Analisi sulla fase economica e sociale 2016

Introduzione
1

L’analisi sulla fase che pubblichiamo è l’ultimo prodotto di un’abitudine a ragionare sui fatti dell’economia che dura da 40 anni e vuole essere un tratto caratteristico dei comunisti anarchici che si colloca nella loro migliore tradizione, a partire dalla lettera ai compagni d’Italia che Bakunin inviò a Celso Ceretti, sviluppando l’analisi della situazione italiana dopo l’unità posta a premessa necessaria delle prospettive della
rivoluzione sociale in Italia[1].
I primi risultati di questo tipo di lavoro sono costituiti dalla pubblicazione di Ai compagni sulla Cina nel 1972[2], quando il culto del maoismo agitava i giovani operai e studenti in lotta in Europa, seguito nel 1975 da Ai compagni su capitalismo ristrutturazione e lotta di classe[3] che, analizzata la crisi petrolifera, si soffermava sulla struttura della gestione del territorio attraverso il decentramento produttivo e ha rappresentato il punto di riferimento della nostra azione politica per molti compagni ed è sfociato nell’elaborazione di un documento diretto ancora una volta al movimento comunista anarchico: I comunisti anarchici e l’organizzazione di massa.[4]
Da allora la nostra attenzione si è periodicamente diretta all’analisi della fase alla quale è stato dedicato un numero speciale dell’Informatore di parte” nel 1980, nel quale si prevedeva, spiegandone le cause, la prossima caduta dell’impero sovietico.
E’ stato necessario arrivare al 1997[5] per proporre un programma minimo e aggiornare l’analisi, ma l’incombere della crisi che avvertivamo ci ha costretto ad aggiornare l’analisi nel 2004[6] e nel 2011[7]; checché ne dica la propaganda giornaliera la crisi perdura e non conosce soluzione e ciò ci induce oggi ad intervenire ancora una volta, per richiamare l’attenzione su alcuni elementi di portata strategica che possono contribuire ad una più approfondita riflessione, a disegnare una strategia che speriamo possa aiutare la ripresa delle lotte e dell’antagonismo di classe.

1. Neoliberismo
1.1 Origini

Per una breve excursus sulle origini e delle teorie neoliberiste si rimanda a quanto già scritto nel 2011 citato nella nota n° 7. Come pure per ciò che concerne i motivi della sua affermazione e del suo successo.
Quello che resta da capire è come e perché, nel bel mezzo di una crisi devastante e i cui limiti temporali restano tutt’ora indefiniti, il paradigma economico che l’ha originata, resti pur sempre il punto di riferimento normativo per le élite dominanti. Risulta chiaro a chiunque che le regole economiche che hanno originato una crisi, non sono certo quelle adatte a risolverla. Il problema si pone perché, se l’accanimento nel perseguire i parametri stretti che il monetarismo impone all’economia mondiale rischia di precipitare anche le classi dominanti nel baratro, lasciando sul terreno gran parte dei loro componenti, la ragione per la quale esse si aggrappano a queste deve risiedere in parte in motivazioni non precipuamente economiche.

