiamo parlando in linea del tutto teorica, del sindacato come pura espressione organizzativa della lotta di classe, funzionante sui principi della democrazia proletaria di base, e non dei sindacati attuali, quali si sono venuti configurando nei vari
paesi, con caratteristiche diverse, a seconda dello sviluppo del capitale e della lotta di classe, ed a seconda degli eventi storici.
Le caratteristiche che lo contraddistinguono sono quelle che andiamo a delineare. L’eterogeneità dovuta al fatto che esso ha lo scopo, prescindendo dall’ideologia degli associati, di unire non già gli iscritti di questo o quel partito, ma tutti i lavoratori sulla base della difesa del loro bisogni materiali. “L’organizzazione sindacale deve avere uno scopo ultimo ed uno immediato. Lo scopo ultimo deve essere l’espropriazione del capitale da parte del lavoratori associati, la restituzione cioè ai produttori, e per essi alle loro associazioni, di tutto ciò che il loro lavoro ha prodotto, di tutto ciò che ha prodotto il lavoro della classe operaia attraverso i secoli, di tutto ciò che senza l’opera del lavoratori non avrebbe alcun valore. Lo scopo immediato è sviluppare sempre più lo
spirito di solidarietà tra gli oppressi e di resistenza contro gli oppressori, tenere esercitato il proletariato con la ginnastica continua della lotta operaia nelle sue forme più diverse, conquistare oggi stesso tutto ciò che è possibile strappare, per quanto poco possa essere, al capitalismo in benessere e libertà.”[1]
Ciò premesso è chiaro che non si può parlare di dirigenti “buoni” e di dirigenti “cattivi”, ma di dirigenti quali espressioni coerenti della fase della lotta di classe. Se tale giudizio generale è inapplicabile alle attuali strutture sindacali per la totale assenza in esse delle più elementari norme di democrazia diretta, ed anche in base alla considerazione che tale tipo di strutture non è casuale, ma risponde a precise esigenze di controllo sulla classe, esso ci porta comunque a considerare in termini più materialistici la situazione attuale.

Romiti e noi

Oggi Cesare Romiti, fino al 1998 amministratore delegato della FIAT, commentando le scelte di Sergio Marchionne, lamenta la mancata innovazione della FIAT e individua tra le cause di questa situazione l’assenza della lotta di classe, sostenendo che la sfida dell’organizzazione operaia è salutare per l’imprenditore, poiché lo costringe a cercare l’innovazione per meglio contrastare gli effetti della concorrenza e della lotta operaia e
mantenere la competitività sui mercati. Le lotte operaie, creano nuovi bisogni che devono essere soddisfatti con maggior occupazione e con investimenti e concorrono a creare opportunità di profitto. In una parola la pace sociale uccide il mercato e l’accumulazione. Lo scontro di classe, il conflitto, sviluppano invece la dialettica tra le parti, inducono a produrre e introdurre innovazione e creatività nel lavoro. La lotta costante per il salario produce aumento del reddito e quindi della capacità di acquisto dell’operaio consumatore; richiede riforme sulla qualità della vita che, anch’esse, fanno da volano per l’innovazione e per la crescita economica. Proprio il calo della conflittualità negli anni ’90 ha contribuito a causare il progressivo declino della Fiat.
Eppure Romiti è un capitalista, un sostenitore dell’accumulazione mediante lo sfruttamento del lavoro, Si dirà che è vecchio e sente il richiamo di un capitalismo che non c’è più, che tutto oggi è cambiato e che non comprende le nuove esigenze dell’economia e, perché no, della politica. Sarà, ma Romiti è Presidente della Fondazione Italia-Cina e i suoi contatti con l’economia di quel paese sono frequenti e gli permettono di disporre di un punto di osservazione privilegiato su come vanno le cose dove le economie “tirano”.
Queste cose sembrano averle capite anche imprenditori come Della Valle e De Benedetti, non certo accusabili di essere su posizione di classe né di essere iscritti alla FIOM. Invece in questi anni la richiesta costante di tutte le forze politiche è stata la ricerca della “stabilità”, la fine del conflitto e della contrapposizione di classe, l’unità nazionale, come se i diversi segmenti di classe che compongono la popolazione avessero interessi comuni, come se le classi non ci fossero, con il risultato che i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e la cosiddetta classe media si è impoverita fino a scomparire, costantemente munta come una vacca, fino a tirarne fuori tutto. La classe operaia poi è stata totalmente cancellata, considerata ormai
inutile, inesistente in una economia che va verso la de industrializzazione, mentre il territorio viene desertificato e privato di ogni insediamento produttivo. Vi è stato chi ha teorizzato che una società può reggere senza deflagrare intorno al 20% di poveri strutturali e che il controllo sociale può funzionare e far convivere la povertà con l’opulenza, quella stessa opulenza che oggi, malgrado la “crisi” molti sfoggiano, tanto che l’industria del lusso è l’unica a non avere problemi, a produrre e ad avere un mercato in espansione.

