Roma città aperta

La crisi economica morde durissima il paese ma il governo sembra non accorgersene. Deve continuare a fare il suo lavoro sporco di disarticolazione delle forze sociali, delle organizzazioni di difesa dei lavoratori, deve distruggere quello che resta degli strumenti di difesa della classe operaia e degli uomini e delle donne, privandoli delle libertà civili,
della capacità stessa di esprimersi e comunicare agli altri ciò che sta accadendo.
Malgrado gli attacchi ripetuti, i licenziamenti, la precarizzazione oltre ogni limite del rapporto di lavoro, l’abbassamento dei salari, la diffusione della politica di sussistenza, lo smantellamento dei servizi pubblici a cominciare dalla scuola e dalla sanità, con un sistema fiscale che spreme i soliti noti e lascia indenni l’economia sommersa e quella mafiosa, il paese sembrava non reagire.
Per qualcuno un primo segnale è venuto dall’esito delle elezioni amministrative soprattutto a Milano e Napoli; per altri questo segnale si è rafforzato con il risultato del referendum ma sembrava trattarsi di risposte sul piano esclusivamente istituzionale. Invece la protesta e la risposta sociale covava nel profondo della società italiana.

La crisi e il ruolo della sinistra

Benché, con soddisfazione di molti, i sondaggi dessero in crescita il fronte complessivo della sinistra istituzionale – a condizione che esso si presenti unito e senza pastrocchi con il centro alle prossime scadenze elettorali – quella parte della società che è schiacciata dal governo, dalle istituzioni, dal capitale finanziario e dai padroni non si fida delle cosiddette forze di sinistra.
Come dimenticare che esse sono artefici e complici, al pari della destra, dell’attacco alle libertà, al reddito di tutti e e al patto costituzionale, hanno permesso a lungo l’attacco al reddito da lavoro attraverso la precarizzazione dei rapporti di lavoro, lo smantellamento delle imprese industriali e delle organizzazioni storiche dei lavoratori. La battaglia contro un popolo sempre più proletarizzato avviene con metodi diversi che vanno dall’acquisto di alcune organizzazioni sindacali, definitivamente comprate dal padronato, all’emarginazione dei sindacati su posizioni di classe, come sta avvenendo all’interno della CGIL con la FIOM.
E quando questo non basta si introducono norme come quella dell’art. 8 del provvedimento del governo sulla crisi per distruggere il contratto collettivo di lavoro.
Qualcuno – ma non molti – obietterà che questa è la politica della destra. E allora noi chiediamo: chi ha inventato il “pacchetto Treu”, chi ha inventato la legge del sedicente socialista Biagi, trasformato dalla stupidità terroristica in icona intoccabile? Chi ha introdotto la sussidiarietà nell’ordinamento costituzionale e giuridico italiano se non la sinistra contribuendo a smantellare il servizio pubblico? E ancora chi da ultimo ha puntato alla privatizzazione della gestione dei beni pubblici e delle aziende comunali e pubbliche di sfruttamento dell’acqua, salvo poi sostenere il referendum abrogativo per motivi elettoralistici e congiura ora con le forze di governo per aggirarne e annullarne il risultato?
Lo sappiamo tutti benissimo e il tempo dell’inganno sta per finire. Il trucco dell’alternanza, del bipolarismo perché tutto sembri cambiare alle elezioni – e invece tutto resta uguale – non attira più nessuno.
Abbiamo tutte le ragioni per pensare che il giocattolo si sia rotto nelle mani di una classe politica che si è fatta classe, o forse sarebbe meglio dire ceto, e che pretende di continuare ad avere in mano le spoglie del paese con una operazione di trasformismo camaleontico. Mentre ci dicono che dobbiamo meravigliarci del trasformismo di molti eletti che si fanno comprare per passare a sostenere il governo, la gran parte degli abitanti di questo paese ha capito che è solo una questione di prezzo e che non a caso molti eletti dei partiti di opposizione si sono venduti in nome del proprio personale interesse.
Si dirà che almeno una parte è sana mentre noi diciamo che è solo una questione di modi: chi ha dimenticato il discorso alla Camera di Luciano Violante, riprodotto nel film della Guzzanti, nel quale il noto parlamentare sinistro si lamenta con il Premier enumerando le concessioni fattegli e protestando per il mancato compenso? In fondo si tratta solo della differenza fra vendita/acquisto individuale e quello dei gruppi (vedi
quello radicale, ad esempio) tra lo sconcerto della base dei partiti ma ancor più degli elettori.

