Dossier Elezioni – Regno Unito: La rinascita del Labour

Nel 1994 il partito laburista imbocca definitivamente la strada del suo spostamento al centro dell’asse politico britannico quando Tony Blair ne diviene segretario. Non si tratta di una svolta improvvisa, ma preparata dai due precedenti segretari Neil Kinnock e John Smith. La svolta blayriana fa sì che si parli di “New Labour” ad indicare l’allontanamento del partito dalle politiche di difesa del lavoro e dal socialismo. La “terza
via” indicata da Blair segna l’accettazione del capitalismo e gli permette nel maggio 1997 di vincere le elezioni con una grande maggioranza, replicando questo successo nel 2001 e nel 2005. I suoi governi si caratterizzano all’inizio per l’introduzione della legge nazionale sui salari minimi, quella sui diritti umani e quella sulla libertà di informazione.
Tuttavia il Governo Blair smantellava la legislazione di tutela del lavoro, continuando nell’opera svolta da Margaret Thatcher, modificava la legislazione di tutela di lesbiche, gay e transgenter (LGBT), aumentando i diritti di queste categorie di persone; abbassava l’età del consenso per le pratiche sessuali dei minori portandola a 16 anni; adottava la legge di tutela delle coppie omosessuali; introduceva i contratti di partenariato civile per le coppie dello stesso sesso e il diritto per i transessuali di mutare il loro stato di nascita all’anagrafe. Questa strategia gli permetteva di guadagnare consenso mascherando il peso della riduzione dei servizi, delle tutele delle fasce più deboli di popolazione e soprattutto la liberalizzazione del mercato del lavoro. La sua clamorosa conversione al cattolicesimo non gli impediva in politica estera di partecipare all’invasione dell’Iraq, di intervenire nel Kosovo e nella Sierra Leone.
Con Blair il partito laburista cambiava pelle ispirando a livello mondiale tutti i partiti di sinistra riformista che in campo economico e sociale facevano proprio il monetarismo, sposando le politiche di contenimento della spesa pubblica, di privatizzazione dell’economia e dello Stato sociale, condividendo una gestione dei processi di globalizzazione caratterizzata dall’austerità. Forte il sostegno di Blair al capitale
speculativo e la spinta verso una sempre maggiore finanziarizzazione dell’economia britannica.
Una politica di nuova divisione del lavoro diveniva il tratto comune dei paesi occidentali con lo spostamento delle produzioni nelle aree del terzo e quarto mondo per beneficiare del minor costo del lavoro, mentre soprattutto il Gran Bretagna si realizzava la finanziarizzazione dell’economia nella Grande Londra, riducendo il reddito del resto dell’Inghilterra attraverso l’accentuazione dello smantellamento dell’apparato industriale e produttivo. Ben presto il Labour viene sconfitto dai conservatori e perde il governo.

La rinascita del socialismo britannico

La reazione al depauperamento progressivo e inarrestabile dei residui valori del socialismo sembra interrompersi nel 2015 quando Jeremy Corbyn assume la leadership del Labour, ottenendo il 59,5% del consenso al primo turno di votazioni interne al partito. Iniziava un periodo di progressiva trasformazione del Labour, ma il 28 giugno 2016, in seguito alla vittoria del Leave al Referendum del Regno Unito nell’Unione
Europea, la leadersph di Corbyn diveniva oggetto di una mozione di sfiducia non vincolante approvata da 172 parlamentari del suo Partito, pari all’81% del totale. La burocrazia del partito rifiuta il rinnovamento e cerca di contrastarlo in tutti i modi e soltanto il solido rapporto con i militanti salva Corbyn che il 24 settembre 2016
viene rieletto con il 62% dei voti. Si fa stada nelle elaborazioni del segretario del partito l’idea che la Gran Bretagna debba sganciarsi dall’Europa e soprattutto prendere le distanze dalla politica di austerità a trazione tedesca. Da qui deriva un atteggiamento tiepido del partito sulla Brexit nella consapevolezza che lo scontro con i conservatori vada giocato in Gran Bretagna.