1.2 La fragile zattera delle teorie neoliberiste

Due sociologi francesi hanno pubblicato recentemente un saggio[8] in cui analizzano le cause della sopravvivenza del neoliberismo, sopravvivenza che ha la sue ragioni, a loro dire, in fatti eminentemente sociologici, cioè al fatto che “esso tende a totalizzare […] con un proprio specifico potere di integrazione di tutte le dimensioni dell’esistenza umana”; una vera e propria “ragione del mondo”. È oggi difficile discriminare
le componenti economiche da quelle sociali. Mai come adesso fattori strutturali e sovrastrutturali sono stati talmente intrecciati ed interdipendenti. Un’analisi della congiuntura non può prescindere dal valutare fattori quali l’istruzione, la comunicazione, i social network e tutti gli altri strumenti di formazione della cosiddetta opinione pubblica, che molto incidono sulla stabilità dell’assetto sociale dato: un tempo solo la forza militare era il supporto del potere costituito ed oggi essa viene in gran parte sostituita dalla formazione del consenso[9].
Ma sicuramente alla base del persistere delle teorie economiche neoliberiste stanno motivazioni squisitamente economiche, anche se di corto respiro.
Esiste, senza alcun dubbio, una fetta sempre più ristretta di popolazione, legata in massima parte all’alta finanza, che aumenta incessantemente le proprie ricchezze e con esse il prprio potere e la capacità di decidere ed orientare i destini della restante parte, sempre più impoverita e crescente in numero. Ovviamente per costoro
il sistema, al momento, funziona più che bene; ma la catena di sant’Antonio degli interessi che si autoalimentano senza un reale supporto è già deflagrata una volta nel 2007 e la continua compressione dei mercati interni delle singole aree geoeconomiche, derivante dalla progressiva scomparsa della classe media, unico vero motore dei consumi, non lascia molti dubbi sul ripresentarsi di un nuovo collo di bottiglia
dell’economia mondiale. Il nuovo trauma rischia di essere ingovernabile e di travolgere anche i più ricchi. Se questo avverrà per un tracollo globale con conseguente lunga e prolungata depressione, come più probabile, o se per lo scatenarsi di un consapevole e dirompente dissenso sociale, come auspichiamo, non è dato sapere.

2 l’uscita è dietro l’angolo?

Tecnologia Produzione Mercato Struttura Controllo
2.1 Fino agli anni ’70 elettromeccanica fordismo oligopoli stato-nazione moneta
2.2 Dagli anni ’80 sei tecno,ogie ciclo frammentato competizione per segmenti reticolo di azinde aree omogenee ?
2.3 Nuovo secolo finanza ciclo frammentato concentrazione oligopolistica sviluppo neuronale authority
2.4 Un nuovo ciclo? ? parziale ricomposizione concentrazione oligopolistica irraggiamento dello sviluppo governi sovranazionali

L’analisi del 2011 si concludeva con lo schema soprastante e con le seguenti considerazioni: “Queste delineate sono quelle di buon senso che comportano, nella rivitalizzazione dei mercati interni (nuovo Welfare, salari crescenti, occupazione stabile), la possibilità di un nuovo ciclo espansivo. Il perpetuare manovre recessive porta tutti verso un vortice depressionario di cui non si intravede la fine.”
A distanza di cinque anni è facile constatare che quanto ipotizzato nell’ultima riga dello schema, cioè l’apertura di un “nuovo ciclo”, non si è realizzato. Il capitalismo non ha imboccato la strada di un cambio radicale di rotta, bensì ha scelto di “perpetuare manovre recessive”. Si è quindi andati avventatamente incontro a una continua recessione, punteggiata di ripetuti annunci di una svolta positiva imminente, che mai si è però, concretamente verificata. L’ottimismo di facciata si è sempre scontrato con una realtà invidiosa, cinica e bara.

2.1 Timidi segnali

Periodicamente gli analisti individuano segnali di ripresa, seppur deboli o meglio, come dicono, “timidi”.
Questi segnali hanno assunto nel tempo provenienze diversificate: in essi si sono riposte speranze presto disattese. Tra il 2010 ed il 2012 gli USA sembravano avere riassunto il ruolo di motore dell’economia mondiale, grazie al fatto che l’Amministrazione Obama aveva largamente disatteso i vincoli monetaristici, iniettando nel sistema montagne di dollari e finanziando le imprese in difficoltà (Crysler, poi FCA); ma senza un adeguato rilancio degli investimenti, che producessero occupazione, liquidità e quindi rivitalizzassero il mercato interno, la presinta ripresa è poi ripiegata su se stessa[10].
Dal 2012 al 2015 tutti gli occhi erano puntati sulla Cina, il cui ritmo viaggiava a due cifre percentuali. Sul finire dell’anno la crescita è dimezzata (pur restando ad un ragguardevole 6%, ma su di un PIL che è poco più della metà di quello USA) e le speranze di un nuovo potente motore si sono affievolite.
Quali sono le risposte che i valenti economisti che dettano le regole, si danno per spiegare queste continue disillusioni?

