LA LUNGA NARRAZIONE DELLA FINE DEL CONFLITTO SOCIALE

“Arpinati: [Starace] è un cretino
Mussolini: ma è un cretino obbediente “[1]

Torno ancora sul fascismo e su dove cercare le continuità con la società contemporanea, al di là del folklore e di simbologie minoritarie e passatiste, laddove il fascismo si pose invece come “rivoluzionario” e portatore di novità (il paradosso dei nostalgici è proprio l’impossibilità di essere nostalgici del fascismo, in quanto movimento radicalizzante e distruttore del passato, alla cui versione mitica pur si richiamava, ma in maniera del tutto strumentale).
Una delle caratteristiche fondamentali dell’ideologia e della prassi fascista (un
movimento/milizia/partito dove l’ideologia è prassi immediata) fu quella dell’abolizione del conflitto di classe, e dello stesso conflitto sociale tout-court. in nome di una terza via fra capitalismo e comunismo: il corporativismo come collaborazione fra le classi, fino alla dissoluzioni delle classi stesse (il Popolo d’Italia cambio appunto il proprio sottotitolo in “quotidiano dei produttori”).
Ebbene, al di là dei proclami antifascisti odierni, in cui l’antifascismo è lavato con il detersivo in maniera da lasciare solo il bianco delle “libertà civili” facendo così risaltare solo le caratteristiche più appariscenti del fascismo, il refrain della fine della lotta di classe e dello scontro sociale è uno di quei punti che dal ventennio si è traslato con più efficacia nella Repubblica italiana, non nella prima ma nella c.d “seconda”(la post-modernità riparte dal passato più lontano e non da quello recente).
Ovviamente la negazione del conflitto è stata ottenuta con modalità diverse: con la violenza e poi con tentativi di integrazione forzata nel fascismo, con il dileggio di ogni possibilità di rivoluzione sociale, con l’inserimento del marxismo nella “parte sbagliata della storia”, con l’ideologia massmediatica della promozione dell”imprenditore di se stesso” nel periodo dopo i magnifici 30 (1945-1975), con la cancellazione dalla storia
dell’anarchismo comunista.
Quella operata dal regime fascista non riuscì ad andare in profondità, in quanto imposta con la forza e poi deflagrata con le distruzioni della guerra, e perché sussisteva una potentissima forza data dal movimento operaio. Possiamo dire che essa oltre ad essere stata, alla fine, molto meno dannosa permise, anzi, un rafforzamento del conflitto nel secondo dopoguerra e si pose quasi come vaccino che ha avuto una lunghissima
efficacia.
Una concezione che pervase non solo i partiti della sinistra storica ma anche partiti come la democrazia cristiana, la quale pur riconoscendosi in una dottrina sociale tendenzialmente interclassista operava nella società reale consapevole della oggettiva esistenza dello scontro sociale.
Anzi, il riconoscimento alla luce del sole del suddetto conflitto e il suo inserimento come caposaldo fondamentale in una democrazia progressiva fece di esso uno dei motori primari dell’avanzamento sociale e civile del nostro paese.
Assai più distruttiva e profonda è stata invece l’operazione avviata alla fine degli anni ’70, in quanto le classi dominanti (memori dell’esperienza precedente) hanno operato su un più ampio e vasto fronte (che non esclude l’uso anche della repressione, ma in un contesto assolutamente diverso) dove le armi, fra le tante messe in cantiere, sono state la promozione individuale, l’esaltazione della autorealizzazione e  dell’”imprenditore individuale” (con il logico corollario dell’egoismo e dell’autosfruttamento) l’innalzamento dei consumi privati, la critica ai socialismi c.d. “reali” sul piano scivoloso delle libertà civili che ha permeato buona parte della
“sinistra” a partire dalla metà degli anni ‘70 e, infine, a suggellare una sconfitta che appare epocale, la presa in carico in maniera convinta e totale (una sussunzione formale e reale) delle ragioni dell’avversario storico di classe.
Questa sussunzione raggiunge il culmine (in realtà notarile approvazione ufficiale – un po’ la conferenza del Wansee della fine dello scontro di classe – di un percorso di lungo periodo) in un famoso discorso al Lingotto[2] in cui si proclamò ufficialmente la negatività della stessa esistenza del conflitto.
Ora, essendo evidente che la contrapposizione sociale non possa essere ridotta ad una “narrazione postmoderna” ma sia una realtà oggettiva incuneata nello stesso DNA del sistema capitalistico, non è che essa sia scomparsa poiché la si è dichiarata “dannosa” o “sorpassata dalla storia”, così come essa non scomparve durante il fascismo (poiché esso non mise mai in discussione il sistema economico, al di là delle pure astrazioni
del corporativismo).
Appare qui un altro lascito, dunque, del fascismo-regime: la sostituzione, a livello politico, della lotta sociale con lo scontro personale e di posizione all’interno delle varie strutture statuali e partitiche dove i due soggetti sembrano perdere i nitidi confini che nella vituperata prima repubblica, in cui il conflitto e la necessità dei partiti politici erano evidenti e naturali, venivano considerati invalicabili.
