Un comitato d’affari

I sostenitori dei sistemi a democrazia liberale sottolineano che questi sono il miglior esempio di una compiuta partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica e ne magnificano il rapporto tra rappresentanti e rappresentati. In questo schema il Governo sarebbe frutto della maggioranza uscita dalle urne elettorali e l’espressione più diretta della democrazia rappresentativa.
Ebbene il Governo Monti, per le modalità con le quali è stato costituito, per i soggetti che ne fanno parte, per il compito che le è stato attribuito e si è impegnato a svolgere
sta invece a dimostrare che in un paese a democrazia liberale il Governo è il comitato d’affari della classe al potere, in Italia il rappresentante di quel 45% del paese che possiede il 10 % della ricchezza nazionale. La degenerazione cancerogena e lo stato putrescente del berlusconismo hanno fatto cadere gli ultimi veli e eliminato quella gestione duale del paese che si caratterizzava per ripartire il potere tra il Presidente del
Consiglio uscente e il Presidente della Repubblica, il quale ha definitivamente affermato la sua supremazia e imposto senza infingimenti le sue scelte.
Si dirà che è colpa e merito dei mercati se il passato Governo ha dovuto lasciare il posto a un nuovo esecutivo di nomina presidenziale, di fatto imposto al paese dalla congiuntura economica e da una situazione finanziaria in caduta libera. Certamente essersi liberati della presenza diretta al potere di Berlusconi e della sua corte dei miracoli non è poca cosa, ma tutto è avvenuto nel modo peggiore possibile e senza alcuna reale garanzia di cambiamento di quelle politiche economiche e sociali che hanno impoverito e gettato in una profonda crisi sia la classe media che quella lavoratrice (ricomprendendo tra questi disoccupati e non occupati).
Il lavoro sporco svolto dal Governo dimissionario di disarticolazione dei rapporti sociali e di impoverimento dei lavoratori continuerà ad opera di quello attuale, raccomandato e sorretto dal consenso dei partiti della sinistra parlamentare, in un clima di emergenza nazionale e di mobilitazione di industriali e finanzieri, contrastato solo da poche forze critiche come la CGIL che si spera continui a sostenere questa posizione e la Lega (per motivi elettorali). La deindustrializzazione selvaggia del paese e la finanziarizzazione
dell’economia proseguirà e nessun provvedimento significativo permetterà il rilancio dell’occupazione.
L’erosione ulteriore del risparmio delle famiglie attraverso l’intervento sul sistema pensionistico renderà più precaria e difficile la vita di larga parte della popolazione.

Il Governo del Bilderberg e il ritorno della “balena bianca”

L’attuale governo di tecnocrati, più che avere in comune l’aver lavorato in passato per la Goldman Sachs, può vantare la comune appartenenza al Bilderberg e a vari comitati e luoghi di ritrovo del capitalismo internazionale dove ha goduto e gode della contemporanea presenza di quelli che dovrebbero essere all’opposizione e contrastarli. Le comuni frequentazioni di Veltroni e Bonanni con l’attuale premier negli incontri riservati del prestigioso gruppo di faccendieri costituisce la vera forza della nuova compagine governativa italiana la quale, proprio attraverso questi rapporti può recuperare, come sta già facendo, un posto al tavolo dell’Europa franco-tedesca. Il ruolo ricoperto da Monti in questi ambienti sembra essere di grado ben più alto della Merkel e Sarkozy e questo dovrebbe dare qualche possibilità in più.
Ma la situazione politica italiana ha, come al solito, una sua specificità, costituita dalla ricostruzione a margine della crisi del caravanserraglio democristiano. La fase finale della crisi del Governo Berlusconi è iniziata a Todi il 18 ottobre, quando i democristiani di tutti i partiti, reduci della diaspora, si sono ritrovati sotto la guida del cardinal Bagnasco e hanno deciso di colpire. Stanchi di presentare continuamente il conto a un
barzellettiere libertino hanno optato per l’assunzione diretta della gestione del potere e per una spoliazione senza veli delle risorse del paese.
Per farlo hanno dovuto gettare via la maschera della gestione democratica del potere e del parlamentarismo e allearsi con un Presidente della Repubblica che persegue da sempre il progetto di una ascesa al potere e che finalmente realizza il progetto di affidare il Governo a alcuni circoli del suo vecchio partito fatti di soggetti con profondi legami con il mondo finanziario e imprenditoriale, collusi con gruppi di potere solidificatisi nella Prima come nella Seconda Repubblica che oggi realizzano finalmente il sogno di esercitare un’egemonia che si è svuotata comunque di ogni contenuto ideale, ideologico e programmatico. L’assunzione dell’interesse nazionale a scudo per nascondere il perseguimento di questo obiettivo non regge ad una analisi minima dei fatti e la scelta di appoggiare questo Governo distrugge la ragione sociale che aveva portato alla costituzione del PD come evoluzione ultima dei DS e, alla lontana, di PC e DC passando per la Margherita.
Con la tendenza alla ricomposizione dell’asse cattolico e con l’inizio della fine della diaspora democristiana si pongono le condizioni per il tramonto di quel malsano progetto che portò all’incontro tra la tradizione cattolica democratica (o cosiddetta tale) e l’esperienza del Partito Comunista Italiano.

