Chi paga e chi sfrutta

L’esigenza di fronteggiare la oramai familiare crisi economica, la deriva neoliberista di garantire alle banche che gli interessi sul debito saranno pagati, e il disperato tentativo di scongiurare che ad Atene non si inizi a dire “speriamo di non fare la fine dell’Italia” ha convinto governo e opposizioni a varare una manovra finanziaria lacrime e sangue. L’imperativo è quello di far cassa; l’obiettivo di recuperare i fondi necessari ha portato a conseguenze neanche immaginabili prima di oggi. E’ infatti da annoverare tra gli avvenimenti straordinari, al limite del miracoloso, quello di arrivare a metter le mani nelle tasche dei rappresentanti di quello che è forse uno dei pilastri della civiltà italiana postmoderna: i calciatori. Questo affronto tremendo che ha provocato l’indignazione dei nostri atleti miliardari, ha fatto giustamente passare in secondo piano gli altri sotterfugi incostituzionali che si erano riservati per i lavoratori, come ad esempio il tentativo di sottrarre sia la possibilità di riscattare, ai fini pensionistici, gli anni di università e di militare, sia di rendere inutilizzabili quelli già riscattati: proposta quest’ultima che non solo si prefissava l’uccisione della logica aristotelica, ma era caratterizzata da una retroattività ingiustificabile a prescindere dallo strumento ermeneutico utilizzato,
ontologicamente incostituzionale, al punto che l’orrenda creatura è stata vittima di un’interruzione di gravidanza legislativa con una pillola del buon senso del giorno dopo.
Di fronte a quest’imposizione di ulteriori sacrifici l’opinione pubblica, già provata da anni di crisi negata, ha aperto un dibattito pubblico che ha visto protagonisti, oltre che una parte della stampa non solo di “sinistra”, anche alcune frange della politica sicuramente non di sinistra. Anche Dio ha preso parte al dibattito accesosi, ma non potendo avere un profilo facebook, ha ispirato il presidente della CEI Bagnasco, il quale è intervenuto
criticando la mancanza di considerazione che il governo ha mostrato per i bisogni delle famiglie, indicando quale possibile alternativa per il risanamento dei conti la lotta all’evasione fiscale, esortando a elevare “un richiamo etico e spirituale facendo appello alla coscienza di tutti perché anche il dovere di pagare le tasse possa essere assolto da tutti per la propria giusta parte”.
Come si può non esser d’accordo con il Cardinale?
Tutti debbono fare la loro parte, come dispone l’art. 53 della nostra stuprata e mastectomizzata Costituzione, precisamente per quel principio che va sotto il nome di capacità contributiva. Ci apprestiamo quindi a raccogliere l’invito del porporato, ed anzi è nostra volontà fornire qualche dato che possa essere da stimolo affinché il desiderio forte espresso dal presidente della CEI, cioè quello che il dovere di pagar le tasse,
possa essere assolto da tutti, sia realizzabile anche per l’istituzione che rappresenta, la sacra romana apostolica e quasi esentasse chiesa cattolica.
Sono in tanti a chiedere che anche la Chiesa faccia la sua parte, secondo la propria non trascurabile capacità contributiva; purtroppo a impedire che ciò avvenga vi sono non solo i privilegi scaturenti dal Concordato, ma leggi dello Stato, leggi regionali, delibere comunali e machiavellici sotterfugi scaltramente messi in atto dalle curie.
L’edilizia di culto è un esempio paradigmatico di come scelte politico-legislative siano frutto non di una ragionata e oculata valutazione avente come fine la soddisfazione di bisogni reali di un paese, bensì l’ennesimo atto di prostrazione compiuto da un genuflesso legislatore (nazionale, regionale e locale) che utilizza gli strumenti normativi a mò di cilicio per compiacere ed espiare, e soprattutto ingraziarsi, il potentato economico vaticano.
Con una legge del ’92 il legislatore nazionale ha esentato dal pagamento dell’ICI gli immobili di proprietà della chiesa cattolica, l’esenzione era da intendersi tout court, infatti nel testo normativo non si faceva distinzione tra immobili destinati per attività di culto ed immobili nei quali si svolgeva anche attività commerciale.
La Cassazione nel 2004 con la sentenza n° 4645 deduceva, in nome del popolo italiano che “il beneficio dell’esenzione ICI non spetta in relazione agli immobili, appartenenti ad un ente ecclesiastico, che siano destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali”. La reazione della Chiesa non si è fatta attendere, l’indignazione per una così laicista sentenza ha fatto si che anche il Cardinal Ruini, famoso per le sue
posizioni così moderate ed aperte e mai pro domo Dio, perdesse le staffe.
A far sì che l’alto prelato e le gerarchie vaticane tutte non rischiassero un colpo apoplettico generale, ci ha pensato il governo Berlusconi nel 2005, che ha ripristinato l’esenzione ICI a prescindere dalla natura commerciale dell’attività svolta nell’immobile. L’anno seguente, sull’onda degli interventi della commissione europea il governo, questa volta di centro-sinistra, rimette mano alla questione giocando sull’ambiguità,
inventando qualificazioni giuridiche inesistenti: vengono infatti esentati dall’ICI solo gli immobili che abbiano uso non esclusivamente commerciale (??).
Per capirci qualcosa vediamo quanto afferma l’Art. 2195 relativo agli “Imprenditori soggetti a registrazione”: le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano. Neanche cercando nella legislazione tributaria, si riesce a trovare una definizione di impresa non esclusivamente commerciale.
Da qui un privilegio fiscale alla Chiesa cattolica che l’Unione Europea, investita della questione trova inammissibile tanto che è in discussione una procedura di infrazione delle regole comunitarie turbativa della concorrenza nei confronti dell’Italia. Con questa legislazione di favore infatti ad esempio un albergo di proprietà della Chiesa cattolica, non pagando l’ICI, fa una concorrenza sleale al suo concorrente proprietà di un
comune cittadino perché paga meno tasse.