2.2 Gli ostacoli imprevisti

Un disastro od un evento traumatico all’anno scandiscono le cause della ripresa abortita. Nel 2011 il terremoto di Fukushima fa traballare la già incerta economia giapponese. Nel 2012 arriva ‘Sandy’, l’uragano che riuscirà anche a fermare New York; verrà chiusa persino la Borsa. Grandi danni e difficoltà sulla costa Est. La crisi politica in Egitto, con il colpo di Stato militare del generale Al Sisi, che destituisce il Presidente Morsi, nel 2013 mina definitivamente la regione nord africana, già destabilizzata dalle “primavere arabe”. L’anno successivo il deflagrare della guerra in Ucraina, che vede contrapposta la Russia con gli USA e l’UE, dà adito alle sanzioni economiche con grave flessione dell’importante mercato russo. Il 2015 è l’anno dell’esplosione del terrorismo della “guerra santa” del radicalismo islamista, che fa crollare le borse e mina l’economia
turistica. L’anno in corso è quello del referendum britannico sulla permanenza in Europa della Gran Bretagna (Brexit) che semina incertezza nella finanza internazionale.
È ovvio che tutte queste sono solo tentativi maldestri per occultare il fatto che il problema non risiede nelle marginali occasioni di destabilizzazione della congiuntura internazionale, nei piccoli o grandi ostacoli che di volta in volta si frappongono al libero dispiegarsi della ripresa; i fatti sopra citati, importanti, ma tutto sommato, marginali e locali, verrebbero assorbiti da un’economia per altro rigogliosa solo con qualche
contraccolpo privo di conseguenze rilevanti. Quello che si cerca di non far comprendere è che l’assetto finanziario del sistema internazionale, legato alle teorie neoliberiste, non è in grado di produrre un’economia propulsiva, ma solo enormi profitti per un numero molto limitato di individui e recessione e compressione del potere di acquisto e della capacità di consumo per la restante parte di popolazione, cioè la stragrande
maggioranza degli abitanti del globo.

3 La congiuntura globale
3.1 Gli Usa

La delusione dei mercati internazionali relativa al progredire positivo dell’economia statunitense, di cui alla nota 10, è particolarmente riferita all’andamento dell’occupazione. Qualcuno ipotizza che i dati inattesi di maggio 2016 siano solo un rimbalzo, ma molti elementi indicano che ciò non è. Dal 2007 gli USA sono stati il
paese che più ha trainato il mercato del pianeta: dal 2009, annus horribilis per la congiuntura globale al 2014, l’economia statunitense è cresciuta di circa il 13%, contro l’11% di Germania e Gran Bretagna, il 6% della Francia ed il 3,5% del Giappone (l’Italia è invece calata del 2%)[11]. Ma per bocca dei tecnici della FED la ripresa è ora modesta (il primo trimestre ha fatto segnare un misero incremento dello 0,8%)[12]. I dati occupazionali sono solo la spia di un malessere; in maggio solo 38.000 nuovi posti, tutti derivanti dal settore sanitario (che la riforma Obama funzioni?), mentre l’industria ed i servizi sono in calo. Nei mesi di giugno e luglio, è vero, l’occupazione è tornata a crescere, salutata dall’entusiasmo dei commentatori[13]; un confronto con gli analoghi
mesi dell’anno scorso mette in evidenza che la crescita è stagionale e che i risultati sono in linea con il 2015: se ci si affretta a dire che la somma dei due mesi (poiché il dato di luglio è inferiore a quello dell’anno precedente) supera l’analoga del 2015, non si riflette sul fatto che la somma dei tre mesi, (incluso maggio) resta invece ben
al di sotto. Ma è in calo anche l’indice manifatturiero dal 55,7% al 52,9%; solo gli ordinativi sono in crescita. Il problema vero è che le merci americane incontrano ostacoli per le esportazione a causa del restringersi dei mercati interni dei diversi paesi[14]. Tant’è che l’Amministrazione, che ha derogato ai rigidi canoni imposti dalla
scuola di Chicago, sta facendo pressioni perché gli altri paesi, sbocco delle merci prodotte, allentino le politiche di austerità: il sottosegretario al Tesoro Jack Lew, ha visitato Corea del Sud e Cina a questo scopo e forti sono le pressione nei confronti della UE. Sulla Cina rimandiamo al prossimo paragrafo, perché il suo caso non rientra
esattamente nella specie delle politiche recessive, ma risponde ad una problematica diversa.

