Elimina il berlusconismo “sinistro” che è tra noi – Tiziano Treu padre del precariato

C’è stato un tempo in cui all’interno della “sinistra moderata” (leggi PDS oggi PD) si discuteva di come fosse ormai necessario superare il concetto del lavoro a tempo indeterminato per sostituirlo con la cosiddetta flessibilità, che veniva rappresentata come una opportunità in più per entrare nel mondo del lavoro, come uno strumento che poteva permettere di gestire al meglio la conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro, oppure come una maggiore possibilità per aumentare la propria esperienza su più ambiti lavorativi(!!!).
Ci ricordiamo bene come lo stesso D’Alema ebbe più volte a sottolineare che era ormai superato il tempo del posto fisso che doveva essere sostituito da “opportunità” di lavoro e come tutto questo avrebbe liberato il mondo del lavoro da quei vincoli e quelle rigidità che ne impedivano la crescita!
E’ in questo clima che si concretizza il primo vero atto di destrutturazione del rapporto di lavoro attraverso quello che passerà alla storia come il “Pacchetto Treu” dal nome del suo ideatore e presentatore Tiziano Treu, Ministro del Lavoro del governo Dini e, successivamente nel 1996, riconfermato in tale incarico dal governo Prodi e, precedentemente, stretto collaboratore del sindacato CISL. Questo insieme di norme viene considerato come uno dei principali atti legislativi che hanno consentito la nascita del precariato nel nostro Paese.
Il Pacchetto Treu è la logica conseguenza del “teorema” della flessibilità del lavoro come strada obbligata per lo sviluppo; un teorema che, pur prodotto dalla cultura economica di destra, convinse tutte le forze moderate del centrosinistra e a cui la sinistra non seppe opporsi.
Il ragionamento si fondava sui vantaggi e sui costi della Unione Monetaria Europea: vantaggi dati dall’entrare nella grande economia continentale protetta da una moneta stabile, ma che per l’altro verso finiva per eliminare la scialuppa di salvataggio della “svalutazione competitiva” cui l’Italia si era a più riprese aggrappata lungo gli anni ’80; insomma non era più possibile svalutare la lira per recuperare competitività e
dare respiro alle esportazioni. In questa logica la flessibilità del mercato del lavoro si rendeva indispensabile: il lavoro doveva divenire la valvola di sfogo dei capricci ciclici dell’economia.
Occorreva dunque flessibilità in tutte le sue possibili declinazioni (salariale, numerica, funzionale). Ecco pertanto prima la benedizione del centrosinistra agli accordi del luglio 1993 e poi il “pacchetto Treu”.
Questa legge ha spianato la strada ai successivi atti messi in essere dai governi di centro destra che hanno portato a compimento l’opera di destrutturazione del mercato del lavoro; un esempio per tutti la legge 30/2003, e i successivi decreti attuativi, che si è perfettamente mossa nella direzione indicata dal Pacchetto Treu aprendo completamente a pratiche di sfruttamento prima impercorribili e che hanno generato il massimo della precarietà e il minimo della qualità del lavoro, innescando meccanismi che guardano ad un modello produttivo fondato unicamente sulla competitività da costi, in particolare quella del lavoro.
Una legge che ha dato veste giuridica alla frammentazione preesistente dei rapporti di lavoro delineando uno scenario denso di implicazioni per l’intero mondo del lavoro, a partire dall’azione del sindacato. Si tratta infatti di un provvedimento che individua e mette insieme una serie di istituti del diritto del lavoro con l’obiettivo di destrutturare tutto il precedente impianto della legislazione sul lavoro considerata evidentemente
troppo sbilanciata a favore dei lavoratori, declinando un’idea di società iperliberista che riafferma il primato dell’impresa come valore assoluto e in nome di questo valore si ripropone un modello autoritario di organizzazione del lavoro dove i diritti sociali e politici vengono compressi o cancellati.
Non a caso in questo periodo si comincia a parlare di superare lo Statuto dei Lavoratori per sostituirlo con un più flessibile Statuto dei lavori e questa idea è una suggestione che attrae larghe fasce del centrosinistra che ha accettato sostanzialmente il paradigma della precarietà come veicolo di competitività e ritiene quindi necessario trovare strumenti per governarla al meglio, ma non certo per cancellarla.
Ad opporsi a questa deriva è stata la sola CGIL che si è trovata, di fatto, a ricoprire un ruolo di supplenza politica per respingere questo attacco e lo ha fatto con straordinarie mobilitazioni (basti ricordare la grande manifestazione del 23 marzo 2002 in difesa dell’Art. 18) e diversi scioperi che non hanno avuto alcun supporto da parte del centrosinistra che, al contrario, più volte, per bocca dei suoi dirigenti, ha attaccato la CGIL stessa tacciandola di ideologismo e sposando invece la posizione di CISL e UIL, diventati sempre più strumenti di consenso per le scelte del governo.
Sono figli di questa impostazione gli accordi separati che si sono succeduti negli ultimi anni, a partire da quello sul modello contrattuale del gennaio 2009, che di fatto sancisce la totale subalternità delle ragioni del lavoro a quelle dell’impresa; si è continuato poi con gli “accordi” di Pomigliano, Mirafiori e Bertone dove si cancellano diritti indisponibili come il diritto di sciopero e di rappresentanza per arrivare infine a quelli nel Pubblico Impiego e nel terziario.
Sono tutti accordi che hanno un comune denominatore: usare la crisi per distruggere la dignità del lavoro e la democrazia, ridurre il lavoro a merce al servizio del capitale, negare diritti conquistati con anni di lotte perché rappresentano un limite all’accumulazione del profitto.
La crisi accentua la diffusione della precarietà e non garantisce alcun futuro alle giovani generazioni, ma al contempo erode velocemente molte garanzie e tutele anche negli strati produttivi “stabili” che diventano i principali soggetti dell’attacco portato avanti dai padroni, ma anche da una parte del centrosinistra che ritiene ormai superato il conflitto capitale lavoro, individuando nel mercato (sia pure con regole condivise) l’elemento
regolatore dei rapporti sociali ed economici.
Emblematico al riguardo il caso FIAT che ha visto il centrosinistra barcamenarsi tra posizioni di leggera critica al metodo praticato, ma di sostanziale accordo sul merito, fino ad arrivare a sostenere esplicitamente le ragioni della Fiat e del suo amministratore Marchionne da parte di soggetti come Chiamparino e Fassino.
La stessa vicenda referendaria ci presenta un centrosinistra, in particolare il PD, che all’inizio si nasconde dietro numerosi distinguo in difesa dei processi di privatizzazione (coerentemente, visto che i primi a sostenere le privatizzazioni anche dei “beni comuni” sono stati proprio i governi di centrosinistra) per poi passare a sostenere i quattro quesiti referendari dopo aver fiutato il vento che spira a sinistra.
E’ evidente comunque che il modello sociale ed economico oggi rappresentato dal centrodestra e dal berlusconismo è un modello che nasce da un’idea tutta mercantile e liberista della società che ha affascinato, ed affascina tuttora, anche larghe fasce del centrosinistra, e da questo assunto non possiamo prescindere nelle nostre analisi e nella nostra azione.

Stefania Baschieri