L’organizzazione sociale della resistenza

In un paese prostrato e stordito dall’attacco del padronato e dalla speculazione internazionale, lentamente e con i suoi tempi, la risposta degli sfruttati cresce e si organizza, seguendo percorsi delicati e difficili perché si tratta di creare una rete, un tessuto di rapporti partecipati che deve essere solido e in grado di resistere all’attacco del governo, dei padroni, del capitale finanziario. Perciò le reti di discussione e di collaborazione, i gruppi di resistenza, le aggregazioni specifiche degli studenti, dei precari, dei cassa integrati, degli sfrattati, aggregatisi per interessi omogenei ma al tempo stesso convergenti; un’organizzazione nata sui bisogni materiali che aveva individuato nella scadenza della manifestazione di Roma del 15 ottobre uno dei momenti di ricomposizione ad unità del movimento di lotta, un’occasione per comunicare il raggiungimento di una consapevolezza e di una forza che desse fiducia a tutti coloro che sono licenziati, bersagliati da Equitalia, travolti dai contratti di COCOCO, COCOPRO, a progetto, dalle false cooperative, dalle agenzie interinali, dal lavoro nero, ecc.
Erano fiduciosi e gioiosi coloro che si recavano a Roma la mattina del 15 ottobre, avevano una speranza costruita sulla partecipazione, sul primato del confronto, sulle decisioni di assemblea, sui portavoce e non sui capi. Si erano dotati di una organizzazione orizzontale e diffusa che aveva chiuso il rapporto con i sindacati
collaborazionisti di CISL e UIL e messo ai margini la componente istituzionale della CGIL. Avevano detto chiaro ai politici di non esserci, di restare ai margini a guardare, perché sentivano quella mobilitazione come un fatto proprio, come una conquista che apparteneva interamente solo a loro. Ed erano tanti, 100.000, 200.000, forse più, chissà!
Ed erano arrabbiati e insieme disperati, offesi dall’indifferenza delle istituzioni, pieni di rancore, di bisogno di farsi sentire, della necessità di esserci per costruire un movimento capace di mantenere il rapporto e i collegamenti tra l’avanguardia e le retrovie, per andare avanti tutti insieme, perché la forza sta nell’unità.