La Cina

La Repubblica Popolare Cinese ha conosciuto negli ultimi dieci anni tassi di crescita a due cifre percentuali, ha acquistato metà del debito statunitense, ha operato investimenti nei maggiori paesi industrializzati cosicché i suoi interessi si sono intrecciati con quelli dei più importati mercati internazionali. La scintilla del miracolo economico è stata la creazione delle ZES, zone di investimento privilegiato per gli
imprenditori esteri cui veniva offerto un trattamento fiscale molto favorevole e una manodopera a bassissimo costo, priva di qualsiasi diritto, persino quello della sicurezza sul posto di lavoro[15]. I lavoratori delle ZES hanno poi iniziato ad organizzarsi, pretendere aumenti salariali, rivendicare maggiori tutele, di modo che il proficuo
investimento dei capitalisti occidentali si è fatto meno interessante col conseguente reflusso. Ma ormai il meccanismo si era innestato, avendo quel periodo svolta la funzione di “accumulazione preventiva”[16]. Ma a riprova del fatto che un’economia locale non può continuare a crescere se ciò che produce non trova adeguato sbocco nei mercati degli altri paesi, oggi la Cina si trova in una situazione di forte rallentamento della crescita a causa di una “sovraccapacità dell’industria”[17]. È vero che la Cina si colloca ancora al primo posto nel mercato dei robot, sia per le vendite che per il crescente impiego nelle proprie industrie18, ma ciò rappresenta una coda al passato sviluppo, che contribuisce al 6% circa di crescita annuo, ma non risolve il problema strutturale per lo sbocco mancato delle altre merci; non è un caso che gli analisti non siano ottimisti sulle future prospettive del paese e che esso sia divenuto un sorvegliato speciale da parte degli Stati Uniti d’America. Va ricordato, comunque, che, come segnalato nel n° 8 della nuova serie dell’“Osservatori economico” dell’ottobre 2010, la
Cina produce il 94% delle “terre rare”, elementi indispensabili per le moderne tecnologie informatiche, che ne fa un elemento indispensabile nel mercato mondiale[19].

3.2 L’Unione Europea

La situazione del momento per l’Europa è oltremodo complicata, e non solo per l’uscita della Gran Bretagna, sanzionata dal risultato del referendum popolare. Le parti stentano a trovare la strada di attuazione della Brexit, per le resistenze offerte da Governo d’oltre Manica. Sta di fatto che la Gran Bretagna ha molto contribuito alla formazione dell’attuale assetto del mercato europeo, mercato appunto e solo mercato, con una rigida impostazione liberista. Sta pure di fatto che per una buona metà di secolo Londra ha preso tutti i vantaggi dell’adesione all’UE, rimanendone pure sempre ai margini, sfilandosi dalle norme comunitarie che non condivideva e ottenendo deroghe su deroghe alle regole di appartenenza, ultima quella del 2006[20]. Ciò non ha
impedito che i britannici abbiano sempre occupato e continuino ad occupare posti chiave nell’amministrazione di Bruxelles.

