OSSERVATORIO ECONOMICO

serie II, n. 33, novembre 2016

Ripresa? – Il titolo del quotidiano di Confindustria non lascia adito a dubbi: “La grande «gelata» dell’economia mondiale” (Il Sole 24 ore, a. 152, n° 246, 7 settembre 2016, p.2). Da tempo sosteniamo che l’uscita dalla crisi non può avvenire se le linee di politica economica seguite sono le stesse che hanno prodotto la situazione e i fatti lo confermano. Anche paesi che sono usciti, almeno in parte, dai sentieri tracciati dal neoliberismo, come gli USA, oggi segnano il passo, a riprova che non può esserci una “locomotiva” (sempre per citare il medesimo articolo) se la svolta non si verifichi a livello complessivo; questo perché è il mercato globale che soffre per il dilagare di politiche di austerità, ed un mercato che si restringe per la compressione dei ceti medi, per il
dilagare dei conflitti, per la crescita delle barriere fisiche e doganali non consente la crescita a nessun paese, neppure a quelli, come la Cina, che basano la propria produzione sull’inondazione di beni a basso costo. In tale contesto la querelle tra il Governo italiano e la Commissione Europea lascia un sapore amarognolo: la crescita italiana per il 2016 si collocherà all’1%, come sostiene Padoan, oppure allo 0,9%, come prevede Juncker? Ed il prossimo anno sarà superiore all’1%, oppure al massimo si limiterà a rimanere entro tale limite? Un gioco sul crinale dei decimali, mentre le previsioni macroeconomiche del commercio mondiale si tingono di tinte fosche. Resta il fatto che il governo del genio lampadato ha sperperato nell’arco di meno di un
triennio oltre trenta miliardi in mance elettorali, in bonus improbabili, in regali agli
imprenditori, operazioni ad impatto nullo sulla economia italiana. Questo ingente quantitativo di risorse pubbliche poteva essere convogliato, ad esempio, su di un serio piano di messa in sicurezza degli edifici, a partire da quelli scolastici, la cui priorità era stata posta all’atto dell’insediamento dell’Esecutivo, ben prima del verificarsi del terremoto del centro Italia; un vasto piano di opere pubbliche, non certo però quello delle faraoniche infrastrutture in gran parte dispendiose ed inutili, avrebbe certo offerto molte più possibilità di riagganciare il trend positivo degli anni scorsi con effetti ben più visibili di quelli attuali, rianimando un mercato interno sempre più in difficoltà. Ma l’occasione è andata sprecata per la scarsa visione strategica di un governo, che sa agitare suggestioni, ma che è totalmente inconcludente nei fatti. Ora la congiuntura è molto meno favorevole di quella goduta dal Ronzino valdarnotto nei primi suoi due
anni di governo: lo spread sta risalendo minacciosamente tornando a gravare pesantemente sul debito, il petrolio è tornato sopra i 50$ aggravando la nostra bilancia energetica, il commercio mondiale è divenuto più asfittico (Riccardo Sorrentino, “La frenata del commercio mondiale”, in Il Sole 24 ore, a. 152, n° 58, 28 febbraio 2016, p.2). Una cosa è certa: le politiche europee sono un potente detonatore per il riaccendersi della crisi, ma esse andrebbero cambiate richiedendo la revisione dei trattati, piuttosto che fare la guerra su pochi decimali o mendicando deroghe, che
verranno concesse per non indebolire il governo interno, ma che, in mancanza di una nuova politica economica, si riverbereranno immancabilmente in modo negativo sui bilanci degli anni futuri. La nuova legge di stabilità rinvia al 2018 il peso di alcune scelte (finanziamenti all’innovazione industriale per gli acquisti fatti nel 2017), quando il vaniloquio del giglio tragico è probabile esca di scena.
Scenari – Al tramonto di Obama tornano in auge le lobby che a suo tempo avevano sostenuto l’Amministrazione Bush: petrolieri e industrie produttrici di armi, tradizionali sostenitori dei repubblicani. L’eredità del primo Presidente nero degli USA non è entusiasmante; i pochi risultati positivi (nuove relazioni con Cuba ed assistenza sanitaria) rischiano seri rimaneggiamenti in peggio. I disastri internazionali, però, sono soggetti a essere un po’ raddrizzati. L’Amministrazione Obama è stata pervicacemente diretta verso lo scontro con la Russia e ne sono uscite le sanzioni economiche come ritorsione per la guerra in Ucraina, che hanno danneggiato non poco l’economia dei paesi europei: ne è risultato pure il cataclisma nell’area mediorientale, con il maldestro tentativo di disarcionare Assad dal trono della Siria, anch’esso volto a contenere la presenza russa nell’area. Il cui risultato diretto è stata la nascita dell’ISIS. Il fiore all’occhiello della Casa Bianca doveva essere il TTIP. Ovverosia il trattato transatlantico di libero scambio tra USA ed Europa. Il nuovo Presidente, Trump, ha già manifestato la propria contrarietà, riprendendo la tradizionale linea parzialmente isolazionistica
di tutte le Amministrazioni repubblicane, se si eccettua l’ultima, nata sotto l’egida ei neocon del gruppo del PNAC. Questa prospettiva getta nel panico gli analisti (Mario Platero, “Il futuro incerto del commercio mondiale”, in Il Sole 24 ore, a. 152, n° 313, 13 novembre 2016, p. 5). Il problema non è per il vecchio continente, che dal trattato, checché ne pensino Renzi e Calenda, aveva tutto da perdere, quanto per gli stessi Stati Uniti d’America, che molto fidavano sull’incremento delle proprie esportazioni: Gianluca di Donfrancesco (“Ma l’export dà lavoro a 12 milioni di americani”, in Il Sole 24 ore, a. 152, n° 313, 13 novembre 2016, p. 5), solleva i pericoli che si prospettano: già nel 2015 le esportazioni statunitensi hanno sofferto una flessione e senza l’accordo la situazione non può che peggiorare; ciò può minare la già precaria ripresa in atto oltre oceano e riverberarsi sull’export degli atri paesi verso gli USA. L’articolista rileva che nel 2015
l’Europa “ha piazzato oltre-atlantico il 21% dei beni e servizi esportati, per un valore di 371,3 miliardi di euro, con una crescita del 19% rispetto all’anno precedente, e con un attivo commerciale di 122 miliardi di euro.” Il ragionamento funziona fino ad un certo punto, in quanto il trattato avrebbe favorito le esportazioni statunitensi nell’UE e non viceversa, comportando una compressione nelle produzioni garantite nel vecchio continente in favore delle produzioni di bassa qualità provenienti dagli USA; l’industria europea ne avrebbe subito un danno non recuperabile con un aumento di esportazioni verso gli Stati Uniti, di cui non sarebbero esistiti i presupposti. Il danno non deriverà pertanto dall’eventuale ed auspicabile non sottoscrizione del trattato, ma dal risorgere del protezionismo e degli ostacoli possibilmente posti in essere dalla nuova Amministrazione Trump.

chiuso il 13 novembre 2016
saverio