Parlando di scuola

Alcuni giorni or sono un ragioniere (definirlo giornalista mi parrebbe troppo generoso) de “Il Sole 24 Ore” riportava una serie di dati di fonte europea sul rapporto tra docenti ed alunni nella scuola italiana, e spendeva alcune inutili parole sul confronto tra l’Italia e gli altri paesi in merito a detto rapporto: il paese era partito con uno svantaggio rispetto agli altri su questo specifico argomento, ma poi aveva recuperato terreno per giungere ad eguagliare la media internazionale; la “buona scuola” ci ha riportati indietro e giù pianti. La questione così posta è veramente molto terra terra e non tiene conto di molti fattori, che invece sono quelli da considerare.
1) Il governo Renzi ha messo in atto una vasta operazione di immissioni in ruolo di docenti precari, forzato da una sentenza europea che condannava l’Italia ad assumere coloro che da più di tre anni lavoravano nella scuola come precari. Se le volpi operanti intorno al flautista di Rignano avessero operato con un minimo di conoscenza su quello che stavano facendo, ovviamente, essendo gli assunti già in attività dentro la scuola italiana, il rapporto docenti-alunni non sarebbe risultato alterato; ma i boriosi ignorantelli hanno evitato la via semplice ed hanno immesso in ruolo molti iscritti in graduatorie vecchie di anni e che mai avevano calcato un’aula scolastica, lasciando fuori chi ne aveva diritto e che ha dovuto fare un nuovo concorso, con l’aggravante che detti nuovi
assunti spesso non avevano requisiti utili all’attuale assetto dell’istruzione, risultando pertanto inutili e pleonastici. Si è così alterato quel dato numerico che tanto sta a cuore a chi poco comprende di scuola e che nemmeno si sforza di capirci qualcosa.
2) L’abbassamento del rapporto docenti-alunni, operato negli anni precedenti, ha corrisposto ad una politica di restringimento delle spese dello Stato italiano per l’istruzione; si deve ricordare a questo punto che il nostro è il paese fanalino di coda per investimenti nel settore istruzione e che l’aumento degli alunni per classe, perseguito con tenacia dai governi dell’ultimo ventennio, ha messo in discussione il modello educativo peculiare dell’Italia, non riuscendo peraltro a destabilizzarlo totalmente, cosa che, come specificherò in seguito, è stata salvifica.
3) Nel modello anglosassone sono gli studenti a recarsi nell’aula gestita dal docente in un numero anche molto elevato; questi fa lezione e poi verifica gli apprendimenti spesso con dei test, ignorando quale sia la necessità dei singoli, non ascoltando gli allievi con interrogazioni, che sole sono in grado di fargli capire dove si annidano le difficoltà cui vanno incontro i discenti. Questo è pure un modello perseguibile e non è un caso che esso dia un rapporto alunni-docenti ottimale, ma sarebbe impervio sostenere che esso possa facilitare gli apprendimenti di coloro che incontrano difficoltà, che infatti vengono abbandonati darwinianamente al loro destino di analfabeti di ritorno
e di cittadini di serie B.
4) Nella scuola italiana, unica al mondo, esiste la figura dell’insegnate di sostegno, volta ad inserire nella comunità scolastica gli alunni diversamente abili, ed in prospettiva di favorire il loro inserimento sociale; poiché la presenza di questi docenti è aggiuntiva a quella degli insegnanti curricolari è ovvio che essa tende ad abbassare quel famoso rapporto che tanto sta a cuore al ragioniere di cui all’inizio ed a tutti i poveri di spirito che in malafede lo evocano come parametro dirimente per sparare giudizi sul sistema formativo italiano.
5) Ma c’è di più. La parola magica della scuola italiana degli ultimi decenni è “inclusione”, che comporta una cura particolare per coloro che faticano di più e per integrare chi proviene da culture diversa dalla nostra. È forse vero che spesso questa parola giustifica una facilitazione eccessiva per i più deboli, che risultano giustificati e perdonati anche senza una richiesta di impegno, cosa che poi si riverbera contro di loro nello scontro con la realtà della vita che li coglie impreparati e gracili (la selezione che si evita nella scuola si manifesta poi più dura e fatale nella società), ma è pur vero che questa pratica è stata utile ad assimilare al nostro modo di vivere generazioni di
immigrati che si è così evitato di rigettare ai margini. I casi delle periferie parigine e della scuola belga ed olandese, che privilegiano le scuole private orientate per religioni e etnie e tendono a ghettizzare coloro che non appartengono in origine ai gruppi autoctoni, con istituti differenziati, sono emblematici di cosa può succedere se si evita di integrare i “diversi”; e la relativa calma di cui gode la società italiana in relazione all’esplodere del radicalismo islamico in così larga misura come altrove, è forse la migliore patente che merita il sistema formativo italiano pubblico, a dispetto dei ragionieri che vedono solo numeri.