3.2.1 Brexit e Gran Bretagna

La collocazione marginale della Gran Bretagna nei confronti dell’Unione Europea ha trovato giustificazione nella visione geopolitica portata avanti senza interruzione dai governi britannici del secondo dopoguerra, visione derivante dal passato di centro dell’impero e priva di un sostrato di reale potenza militare ed economia che la rendessero attuale; l’idea cioè di essere l’anello di congiunzione tra Europa ed USA, con l’occhio rivolto ad una presunta unità di prospettiva dei paesi anglofoni[21]. È così che Londra si è costruito il mito di una propria rinnovata centralità, ormai da tempo persa, e l’illusione di avere tutto da guadagnare dalla propria autonomia. Quando questa percezione si è installata nell’animo predisposto degli isolani, l’alta finanza
si è accorta del pericolo che stava correndo, ma era troppo tardi. Gli effetti per la Gran Bretagna sono ancora in fieri, ma le avvisaglie sono già palesi: calo del valore della sterlina e conseguente allontanamento degli investitori, che rischia di trasformare la City in una piazza come le altre e a non essere più il luogo privilegiato per il mercato finanziario europeo, tant’è che già sono al vaglio spostamenti delle contrattazioni in sedi
alternative; alcuni gruppi stanno decidendo di cambiare sede (Vodafone[22]), con conseguente calo dei valori immobiliari; Scozia, Irlanda del Nord e forse anche il Galles minacciano di rendersi indipendenti dalla Gran Bretagna (che sarebbe semplicemente Bretagna a qual punto) e se la Scozia, già da tempo al limite della secessione, dovesse andarsene si porterebbe con sé il prezioso petrolio del Mare del Nord, con conseguenze devastanti per l’economia britannica; la fiducia dei consumatori è calata di 11 punti[23], la peggiore caduta degli ultimi venti anni. Gli scricchiolii si fanno sempre più evidenti. I dati che via via emergono sono sempre più impietosi[24]. La stessa area centrale del paese – identificabile con la Bretagna e il Galles non è omogenea in
quanto contiene al suo interno Londra e la sua area metropolitana che ha una struttura economica e sociale diversa dal resto del territorio, fortemente integrata con l’economia continentale europea e internazionale. Il progetto di internazionalizzazione di quest’area che ha accolto la gran parte dell’emigrazione dovrà dunque subire una forte rivisitazione alla luce di quanto è avvenuto.

3.2.2 L‘UE e la Brexit

Il contraccolpo per l’Europa a 27 non dovrebbe essere devastante e potrebbe rappresentare un’occasione per rivedere certe regole comunitarie, troppo spesso legate alle esigenze britanniche, dato che Londra si è sempre opposta ad una più stretta integrazione politica dei paesi membri. Sarà come sempre un’occasione sprecata, perché il tempo trascorso nell’ultimo decennio, in particolare con l’ingresso dei paesi dell’Europa orientale, voluto fortemente dal governo d’oltre Manica per ampliare il mercato inducendo dumping sociale, ha scavato profondamente sulle ragioni fondanti dei Trattati, talmente che le spinte centrifughe ed autonomistiche si sono rafforzate, sia in alcuni Governi, sia per la crescita di movimenti euroscettici, che già lambiscono il
potere in molti paesi. Se l’integrazione politica resterà un miraggio dei padri fondatori, un cambiamento di rotta nella politica economica appare ancora più improbabile. Se l’Inghilterra è stata la battistrada del neoliberismo in Europa, riuscendo a farlo divenire vangelo per la Commissione Europea, il testimone è stato da tempo imbracciato dalla Germania, e con grande efficacia: al momento pare che essa sia l’unica beneficiaria di questa impostazione, ma a lungo andare la depressione dei mercati interni dei singoli paesi peserà sulle produzioni tedesche; gli Stati Uniti d’Americano hanno già realizzato il pericolo ed hanno iniziato ad esercitare una forte pressione affinché la Commissione, emanazione tedesca, affronti il problema di una revisione di rotta.