Ridurre i costi sociali e recuperare profitto

Per la Banca Mondiale viviamo troppo a lungo e anche se andiamo in pensione a 65-67 anni non ci possiamo permettere di sostenere i costi dell’allungamento della vita e pertanto dobbiamo morire prima. Perciò i tagli al sistema sanitario e a quello pensionistico sono interventi obbligati di carattere strutturale, necessari a recuperare risorse e a rilanciare l’accumulazione mettendo in atto l’eutanasia a livello sociale. Occorre intervenire subito perché la popolazione invecchia rapidamente tanto che, ad esempio, il numero di ultra 65 in Cina nei prossimi anni sarà di circa 800 milioni, creando problemi enormi al sistema economico anche di quel paese. Questo fatto non viene visto come fattore di riequilibrio tra i costi sociali nelle diverse aree ma come un
invito a intervenire sulla durata della vita.
Un altro settore al quale attingere è quello dell’istruzione che, in quanto a investimenti, è paragonabile a quello automobilistico prima della crisi: “Il settore dell’automobile genera ogni anni, nei 29 paesi dell’OCDE, un giro d’affari di 1286 miliardi di dollari e impiega circa 5 milioni di lavoratori. Nella stessa OCDE, i paesi membri spendono ogni anno 1000 miliardi di dollari per i sistemi dell’educazione che impiegano circa 10 milioni di insegnanti. Se eliminate la metà dei 4 milioni di insegnanti dei 15 paesi dell’Unione Europea, le cui spese per il salario vanno oltre l’80% delle spese complessive per l’istruzione, questo libererà milioni di dollari per una guerra competitiva”. [Si veda: Education: a new area for colonisation?, in documenti di “Education International”, tavola rotonda sull’educazione, Helsinky, ottobre 2000]. Questa strategia è stata perseguita con pervicacia e coerenza dalle associazioni internazionali che fanno lobby verso i vari Stati per promuovere la privatizzazione dell’istruzione e lo smantellamento della scuola pubblica. Eppure portando l’attenzione al nostro paese la scuola italiana era cresciuta negli anni, raggiungendo risultati notevoli soprattutto nel settore dell’infanzia e riuscendo a contribuire in modo rilevante al mantenimento della coesione sociale. Ciò era avvenuto perché, sotto la spinta di un movimento operaio forte, erano cresciuti gli investimenti pubblici nel settore, si era data la necessaria priorità ai bisogni dei giovani, si investiva sul futuro, si sviluppavano i servizi sociali come quello della scuola per l’infanzia, liberando almeno parzialmente la donna dall’accudimento
domestico.
Oggi una classe politica preoccupata di perseguire il proprio personale profitto si nasconde dietro uomini di destra e tecnici che hanno abbracciato il liberismo più sciocco, e conducono una lotta di classe contro i lavoratori per azzerare i loro diritti, spacciano per violenza ogni tentativo di esprimere una opinione dissenziente, al punto che la confutazione delle idee degli altri è divenuta in quanto tale esacrabile, indice di
violenza, inizio di terrorismo. Le contestazioni verbali sono condannate e le manifestazioni di massa infiltrate ogni volta che si cerca di riportare il conflitto al centro del confronto politico e ognuno è indotto a ripiegare sulla ricerca di una via di fuga individuale alla crisi che, naturalmente, è impossibile da trovare.