I beni di proprietà ecclesiastica e i bilanci comunali

Molti nei partito al governo e i partiti di opposizione criticano il fatto che la manovra economica nelle sue varie versioni sottrae risorse alle amministrazioni locali e taglia i servizi. Se i Comuni si attivassero per la riscossione dell’ICI saremmo di fronte a un recupero di risorse incalcolabile perché non conosciamo l’entità del patrimonio ecclesiastico: sappiamo solo che è ingente.
Ma ci sarebbe un altro modo, sempre da parte dei comuni, di recuperare risorse ad esempio non destinando il 7% (quando non una cifra maggiore come a Reggio Emilia dove è il 9%) delle somme incassate per quanto riguarda il pagamento degli oneri urbanistici alle confessioni religiose, Si tratta di somme incassate al 98% dalla Chiesa cattolica come premio per essere la confessione di maggioranza.
Il meccanismo è il seguente: annualmente ogni Comune destina con apposita delibera e su domanda delle confessioni religiose la somma in questione a edilizia di culto. Si tratta di una procedura pressoché automatica perché il consiglio comunale si limita ad approvare sempre la stessa delibera, aggiornando ovviamente le somme rispetto al budget disponibile. Così, in questa difficile congiuntura economica, il Comune di Venezia ha ritenuto opportuno sborsare 355.000€, quello di Bologna dal 2000 al 2009 5.947.076,86 euro, mentre non si conosce la spesa per quest’anno.
Cercando di operare una media che tenga conto delle realtà diverse degli 8000 comuni italiani, ipotizzando un esborso pari a 30.000€ per comune, si raggiungerebbe la considerevole cifra di 240.000.000 di euro. Tale cifra, che i comuni destinano all’edilizia religiosa con una loro scelta discrezionale, supera quanto destinato allo stesso scopo dalla CEI, la quale per l’edilizia di culto ha stanziato 190.000.000 di euro, poco più
del 20% circa dell’ 8 x 1000.
Lo strumento di cui ci siamo avvalsi, una proiezione basata su dei dati e delle cifre medie possibili, ci è imposto dall’assenza di un censimento che permetterebbe, oltre alla certezza dei dati, un controllo democratico sull’utilizzo del ricavato della fiscalità generale.
Quella dell’edilizia e delle tasse sugli immobili è solo una delle voci di un pacchetto di spesa che costa allo Stato annualmente dai 2 ai 3 miliardi di euro (solo l’8% alla Chiesa cattolica 1.050.000 € lo scorso anno).
Ma questo è un altro discorso.

Luigi e Perluigi del Centro Studi Laicità