Il socialismo di Corbyn

Corbyn non si vergogna nel definirsi socialista e propone un programma politico che contrasta con le scelte a favore dell’austerità che caratterizzano la gran parte degli Stati d’Europa e soprattutto la Germania. Per Corbyn queste scelte sono insostenibili per tutto il Paese, sia dal punto di vista politico, che da quello economico. Come rimedio al degrado dello Stato sociale e dei servizi ai cittadini egli propone la nazionalizzazione di servizi destinati al pubblico quali poste, ferrovie, energia elettrica.
La privatizzazione delle poste inglesi è costata ai contribuenti quasi un miliardo di euro e ha dato luogo a una conflittualità diffusa e continua a causa della tendenza dei lavoratori del settore a non rispettare le leggi anti-sciopero, a rifiutare la mediazione sindacale e a decidere le loro azioni in assemblee generali inclusive di lavoratori precari. Queste lotte ignorate dalla stampa sono però ben vive in tutto il Paese e Corbyn non fa altro che raccoglierne gli effetti offrendo la sponda del partito per un ritorno indietro e una nazionalizzazione del settore.
Ancora più complessa la situazione delle ferrovie britanniche gestite dalla Network Rail. una holding che controlla Network Rail Infrastructure, la società che gestisce la maggior parte dell’infrastruttura ferroviaria britannica. Questa società, pur essendo stata privatizzata, non ha vero azionariato e non distribuisce profitti, ma ha accumulato un debito di 33 miliardi di sterline (quasi 41,5 miliardi di euro) che gestisce la rete e circa duecento compagnie che gestiscono i servizi. Sta di fatto che malgrado l’apparente
privatizzazione lauti finanziamenti vengono erogati dallo Stato alle diverse imprese “privatizzate. Già nel 2003 il debito ammontava a 9,7 miliardi di sterline e si prevede che nel 2019 toccherà i 50 miliardi di sterline. Per ripianare questi debiti difficilmente le risorse potranno essere trovate sul mercato e lo Stato dovrà continuare a colmare il buco di bilancio. La situazione e così paradossale che l’Office of National Statistics ha recentemente classificato la Network Rail come una società pubblica alla luce di quanto essa grava sul bilancio statale. Ciò dimostra il fallimento di una privatizzazione condotta a tutto vantaggio del profitto privato al punto che è opinione comune che in questo modo lo Stato sta indirettamente finanziando le compagnie ferroviarie private che svolgono il servizio. Il questa situazione si comprende come Corbyn ha buon gioco nel proporre la nazionalizzazione, imponendo la manutenzione degli impianti che i privati non fanno, tanto che sono aumentati disservizi e incidenti. Si tratta di una scelta pragmatica e non ideologica!
A controllare il 98% del mercato elettrico britannico sono sei compagnie (le Big Six), di cui solo una inglese e una scozzese. La volatilità dei prezzi e il maggiore rischio di mercato hanno ridotto gli incentivi a innovare le centrali; senza né stimoli né obblighi ad investire, il parco produttivo è invecchiato. Molte centrali a carbone e gas sono state chiuse senza essere rimpiazzate, la vita di quelle nucleari è stata prorogata oltre il
tempo previsto. Nel frattempo, sfruttando il proprio strapotere e la minaccia di blackout, le Big Six hanno aumentato i propri profitti del 410% in quattro anni (2008-2012), finendo per essere indagate per sospetto price fixing (ovvero avere creato un cartello). Si è poi registrata la riduzione della produzione di petrolio e gas, e il fallimento delle rinnovabili. Dal 2004, il Regno Unito è tornato ad essere per la prima volta in dieci anni un netto importatore di energia. Il petrolio del Mare del Nord, è costoso, di bassa qualità e l’estrazione è in calo drammatico. Nonostante i tredici miliardi e mezzo di sterline in investimenti dello Stato nel 2013 la produzione è crollata del 9% all’anno e diventa sempre meno conveniente. Le rinnovabili non offrono sostegno all’economia britannica: l’obiettivo concordato con l’UE era stato del 15%, ma difficilmente la Gran Bretagna
arriverà al 10%. Le rinnovabili si sono attestate sul 4%, e il paese rischia il backout. La dipendenza per le forniture di gas dalla Russia e dal Qatar (gas liquefatto) aumenta, mentre non costituiscono una soluzione il nucleare e shale gas. Infatti la centrale nucleare di Hinkley Point, costerà 43 miliardi di euro che lo Stato britannico dovrà pagare alla compagnia francese EDF; l’uso delle fracking nei giacimenti di scisti del
Lancashire ha provocato alcuni terremoti. In questa situazione nazionalizzare sarebbe una scelta più pragmatica che ideologica, visto che il conto dovrà comunque pagarlo lo Stato.
Il drammatico incendio che ha distrutto un immobile di 28 piani pone all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della gestione degli alloggi cosiddetti popolari di proprietà pubblica come era quello andato distrutto, la cui gestione è affidata a privati i quali, come si è visto, risparmiano in modo criminale sulla manutenzione e sugli interventi ignifughi. Anche su questo punto il programma del Labour chiede il ritorno
della gestione pubblica.