3.2.3 La congiuntura continentale

Anche in Europa la ripresa è misera e l’economia stenta a ripartire con un ritmo accettabile. A parte Grecia ed Italia, fanalini di coda dell’Unione, anche la Spagna è gravata da una disoccupazione enorme e da una crisi politica senza fine che si traduce nell’instabilità e nell’assenza di un Governo. L’economia francese batte i colpi, e non solo per l’ondata di scioperi scatenata dal jobs act in salsa transalpina. La Finlandia non ha ancora assorbito il fallimento della Nokia ed in generale i paesi nordici non presentano risultati brillanti. I paesi della diaspora sovietica hanno ben utilizzato i fondi ricevuti dall’Unione, migliorando gli standard interni, ma le economie non sono brillanti. Persino la Germania mostra le prime crepe, seppur poco percettibili, ma destinate
ad allargarsi. Molto hanno pesato per tutti le sanzioni, fortemente volute dagli Stati Uniti, contro la Russia di Putin a seguito della guerra in Ucraina. Le importazioni in Russia sono calate per l’Unione Europea complessivamente dell’11,7% tra il primo trimestre del 2015 e l’analogo del 2016; l’export tedesco verso la Russia del 9,4%, quello dei Paesi Bassi del 7,9%, quello dell’Italia del 13,3%; solo la Francia ha segnato un
dato positivo, + 20%[25].

3.2.4 Il sistema bancario

Le grandi ammalate dell’Europa sono le Banche, e non solo quelle italiane. Per esempio le banche tedesche sono esposte per crediti deteriorati (cioè ben difficilmente esigibili) per il 3,4% del totale, ma per questi il tasso di copertura è solo del 35%, i derivati attivi sul patrimonio netto imponibile sono l’8% ed i titoli tossici il 42,8%, le peggiori condizioni dell’Unione[26]. Per fare un raffronto, le banche italiane presentano una sofferenza sui crediti del 16,7%, ma su di un totale molto più basso, tant’è che il tasso di copertura sale al 45%, i derivati sono solo l’1,4% ed i titoli tossici il 14,2%. Le banche francesi presentano un tasso di crediti inesigibili del 4,3%, coperti al 51%, derivati per il 55% e titoli tossici per il 25%. Quelle spagnole crediti fasulli per il 7,1%, coperti al 46%, derivati per l’1,1% e titoli tossici per solo per il 2,7%. Infine le banche d’Irlanda, nazione di cui non si smette di decantare la meravigliosa rinascita grazie alle politiche di austerità, vanta crediti patacca per il 21,5%, coperti solo al 41%. Queste non brillanti prestazioni del sistema bancario, vengono dopo che esso ha usufruito di pesanti aiuti dal 2008 al 2014 da parte dei rispettivi paesi[27]. In particolare le banche
tedesche hanno ricevuto aiuti per 233 mld di €, pari all’8% del PIL, quelle irlandesi 59 mld pari a ben il 31,1 del PIL, quelle spagnole 52 per un 5%, quelle francesi nulla e l’Italia, invece, ha guadagnato 2 mld, pari allo 0,1%.