Il governo e i suoi epigoni

Per il potere era questo progetto a costituire il pericolo più grande ed era questo che bisognava impedire.
Nel contempo, per chi crede nell’opposizione di essere depositario e interprete dei bisogni di classe questa massa di donne e di uomini andava radicalizzata e guidata verso obiettivi individuati dai soggetti pensanti del movimento, dai più radicali e quindi consapevoli.
E’ nata così un’alleanza di fatto tra il potere che aveva e ha il bisogno di difendersi e di conservare se stesso e coloro che rivendicavano e rivendicano la titolarità della vera opposizione e della vera alternativa, auto eleggendosi a guida del movimento. Per ambedue questi schieramenti era essenziale dividere la testa dal corpo, deprivare il corteo di protesta dei suoi scopi, abrogare la rappresentazione di sé che il movimento nato in mille e mille occasioni di lotta voleva dare per rappresentare la propria forza e il bisogno di auto rappresentanza.
Per raggiungere i loro scopi questi due soggetti puntavano e punteranno – perché non è finita – a sfruttare la rabbia giusta che c’è negli sfruttati, in coloro che soffrono, in coloro che sono chiamati a pagare questa come tutte le crisi.
E perciò il governo disponeva i reparti di polizia in tre cordoni a difesa dei simboli del potere: Camera e Senato, sedi istituzionali principali, abitazione del Presidente del Consiglio, Quirinale e lasciava campo libero agli altri, ben sapendo che vi era da tempo chi si preparava e non lo nascondeva, tanto che c’è stato un momento del corteo nel quale larga parte di coloro che si disponevano a violentarlo marciavano uniti, in
formazione quasi militare, rivendicando orgogliosi la loro esibizione di forza, mentre il corteo davanti e dietro a loro avanzava o si ritraeva in modo da lasciarli isolati a volerne prendere le distanze.
Strano corteo, quello di Roma del 15 ottobre 2011. Cosciente e responsabile, coinvolto e violentato da chi vorrebbe prendere le redini del movimento di opposizione, come dalle forze dell’ordine assenti, coinvolto in una rabbia giusta, e costretto ai distinguo, a prendere le distanza dai violenti, costretto suo malgrado nella trappola di dover fare atto della condanna della violenza, per dimostrare il proprio accreditamento sociale e costretto a dover discutere di violenza e non dei propri contenuti di lotta, dei suoi metodi di mobilitazione e di coinvolgimento di tutti, del suo livello orizzontale e assembleare di organizzazione, della fondatezza e della percorribilità e attuabilità delle proprie proposte.

Reazione e repressione

Si è detto che a organizzare e praticare la violenza fossero gli anarchici aggettivati quali insurrezionalisti.
Quel che è certo però è che questi saranno pure insurrezionalisti ma non certo anarchici perché piuttosto essi si comportano da leninisti. Noi non distribuiamo a nessuno patenti di anarchismo ma sappiamo bene quale sia la funzione dei militanti anarchici e in particolare comunisti anarchici in un movimento di massa.
Mai, mai essi si sostituirebbero alle strutture assembleari e di autogoverno di un movimento di massa, soprattutto quando questo – ed è il caso della maggior parte dei partecipanti alla manifestazione del 15 ottobre – adotta metodi libertari, tanto da essersi riunito nella serata e nella nottata del 15 in molte parti di Roma per discutere di quanto avvenuto e per progettare le azioni future, decise insieme, assemblearmente.
Mai, mai l’avanguardia si sostituisce o si impone alle masse né violenta la coscienza di classe, né calpesta i livelli di crescita politica. Se fa questa scelta assume come propria la teoria leninista del partito, si insedia come dirigenza del movimento di massa, depositaria degli obiettivi e della strategia per raggiungerli.
Queste logiche non ci appartengono e perciò non solo le lasciamo alla condanna della storia ma le combattiamo e le combatteremo sempre e dovunque con tutte le nostre forze. Non si tratta di una condanna della violenza ma del metodo utilizzato attraverso il quale è stata violentata la volontà dei manifestanti.
Approfittando di quanto avvenuto il governo vieta ogni manifestazione e riduce i livelli di libertà in modo insopportabile, scagliandosi furbescamente verso gli avversari più pericolosi, i lavoratori della Fiat e dell’Ansaldo in manifestazione a Roma i quali si vedono vietato il corteo e rispondono con un comizio a Piazza del Popolo e un breve corteo dimostrativo per riaffermare il diritto a manifestare. Tuttavia le minacce hanno
avuto effetto e del coro che invocava la repressione si è messo alla testa il sempre poliziotto Di Pietro costretto poi a fare una parziale marcia in dietro di fronte alle resistenze degli altri partiti della sinistra. Resistenze in molti casi di facciata se si guarda alla campagna mediatica sta preparando la repressione delle manifestazioni dei NO TAV.
In questa situazione non ci rimane che riprenderci la piazza con iniziative di mobilitazione e di lotta che raccolgano il più ampio consenso e scaturiscano da quelle strutture dialoganti di movimento, da quei luoghi di aggregazione della resistenza sociale che hanno dimostrato di saper aggregare anche grazie ai metodi libertari
che utilizzano.

La Redazione