La necessità del conflitto di classe

Bisogna che il conflitto di classe rinasca, ma ciò non può essere la conseguenza di una scelta ideologica; occorre che si ricreino le condizioni materiali perché i lavoratori possano riprendere l’iniziativa e questo non può avvenire quando si è imboccata la strada dei licenziamenti, della de-industrializzazione, soprattutto non può verificarsi se si pensa di sostituire al conflitto la concertazione. La vicenda FIAT è emblematica in questo senso perché mostra i limiti e la perversione della concertazione, strumento tipico del sindacalismo cattolico il quale sostiene l’esistenza di unità di interessi fra padrone e lavoratore e perciò persegue l’accordo a tutti i costi, magari invocando la mediazione del governo. Ciò che è avvenuto era nella natura stessa, nella natura genetica dei sindacati che si sono lasciati abbindolare da Marchionne con il progetto “Fabbrica Italia” e dimostra che chinando il capo davanti al padrone si ottengono solo altre frustate, perché non si può fare – mai – lo scambio tra diritti e dignità da una parte e lavoro dall’altra, perché il conflitto di classe è ineliminabile e non esiste una
identità di interessi tra lavoratori e padroni, mai!
E’ perciò che il conflitto di classe deve ricorrere alla contrattazione nella quale le parti hanno interessi contrapposti che vengono regolati da un compromesso; la sola garanzia del rispetto degli accordi non è la mediazione del governo, ma la mobilitazione costante dei lavoratori: insomma quella conflittualità continua e giornaliera sul posto di lavoro, tanto temuta e avversata dal padrone. Perciò prima che il movimento di classe
possa ripartire, la precondizione è costituita dal fare pulizia nel campo proprio. Dunque no all’unità sindacale, via soprattutto la CISL da ogni trattativa, contrattazione, confronto con il padronato e si invece all’unità dei lavoratori e alle Tra delegazioni di assemblea nelle trattative. Questo obiettivo è prioritario e va perseguito attraverso la discussione e il confronto tra i lavoratori con l’obiettivo di conseguire la progressiva emarginazione degli oppositori del conflitto, ricordandosi alla fine che un po’ di sana violenza, fatta di calci nel culo a quelli che si presentano ancora con la bandiera a strisce verdi e bianche a rivendicare il diritto di rappresentanza, non guasta, anzi è salutare. Occorre una iniziativa politica innanzi tutto verso quelle componenti del movimento operaio che si fanno rappresentare dai sindacati filo-padronali e concertativi come la CISL.
Se questo è il primo passo occorre avere la capacità di capire la dimensione territoriale della crisi di capacità produttiva e dunque essere in grado di costruire le vertenze non solo come lotte di una singola azienda, ma come bisogno di un intero territorio che si pone contemporaneamente il problema dell’occupazione, della compatibilità ambientale degli impianti, del supporto della formazione attraverso la scuola pubblica, del sostegno delle istituzioni di governo del territorio, che vanno costantemente monitorate e controllate, a prescindere dal momento elettorale, nelle loro politiche e nelle loro attività. Non dobbiamo dimenticare che ognuno di noi, per il solo fatto di vivere in un luogo, possiede i beni comuni costituiti dall’acqua, dall’ambiente, dalle risorse, ma anche dalla storia del territorio e delle sue istituzioni culturali che vanno gestite direttamente e
a vantaggio della comunità, perché queste rappresentano il capitale comune, costituiscono le materie prime che possono permettere a una comunità di vivere e operare, oggi e in futuro. Perciò attenzione alla gestione e funzionamento dei servizi pubblici esercitando su queste tematiche la conflittualità a livello territoriale costruendo vertenze sulla gestione dei beni comuni e dei servizi
Non sarà facile né si possono ricostruire in poco tempo le basi della solidarietà di classe, non sarà agevole rimuovere quel ciarpame di buonismo, di interclassismo, oggi dominante, ma la riconquista della capacità d’indignarsi e di reagire, di saper dire di no e di riuscire a fare fronte comune alla violenza delle istituzioni e della politica organizzata di partiti e gruppi, costituisce un’altra delle precondizioni necessarie per far ripartire la contrapposizione di classe e squarciare il velo di un falso interesse comune che ci viene oggi presentato come l’obiettivo da perseguire.
Bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare con coloro che ci stanno a fianco per analizzare la nostra condizione, ricucire le divisioni tra popolazioni originarie di un territorio e migranti, essere solidali e cercare insieme le soluzioni ai problemi comuni, partendo dal fatto che non possiamo accettare l’eutanasia sociale ormai in atto in questa società ipocrita che ti impedisce l’autodeterminazione in fine vita, ti impone
l’accanimento terapeutico, tutela l’embrione e poi ti toglie le risorse per acquistare i farmaci e per curarti, sostenendo che la vita media dura troppo e che perciò il sistema economico non può permettersi una durata della vita così lunga per cui bisogna morire prima.
Siamo di fronte a una strategia d’attacco del capitale che ha come obiettivo l’azzeramento di tutte le conquiste conseguite nel precedente ciclo di lotte colpendo prime tra tutte la scuola e l’istruzione: “Dopo queste descrizioni di misure rischiose, si possono consigliare, al contrario, numerose misure che non creano alcuna difficoltà politica (…). Si possono ridurre per esempio i finanziamenti di scuola e università,
ma sarebbe pericoloso ridurre il numero di immatricolazioni. Le famiglie reagirebbero violentemente se non si permette ai loro figli di immatricolarsi, ma non faranno fronte ad un abbassamento graduale della qualità dell’insegnamento e la scuola può progressivamente e puntualmente ottenere un contributo economico dalle famiglie o eliminare alcune attività. Questo si fa prima in una scuola e poi in un’altra, ma non in quella accanto, in modo da evitare il malcontento generalizzato della popolazione” [Fonte: Centro de dessarrollo de la OCSE, Quaderno di politica economica n 13, OCSE, 1996, art. di Morrison Christian, “La faisabilitè politique de l’ajustement”].
Come possiamo vedere i padroni hanno una strategia chiara e si sentono così forti da parlare apertamente dei loro obiettivi
E noi come rispondiamo?

[1] L. FABBRI, L’organizzazione operaia e l’anarchia, CP, Firenze 1975, p. 7.

Gianni Cimbalo