Cina/Usa: economia e non solo

I nomi saranno pure delle convenzioni, ma il loro persistere o mutare non cambia la natura di ciò a cui si riferiscono. Prendiamo lo Stato che domina la Cina continentale: esso continua a definirsi repubblica popolare, quand’anche sia ormai tutt’altra cosa – e ammesso che popolare lo sia mai stata. Oggi è una realtà mostruosa, essendo i suoi cittadini deliziati da un’enorme e poderosa burocrazia statale e da un capitalismo
privato solo eufemisticamente definibile selvaggio. Le cosiddette minoranze (Tibetani e islamici del Sinkiang) hanno altresì l’opportunità di riflettere sull’aggiuntiva oppressione
etnica e culturale. Tutto questo non toglie che lo Stato cinese sia una potenza militare ed economica senza rivali nell’estremo oriente.
Notoriamente la Cina è fonte di preoccupazione per gli Stati Uniti d’America, anche perché essi non l’hanno vicina, ma dentro casa: certo, non tangibilmente in modo fisico, tuttavia si tratta di una presenza reale, sol che si pensi alla bella somma di almeno 1,5 bilioni di dollari investiti dal capitale cinese continentale in obbligazioni del tesoro Usa, titoli ipotecari, etc. I “compagni” cinesi hanno tra le loro fila anche spericolati finanzieri che si buttano tra le insidie del capitalismo globale con disinvoltura, come quando nel dicembre del 2007 la China Investment Corporation (che aveva un attivo di ben 300.000 milioni di dollari) comprò il 9,9% del capitale della Morgan Stanley Bank. Ma nel nervosismo per questa situazione i dirigenti statunitensi oggi non sono più soli: anche quelli cinesi hanno di che preoccuparsi.
Per la Cina l’eccesso di credito (che crea inflazione) con cui essa in buona sostanza ha contribuito al finanziamento dell’economia Usa è fonte di apprensione a motivo del rischio di svalorizzazione del suo investimento, in primo luogo per lo stato di salute del dollaro. Per gli Stati Uniti la squilibrata posizione creditizia cinese entra in sinergia perversa con il tasso di cambio tra lo yuan e il dollaro: Pekino, infatti, tiene artificiosamente a un basso livello la sua moneta. Ovviamente la massa di denaro investita nel mercato statunitense non viene fabbricata artigianalmente, ma proviene dalle lucrose esportazioni di prodotti manufatturieri cinesi, il cui consumo è per lo più destinato all’estero. E l’importanza di queste esportazioni è tale che la produzione cinese è triplicata nel periodo 2007/2008.
Ma il mercato interno della Cina non è assolutamente in grado di assorbire questa superproduzione per la mancanza di potere di acquisto delle sue masse popolari. Per cui anche nel caso cinese l’esagerato eccesso di produzione va delineando una situazione classica del capitalismo: lo spettro della crisi per sovrapproduzione.
Inevitabile per gli Stati Uniti è l’adozione di misure protezioniste a tutela degli sforzi per la ripresa dell’economia nazionale in termini di produzione e di consumo.
Se il valore dello yuan aumentasse gli Stati Uniti avrebbero un maggior sollievo, in quanto ciò comporterebbe una presumibile riduzione delle esportazioni cinesi verso il mercato yankee. Ma meglio ancora sarebbe l’incremento delle capacità di consumo del mercato cinese. Cosa tuttavia per niente facile.
La Cina, enorme paese con più di un miliardo e trecentotrentamila abitanti presenta disuguaglianze socio/economiche terribili. Quando Deng Tsiao Ping avviò l’apertura al capitalismo, lo slogan ufficiale diceva può o meno così: “l’importante non è il tipo di gatto, ma che acchiappi i topi”. E in effetti il nuovo gatto di topi ne ha acchiappati, ma in favore di una ristretta minoranza di cinesi, tra capitalisti e burocrati. Solo per loro.
Naturalmente le cose non vanno bene. A gennaio di quest’anno milioni (!) di immigrati nelle città sono stati forzati a rientrare nelle campagne d’origine. Più un provvedimento di polizia che non una misura economicamente proficua. Lo squilibrio provocato dal rientro di tutta quella gente è facilmente immaginabile; ma pochi immaginano (o sanno) che in quelle campagne metà delle abitazioni sono prive di acqua corrente e almeno l’80% non ha servizi igienici. Una vita di merda. Ma va anche detto che gli oltre 200 milioni di cinesi immigrati nelle grandi città per sopravvivere (il verbo vivere sembra eccessivo) finiscono vittime di condizioni di lavoro schiaviste con salari da fame.
All’economia cinese manca, tra l’altro, la necessaria disponibilità di ulteriori terre coltivabili. A questo provvede l’Africa, in cui la Cina sta investendo a ritmo sostenuto. Ma lì essa sta esportando anche le sue conflittualità di classe, non sempre latenti: di recente nella Guinea Equatoriale c’è stato uno sciopero di lavoratori cinesi, finito con 2 morti e 300 scioperanti rispediti in Cina, per punizione e forse per rieducazione.
L’insieme del quadro cinese non fa davvero pensare alla possibilità, a breve termine (e forse nemmeno a medio termine) vuoi di un miglioramento delle condizioni economiche delle masse popolari, vuoi di un decollo del consumo interno. Il che porterà tanto a fare aumentare la conflittualità di classe in Cina, quanto a peggiorare le relazioni con gli Stati Uniti. Cosa che si sta verificando. L’economia Usa ha fretta, per cui opterà sicuramente per la guerra commerciale.
È un segreto di Pulcinella il fatto che non da oggi il Pentagono stia studiando gli scenari di una guerra con la Cina. Si può dubitare che sia una mera esercitazione teorica, anche perché la stampa internazionale proprio in questi giorni dà notizia della decisione di Washington di mutare la propria strategia militare flessibilizzando le forze armate e incrementando gli strumenti bellici elettronici (aerei e mezzi senza pilota, etc), in modo da non avere problemi umani a sostenere più fronti bellici contemporaneamente. E nel mirino potenziale oltre alla Cina ci sono Iran e Corea del Nord. Non sarebbe la prima volta che l’economia statunitense viene salvata da una bella guerra. Quando Saddam Hussain decise di farsi pagare il petrolio in euro e non più in dollari, i più avveduti ritennero che con questo il dittatore iracheno avesse suonato la sua campana a morto. In base a questo e ad altri precedenti, possiamo dire che la rilevante posizione creditizia della Cina è per fonte di grossi pericoli.».

Pierfrancesco Zarcone