Farsa in Farsi

Da qualche anno l’allarme internazionale è concentrato sull’Iran di Ahmadinejad e Khamenei e sulla presunta preparazione della bomba atomica persiana. Il regime degli Ahiatollah non ha mai avuto alcuna simpatia da parte della sinistra di classe, anche se nella fase iniziale della rivoluzione islamica alcune organizzazione presero un abbaglio in virtù del dispregio per il regime dello Scià. Chi ha avuto occasione di visitare l’Iran in tempi recenti ha avvertito sicuramente la palpabile insofferenza della popolazione (giovani in particolare) nei confronti dell’oscurantismo delle alte sfere religiose del paese e del loro regime teocratico; tanto che molti rimpiangono la terribile polizia segreta dei Pahlavi, avendo subito la repressione dei basiji. Questa insofferenza è esplosa clamorosamente in occasione delle recenti elezioni presidenziali.
Il problema del nucleare è ben diverso da quello dell’appeal iraniano. Esiste un trattato di non proliferazione atomica che riserva il possesso delle armi nucleari ad ristretto numero di potenze, mentre gli altri paesi possono solo avviare programmi di nucleare “civile”. E già questo pone una serie di incongruenze di non facile risoluzione. Prima di tutto non è facile capire la logica che limita a pochi la detenzione del deterrente nucleare: se alcuni regimi dittatoriali del terzo mondo non garantiscono un uso assennato di armi tanto distruttive, quali garanzie al mondo possono dare gli Stati Uniti d’America, che l’hanno usata davvero ed in circostanze che meritano di esse ricordate. Alla fine del secondo conflitto mondiale, a Germania battuta e a trattative di resa già avviate col Giappone, una prima bomba fu sganciata si Hiroshima al solo scopo di avvisare il nemico sovietico (al momento ufficialmente alleato) che se ne era in possesso. Non contenti e dopo avere constatato l’entità dei danni umani provocati dalla prima, una seconda bomba fu sganciata su Nagasaki al solo scopo di provare in corpore vivi la differenza intercorrente tra quella all’uranio della settimana precedente e la nuova al plutonio.
In secondo luogo per alcuni paesi si è chiuso un occhio (o meglio due) e così il club nucleare si è allargato a Israele, India e Pakistan, senza considerare che la diaspora dell’URSS ha consegnato a molti nuove nazioni, alquanto instabili politicamente, il possesso delle armi nucleari. Infine la distinzione tra nucleare “militare” e nucleare “civile” è quanto mai labile se è vero che dalle centrali nucleari civili si recupera plutonio, quel plutonio molto utile alla costrizione della bomba. Israele ne è così cosciente che negli anni ottanta bombardò una centrale (della misera potenza di 1 MW) in costruzione in Irak, progettata non certo per scopi di produzione dell’energia elettrica.
Su questa sottile linea di demarcazione tra militare e civile si è giocata sinora la partita politica tra la “comunità internazionale” e l’Iran. È un fatto che od oggi le percentuali di arricchimento dell’uranio conseguite dalla tecnologia iraniana si aggirano attorno al 4-5%, del tutto compatibile con l’utilizzo del combustibile nucleare nelle centrali di produzione di energia elettrica; tutto ciò è attestato dagli ispettori dell’AIAE. È, d’altra
parte, ovvio che l’Iran non abbisogna dell’energia nucleare per ottenere energia elettrica, essendo uno dei maggiori produttori al mondo di petrolio, che tra l’altro può esportare in minima parte a causa dell’embargo cui è sottoposto. L’allarme quindi per l’operazione arricchimento in atto in Iran è politicamente giustificato, come fu giustificato l’allarme di Israele per la centrale nucleare in costruzione; sia perché la tecnologia di
arricchimento consente di progredire a concentrazioni maggiori per l’utilizzo bellico, sia perché dalle centrali elettriche nucleari, come detto, è possibile ottenere plutonio.
Ma se l’allarme politico è legittimo, esso non ha fondamento giuridico, come illegittimo, dal punto di vista del diritto internazionale, fu l’intervento militare israeliano. Esperti americani confermano di fatto che le procedure messe in atto dall’Iran per l’arricchimento dell’uranio potranno divenire compatibili con l’uso bellico (percentuali superiori al 95%) non prima di quattro anni. Se questo era vero fino a qualche settimana fa, lo scenario è mutato repentinamente a seguito di una dichiarazione del regime iraniano, che ha espressamente reso pubblica la volontà di procedere verso l’alto nell’arricchimento del materiale nucleare fino a percentuali del 20%, ben al di sopra del 4-5% necessario per la fissione controllata in centrali elettriche. A che scopo questa evidente sfida alle potenze occidentali?
La dichiarazione equivale ad ammettere che lo scopo della procedura di arricchimento in corso non è ai fini dell’utilizzo civile e quindi avvalora il pressing internazionale in atto e si configurerebbe come un passo falso della diplomazia di Teheran. La lettura da dare è invece tutta interna al paese. Un governo che si trova di fronte ad una contestazione di massa che non tende a diminuire (supportata anche da settori ecclesiastici di alto
livello) e ad un evidente insuccesso delle politiche economiche adottate, che produrranno una diminuzione drastica dei benefit con cui si è costruito il consenso di ampi settori della società, è costretto ad alimentare la sindrome di accerchiamento da parte del nemico esterno. Si cerca cioè di chiamare alla raccolta la popolazione sotto la spinta del nazionalismo (emarginando nel contempo ogni forma di opposizione additata essere al soldo dello straniero infedele) e di ergersi ad esecutivo forte e determinato in grado di rispondere all’aggressione delle superpotenze occidentali, anche se con ciò si rischia di perdere (o già si è perso) l’appoggio della Russia e soprattutto della Cina.

Saverio Craparo