Uno scontro senza esclusione di colpi, fatto a suon di dossier, utilizzo della magistratura, messa in ridicolo dell’avversario o del compagno di partito “caduto” momentaneamente in disgrazia, con l’utilizzo di un linguaggio moralistico-infantile (le “bugie”, l”invidia per la poltrona” ecc…) degradante oltre ogni dire.
Questo lascito si somma ad un’altra inquietante somiglianza: la trasposizione della lotta di classe e del conflitto, ma anche della lotta politica tout-court all’interno delle istituzioni, quasi che al di fuori di esse non vi fosse né ragione di vivere politicamente né ragione di vivere materialmente (con la presenza ormai endemica dei “miracolati” che passano dall’assoluto anonimato politico ad incarichi oltre che ben remunerati del tutto al di fuori delle loro capacità politiche e culturali – altra caratteristica che ci riporta alle migliaia di “fulminanti carriere” degli amici dei duce) [3].
L’identificazione, quindi, della lotta politica come sola lotta per le istituzioni e le istituzioni come il solo luogo dove fare politica. Questo ha avuto conseguenze esiziali per la democrazia italiana:
A. Ogni discussione di più ampio respiro è stata degradata e dileggiata come “perdita di tempo” (quasi che le secolari tradizioni intellettuali dell’Occidente non fossero state altro che un mare di chiacchiere da opporre alla concretezza di un “fare” privo di ogni orizzonte. Un vero e proprio abbrutimento morale oltre che culturale).
B. Ogni elaborazione di più lungo periodo è scomparsa dall’orizzonte di una politica che non è in grado di fare altro che rispecchiarsi in maniera narcisistica nella propria immobilità (senza teorie e ideologie il movimento è un falso movimento).
C. L’affermazione di “individui” eccezionali ai quali si consegna non solo il proprio senso critico ma anche la propria responsabilità.
D. La confusione fra leadership e “capo”, dove la presenza necessaria di un leader democratico, è stata sostituita da un “capo onnisciente” (che non sbaglia mai) da adorare e poi da distruggere al momento inevitabile della caduta
E. la trasformazione dei partiti in pure macchine elettorali in cui l’adesione ideologica è stata trasformata in adesione conformistica (che cambia colore a seconda dei territori) finalizzata allo sbocco istituzionale (vedi sopra), alla carriera politico-affaristica, in un contesto di passivizzazione delle masse. Questo ha creato la nascita di “RAS” strettamente identificabili con interessi e luoghi specifici.
F. L’assenza totale di critica al modo di produzione capitalistico, o di semplice analisi di esso come fenomeno storico ben individuabile nella sua nascita, e la sua trasformazione in “immanenza” con venature inquietanti di irrazionalità.
G. Ha espulso dalla partecipazione al governo della cosa pubblica ogni soggetto che non fosse già “predisposto” ad una specie di pragmatismo-subalterno francamente mediocre, quando non insignificante, cancellando una lunga tradizione di governi sia locali che centrali che avevamo assommato reale efficienza ed efficacia ad una prospettiva politica di più ampio respiro.
Non sono un politologo e quindi mi fermo qui, per quanto riguarda questo aspetto, rimarcando semmai il punto da cui sono partito: lo scontro sociale (al cui interno vi è lo scontro di classe) rimane fondamentale per una democrazia partecipata e solidale. Solo dal conflitto può nascere una sintesi tra le diverse forze in campo, solo il conflitto è in grado di riconoscere l’altro come soggetto diverso da noi, solo il conflitto alla luce del sole garantisce l’efficacia e la validità di una democrazia compiuta.
Senza la riaffermazione del conflitto sociale e il suo riconoscimento esso non scompare ma si perde, si incunea nelle trame oscure dei rapporti personali, del “si salvi chi può”, del nichilismo dell’adorazione dei magi di turno, della lotta senza quartiere per la conquista dello strapuntino, con il corollario della perdita della partecipazione attiva dei cittadini, e con l’apparizione di concezioni, ideologie, modalità, usi e costumi che ci
riportano a prima della rivoluzione francese.
La lotta al fascismo non passa solo dal diniego dei simboli e delle appariscenti quanto vuote rappresentazioni mediatiche di quel regime (che, sia detto in maniera chiara operò in una crisi epocale e in quella crisi cercò una risposta –assolutamente opposta alla nostra concezione – ma sempre risposta fu) ma dalla consapevolezza, dalla partecipazione, dalla lotta per i propri diritti sociali, dal controllo democratico, e dalla
fine della fasulla narrazione ormai trentennale della quale, speriamo, rimarrà, nella storia dell’umanità, assai poco.
Se non il premonitore verso cantato dai Sex Pistols nel 1976.
“There’s no future”

[1] Richard J. B. Bosworth, “Mussolini. Un dittatore italiano”, Mondadori, Milano,2015.     [2] Si tratta del famoso “discorso del Lingotto” pronunciato da Walter Veltroni nel 2007. Qui il testo completo http://www.ilfoglio.it/politica/2017/03/10/news/pd-da-veltroni-a-renzi-i-discorsi-del-lingotto-torino-124635/
[3] Sempre Arpinati, in una riunione di gerarchi, affermò con sincerità che “ io ora vado in automobile, ho la serva; tutte cose che prima non avevo”. (S. Lupo, “Il Fascismo. La politica in un regime totalitario”, Donzelli, 2000, p.307) .

Andrea Bellucci