5. Il mercato

Nel paragrafo II.1. si è parlato dell’illusione, diffusa nella prima metà del 1800 e malauguratamente risorta alla fine del ‘900, che il mercato fosse il regolatore automatico della congiuntura economica. Questa idea, nota come “mano invisibile” scaturiva da un presupposto indimostrato e spesso inconsapevole che il
mercato fosse un contenitore infinito, capace di recepire tutte le merci che fossero state prodotte. L’era dell’imperialismo ha preso coscienza della limitatezza del mercato, della necessità di allargarla quanto possibile, di modellarlo con la pubblicità e la teoria economica ha iniziato a fare di conto con questa novità e ha messo al centro della propria analisi non la produzione, ma il consumatore: con il concetto di utilità marginale
la matematica ha fatto il suo ingresso massiccio nei trattati di economia. Anche la sinistra politica ha iniziato a misurarsi con il problema a partire da Rosa Luxemburg. Quello che si deve affrontare adesso, non è il dato dei limiti teorici del mercato, che avrebbe di per sé dovuto scoraggiare i teorici monetaristi, ma la situazione che la
globalizzazione ha generato.

5.1. Perenne contrazione
Se il profitto a breve comporta la continua ricerca della compressione dei costi di produzione, le scelte di agire sulla componente salari hanno delle conseguenze inevitabili sulla consistenza del mercato. Si è detto che questa componente non è certo la più rilevante e che il carosello degli impianti produttivi ed il disseminamento geografico degli impianti comportano dei costi che non giustificano il risparmio ottenuto sul versante della remunerazione della forza di lavoro; tutto ciò quindi risponde più ad una logica politica che economica. È anche vero però che altri costi sono ben difficilmente contenibili, perché vanno ad incidere su soggetti più forti. Le materie prime sono fonte di profitto e deprezzarle significa un guadagno per le industrie di trasformazione e una perdita per quelle di estrazione, che spesso fanno capo alla stesso gruppo di interessi finanziari. Dall’altro lato la logistica è un settore in forte espansione, naturalmente a sua volta generante notevoli guadagni, e con essa la
costruzione delle infrastrutture necessarie all’insediamento delle industrie ed ai collegamenti tra spezzoni di produzione lontani fra di loro.
Il punto però è che spostare una lavorazione da un luogo dove i salari, per motivi storici, sono alti per trasferirla in una zona dove l’organizzazione dei lavoratori non ha ancora consentito lo sviluppo di rivendicazioni significative, significa azzerare le capacità di acquisto del luogo da dove si esce per crearne di notevolmente inferiori dove si arriva. Complessivamente quindi il mercato si è ristretto. La reiterazione ossessiva di questa procedura porta ad una depauperazione complessiva e continua delle dimensioni dei bisogni che è possibile soddisfare e quindi delle possibilità di collocazione delle merci prodotte.
Gli USA degli ultimi trenta anni sono un esempio lampante di quanto sopra detto. La distruzione dei distretti industriali iniziata negli anni ’80 del secolo scorso ha fatto evaporare una quantità ingente di posti di lavoro stabili e ben retribuiti. Al suo posto si sono creati una pletora di posti precari e sottopagati soprattutto nei servizi. I trucchi messi in atto nella rilevazione dell’occupazione hanno occultato questo fenomeno, che però prima o poi sarebbe dovuto emergere.
Se a tutto ciò si aggiunge la costante riduzione dei salari sociali (Welfare), lo stato comatoso dei mercati appare in tutta la propria evidenza.

5.2. L’economia reale si prende la rivincita
Già nel 1985, in una nostra nota interna[19], scrivevamo: “si può verificare un’autentica crisi di sovrapproduzione […], mai più verificatesi negli ultimi cinquanta anni, ma ora di nuovo logicamente rese possibili dal ritorno egemonico alla conduzione delle economie internazionali di teorie neoliberiste.” Per decenni la situazione è stata tamponata circoscrivendo le crepe che il sistema manifestava. Gli USA hanno sopperito al declino del proprio mercato interno ricorrendo al più classico dei metodi: le spese militari. Con esse si sono raggiunti momentaneamente tre obiettivi: il sostegno del mercato interno, il controllo di aree strategiche del pianeta e la leadership militare globale a sopperire quella economica persa.
Ma come si è arrivati alla crisi in atto? Per lunghi anni gli Stati Uniti hanno drenato capitali esteri a sostegno di una congiuntura interna sempre più precaria. Molte economie, oltre alla loro, si sono sostenute garantendo condizioni favorevoli all’arrivo dei capitali (Irlanda, Spagna, etc.), ma gli investimenti venivano convogliati su beni immateriali e sull’edilizia. Il reddito pro capite però andava calando e la massa dei nuovi
poveri cresceva per le condizioni di lavoro a tempo parziale, in affitto, a termine, etc. I nuovi lavori legati alla comunicazione, ai servizi, alla sicurezza, e simili, fornivano, l’abbiamo già detto, redditi decrescenti. Per sostenere la congiuntura era necessario dare crediti anche a chi non poteva garantire la loro restituzione, per esempio per l’acquisto di immobili. Finita l’ubriacatura della nuova destra statunitense (PNAC), col fallimento delle missioni in Iraq ed in Afghanistan, i nodi sono venuti al pettine ed il castello di carta è miseramente franato. L’economia reale, per anni ritenuta secondaria, la produzione di beni materiali, ha ripreso il sopravvento e le merci sono rimaste invendute. Nel frattempo nuovi e temibili concorrenti si sono affacciati sul mercato internazionale. Il Brasile, che aveva opportunamente svalutato il real prima che fosse troppo tardi, è riemerso quale potenza economica di primo piano. Ma soprattutto è la Cina che ha cominciato a dettare le proprie regole. Proprio quei paesi che non hanno vissuto le ubriacature della “new economy”.

5.3. Nuovo e antico
Per troppo tempo si è fatta propaganda sul “nuovo” o moderno contrapposto al “vecchio” che deve essere superato; non ultima la FIAT recentemente in Italia. Ora che il nuovo sia sempre meglio di ciò che preesiste è tutto da dimostrare. Il nazismo era sicuramente il nuovo negli anni venti del secolo scorso, ma è veramente difficile sostenere che esso fosse progressivo e da accettare con gioia. La rivoluzione khomeinista in Iran ha sostituito il precedente regime dei Pahlavi, sicuramente atrocemente repressivo, ma ha aggiunto a questa poco edificante caratteristica anche una buona dose di oscurantismo, prima assente, contribuendo fortemente al diffondersi del fondamentalismo islamico.
Il problema però è che negli ultimi quattro decenni, in economia, non solo si è proposto il “nuovo” come soluzione salvifica per i mali individuati, ma soprattutto si è spacciato per nuovo quello che in realtà rappresentava la riproposizione di metodi di gestione che la storia si era premurata di sotterrare da oltre un secolo. È commovente vedere ancora analisti economici, formatisi alla scuola dei Friedman, dei Modigliani e di altri mentori del neoliberismo, scrivere articoli, presentarsi in televisione a sostenere cure della congiuntura che non sono altro che la riedizione di quelle scelte che hanno portato alla drammatica situazione attuale. Tutto ciò con l’aria sicura e saccente di chi non nutre dubbi.
Se una cosa oggi è sicura, è che dalla crisi non si esce se non con un cambio radicale di paradigma teorico di riferimento.

[19] ORA-UCAT – Bollettino unificazione, n. 2, maggio 1985.