La “Corbynomics”

Ma la parte decisamente innovativa del programma di Corbyn riguarda la sua proposta in campo economico: per definirla è stato creato un neologismo: “Corbynomics”
Nel programma è prevista l’attuazione del cosiddetto “alleggerimento quantitativo” o quantitative easing (o QE), che costituisce una delle modalità con le quali avviene la creazione di moneta a debito da parte di una Banca centrale e la sua iniezione, con operazioni di mercato aperto nel sistema finanziario ed economico.
Questo meccanismo è applicato attualmente dalla BCE a favore delle banche: la differenza della proposta Corbyn è che dovrebbe essere diretto al popolo e alla soddisfazione dei suoi bisogni.
Attraverso questo tipo di misure si darebbe attuazione a una politica monetaria espansionista, allo scopo di stimolare la crescita economica e l’occupazione. Attualmente la BCE e le banche centrali vengono indotte all’acquisto di titoli governativi con scadenza a breve, per abbassare gli interessi medi di breve termine presenti
sul mercato. Può succedere però che questi interessi tendano al valore di zero: quindi verrebbe meno lo stimolo alla politica espansiva. Ma – secondo Corbyn – è proprio allora che le autorità monetarie devono continuare a ricorrere al quantitative easing per stimolare ulteriormente l’economia tramite l’acquisto di attività di più lunga durata, in modo che gli interessi di lungo termine siano posti fuori della curva dei rendimenti. Questo sistema andrebbe governato in Inghilterra dalla Banca centrale, per evitare fasi di eccessiva inflazione o deflazione In buona sostanza si tratta di un procedimento simile a quello attualmente utilizzato per dell’alleggerimento quantitativo dalla BCE, con la differenza nella proposta di Corbyn che la Banca centrale inglese non dovrebbe trasferire il denaro così creato al sistema bancario commerciale (come avviene con gli
odierni piani di alleggerimento quantitativo), ma destinarlo sia a finanziare investimenti in infrastrutture pubbliche sia direttamente a cittadini e lavoratori. L’obiettivo della “corbynomics” è di finanziare progetti pubblici che diano lavoro e che portino il Paese alla piena occupazione.

Le politiche di integrazione sociale

La capacità di Corbyn di rivisitare e di proporre politiche keynesiane, la sua proposta di ricorrere alle nazionalizzazioni dei servizi, vuole rispondere anche a un crescente bisogno di Stato sociale che pervade non solo i ceti popolari, ma anche e soprattutto i giovani i quali si pongono il problema della qualità della loro vita, cercano rapporti di lavoro più certi e socialmente protetti, non vogliono privarsi del supporto di quei servizi
essenziali che segnano profondamente la qualità della vita. Ad essi Corbyn offre nell’immediato la soppressione delle tasse scolastiche. Interessante e tutta da analizzare la sua proposta di riforma del sistema scolastico che si caratterizza tuttavia per la centralità dell’intervento pubblico.
La chiusura degli inglesi nel recinto dell’isola viene vissuta dai giovani come isolamento dal contesto europeo, come un volersi cullare in un’autosufficienza che non esiste più e perciò il loro sostegno elettorale va ai laburisti non per il loro europeismo, certamente tiepido, a cominciare dalle posizioni espresse da Corbyn, ma per l’insufficienza della strategia proposta dai conservatori che mette l’intero paese sulla difensiva, lo fa arroccare su posizioni indifendibili. In realtà contribuiscono al successo elettorale dei socialisti inglesi sia l’inadeguatezza dell’avversario nel dare risposte positive ai problemi attuali, sia l’inizio di una riflessione profonda della sinistra sul ruolo dell’economia e sul quello propulsivo che l’apparato pubblico può svolgere.
Un’incognita rimangono le scelte dei laburisti sul problema dell’integrazione dei migranti e della società multietnica e multi religiosa che è ormai quella delle isole britanniche, divise tra loro a seconda degli orientamenti e degli interessi locali sul futuro e sulla disponibilità a essere parte di un processo di trasformazione dei rapporti sociali e produttivi nel paese che difficilmente potrà vivere, se isolato dal consesso europeo e mondiale.
Con tutti i suoi limiti la proposta laburista, anche per demeriti e carenze profonde degli avversari sembra tornata a convincere. Qualche novità c’è e sembra intravedersi l’uscita dal tunnel della crisi. Certamente Corbyn raccoglie e massimizza le proposte di Sanders, ma da ad esse una maggiore concretezza, articolandole in un programma dettagliato.
Forse l’inverno del riformismo inglese sta per finire, lanciando qualche idea innovativa per tutta la sinistra e dimostrando soprattutto che spostandosi al centro quando non a destra dello schieramento si perde. Insomma il blairismo è proprio finito!