La fine del Partito non-Comunista Italiano

Se nel panorama politico internazionale c’è stato un partito non comunista che tuttavia dichiarava di esserlo questo è stato quello italiano. Dopo aver espulso la componente bordighista, criticabile ma certamente comunista, e aver fatto proprie le impostazioni gramsciane, fortemente condizionate dal liberalismo gobettiano, il Partito Comunista Italiano (non senza aver abbandonato Gramsci per poi santificarlo) ha rappresentato sotto la guida di Togliatti quella formazione politica che ha eliminato la sinistra di classe italiana dalla partecipazione alla vita politica. Il Partito Comunista Italiano nacque infatti dalla distruzione e dall’assorbimento delle formazioni genuinamente comuniste nate durante la Resistenza e dalla soppressione, anche fisica, della componente anarchica del movimento operaio italiano. Si distinse fin dalla Costituente per il voto a favore
dell’art. 7 della Costituzione, a sostegno del permanere del potere ecclesiastico in Italia, per l’amnistia agli ex fascisti, per una politica di compatibilità “democratica” con i governi a maggioranza democristiana.
La crisi cilena diede l’avvio all’interno del PCI al dibattito che avrebbe portato alla politica del compromesso storico, non realizzata per quanto riguarda l’ascesa al Governo, ma perseguita per altre vie dopo il crollo dei partiti della Prima Repubblica successiva alla crisi del 1992-1994. L’incontro in un unico partito dell’eredità storica e ideale dei due grandi partiti di massa – PCI e DC – ha costituito il tormentone che ha
accompagnato 20 anni di sterile opposizione al regime berlusconiano oggi sembra essersi conclusa. Assistiamo non solo al ritorno dei democristiani al Governo grazie ad un monocolore fatto da “tecnici” cattolici, ma, per dirla con Casini, al voto a favore di questo Governo per il quale i democristiani di tutti i partiti (e in tutti i partiti) possono palesemente votare allo stesso modo un si convinto e visibile. E’ del tutto evidente che nel confronto tra eredità democristiana e eredità “comunista” vince la prima e la seconda scompare.
Da questa operazione può forse nascere una nuova stagione nella quale iniziare quel lavoro di ripulitura culturale e politica che è necessariamente propedeutico a restituire la voce e la piena consapevolezza di sé alle classi subalterne di questo paese e permettere loro la riconquista e la ricostruzione delle proprie organizzazioni, libere dall’infezione del bolscevismo, dei suoi epigoni, delle sue degenerazioni.

Il ruolo dei comunisti anarchici oggi

Proprio ora che la storia sta picconando le organizzazioni degenerate del movimento operaio che per decenni hanno alimentato strategie fallimentari e perdenti, prodotto sconfitte e lutti, sofferenze e dolore, è giunto il momento di riscoprire e rilanciare il ruolo del comunismo anarchico, delle sue strategie e del suo metodo di lavoro di massa.
Il comunismo anarchico propone e pratica l’autorganizzazione e gestione delle lotte, considera indispensabile la partecipazione di tutti e l’azione diretta, pratica il rifiuto della delega e l’esercizio vigilato di essa, reso possibile oggi ancor più che in passato attraverso gli strumenti di comunicazione e di coordinamento di massa (la rete). Lavorando con questi metodi i comunisti anarchici possono aiutare e sostenere quanti
propongono e praticano la gestione delle lotte sul territorio, la riappropriazione di spazi e iniziative politiche, la richiesta di interventi a favore di una economia compatibile con l’ambiente e le risorse del pianeta, la tutela e gestione collettiva di un nocciolo di beni comuni dai quali ripartire per costruire un nuovo tessuto economico e sociale.
Dobbiamo sfruttare le tendenze esistenti a livello istituzionale al potenziamento delle autonomie e dei poteri locali e all’importanza della gestione del territorio che anche il capitalismo riconosce. Ma questa tendenza va reinterpretata alla luce dei nostri principi teorici, proponendo comitati e strutture di gestione a livello territoriali di beni e servizi, riscoprendo il valore pubblico dell’istruzione, sostenendo la scuola pubblica
a carico della fiscalità generale e difendendola da quella privata – alla quale vanno sottratti i finanziamenti pubblici -, promuovendo la gestione del rapporto con le comunità attraverso la promozione di servizi comuni di ristorazione e di sostegno all’acquisto, costruendo luoghi di incontro e centri sociali caratterizzati dall’interculturalità e dalla composizione multietnica, ricostruendo la memoria storica del territorio, del ruolo e
della funzione dei luoghi.
Bisogna attrezzarsi per difendere l’occupazione e il lavoro del quale va sottolineato anche il valore sociale e la funzione di emancipazione dal bisogno e dalla subordinazione. Dobbiamo insomma contrapporre la gestione del territorio e il suo controllo ad opera di chi vi abita, indipendentemente dal possesso della cittadinanza, agli interventi e alle decisioni dei poteri forti, a una gestione dirigistica e tecnocratica dei processi decisionali e partecipativi. In questa prospettiva non dobbiamo attendere le elezioni locali entrando nelle istituzioni ma spiegare che non è da queste e dalle lotte di campanile che vengono le soluzioni ai problemi, ma che esse dipendono dalla realizzazione di strutture di partecipazione e rappresentanza sul territorio che agiscono
nei campi più diversi, fortificando un tessuto sociale di gestione e partecipazione diretta di chi abita il territorio.
Si tratta certamente di una scelta gradualista che non può essere disgiunta dalla partecipazione attiva alle grandi lotte in difesa dell’occupazione e del salario, ma che anzi costituisce la base di aggregazione sulla quale le risorse umane necessarie a queste battaglie crescono e si moltiplicano. Dobbiamo creare le condizioni per passare da una fase difensiva ad una espansiva dell’iniziativa politica di classe.
Senza la riaggregazione di una classe capace di costruire un’alternativa che permetta di far crescere una reale opposizione di massa, anche gli slogan più rivoluzionari rischiano di lasciare il tempo che trovano.
Tutto questo può avvenire riappropriandoci di una visione e di una pratica più  solidaristica della vita, di una ricostruzione, di un’analisi delle strutture del capitalismo più materialistica, che permetta di individuare i punti deboli e di attacco della struttura dello sfruttamento. La classe ha subito negli ultimi vent’anni un attacco senza
quartiere, non solo nei suoi livelli minimi di sussistenza, ma soprattutto a causa delle infiltrazioni di ideologie liberiste e antiorganizzative, di tendenze all’individualismo e alla competitività che l’hanno messa in ginocchio facendo venir meno la sua capacità di reazione e attacco alla struttura capitalistica dello sfruttamento.
Se un risultato la crisi ha realizzato, è quello di permettere di vedere chiaro che l’1% mondiale della popolazione detiene il 99% delle ricchezze e che questo rapporto dovrebbe perdurare così all’infinito con la scusa del debito pubblico, della crisi delle banche, e della finanza globale. Paghino loro la crisi, ma soprattutto alziamo la testa, riorganizziamoci, non dobbiamo più avere paura di quell’utopia che ci permetterà di
camminare sempre più avanti verso il cambiamento: il comunismo, e perché no, anarchico.

La Redazione