3.3 I paesi emergenti

Prima furono le “tigri asiatiche”, Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud, e poi i BRICS, ovverosia Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.
Hong Kong, uscita nel 1999 dall’affitto di un secolo concesso alla Gran Bretagna, è tornata a far parte della Cina, con una sorta di extraterritorialità che le ha garantito una buona parte di indipendenza economica; da allora ha conosciuto un ritmo di crescita del PIL abbastanza costante con una media annua di circa il 5%, un ritmo senza dubbio elevato, ma non travolgente, che raramente ha visto due cifre percentuali.
Singapore ha conosciuto invece nei primi tre lustri del terzo millennio una crescita davvero travolgente, con un tasso medio di crescita dal 1999 al 2013 del 12,7%. Poi anche questo paese ha rallentato la corsa: 4,1% nel 2013, 3,3% nel 2014 e 2,0% nel 2015.
Taiwan, dopo un’intensa fiammata tra il 2002 ed il 2005 (nel 2002 il tasso di crescita del PIL è stato addirittura del 30,2%), ha rallentato la corsa per viaggiare ora su ritmi modesti intorno al 2%, e sempre più gravita attorno all’orbita cinese.
Per la Corea del Sud si nutrivano grandi speranza, relative anche all’alto tasso di industrializzazione; ma dopo una crescita elevata tra il 2004 ed il 2008, la congiuntura ha rallentato ed ora il paese viaggia su tassi molto meno aggressivi intorno al 2%,; in compenso il tasso degli individui sotto la soglia di povertà è salito dal 4% del 2001 al 16,5% nel 2011.
Le famose “tigri” stanno quindi rallentando vistosamente e nessuno le considera il futuro motore pulsante dell’economia mondiale. Di Cina e Russia ci occupiamo a parte e quindi restano da analizzare gli altri tre paesi emergenti.
Il Brasile ha conosciuto fasi molto alterne di cui riportiamo alcuni dati: 2001 +18,6%, 2002 nessuna variazione, 2004 8,5%, 2005 2,9%, dal 2006 al 2008 un tasso medio del 9,9%, nel 2010 dopo un anno pessimo di nuovo l’8,1%, nel 2013 lo 0,9% e quindi il tracollo di una delle maggiori economia mondiali: 0,19 nel 2014 ed addirittura -3,8% nel 2015. l’altro il paese si sta dibattendo in una crisi politica senza precedenti, che senza
nulla voler togliere alla corruzione evidente delle amministrazioni Lula e Roussef, mostra con evidenza il tentativo degli Stati Uniti di riprendere il controllo su di esso.
Sembra che l’India prosegua la sua corsa, ma anche se nel 2015 ha sopravanzato per la seconda volta consecutiva i tassi di crescita della Cina (7,3% nel 2014 e 8,5% nel 2015), questi sono seppur rilevanti, al di sotto del periodo d’oro dal 2000 al 2011, che ha visto tassi costantemente al di sopra del 10%, se si eccettua la brusca battuta d’arresto del 2007 (-28,6%).
Infine il Sudafrica: ha conosciuto anch’esso dei buoni ritmi di crescita fino al 2007, poi dopo il tracollo del 2007 (-20,4%) la crescita è stata lenta, con fasi alterne e a volte recessive e quindi il PIL nel 2015 è ancora al di sotto di quello del 2006.

3.4 La Russia

Il paese, un tempo al centro dell’impero sovietico, mostra aspetti contraddittori. Da un lato l’affanno economico, conseguente alle sanzioni decretate da USA ed UE, si fa sempre più evidente: nel 2015 il PIL è decresciuto del 3,73%[28]. 19,2 milioni di persone vivono al di sotto dello stato di povertà, pari al 19,6% della popolazione e nel solo 2015 i poveri sono cresciuti del 19,3%. Sono lontani i tempi in cui l’economia cresceva
del 7,3% (2003) o dell’8,1% (2007); ma anche dopo il crollo del 2008 il paese cresceva a ritmi intorno al 4%.
Non hanno pesato solo le sanzioni, ma anche il calo del prezzo del petrolio, che forniva insieme al gas naturale, la maggiore risorsa delle esportazioni della Russia e quindi garantiva l’afflusso di valuta pregiata. Questa fonte di sicuro guadagno si è trovata nel mezzo, subendone i contraccolpi, di una guerra commerciale tra gli statunitensi ed i sauditi. Sta di fatto che la produzione industriale è crollata, come sopra ricordato, nel 2015 del 3,7% con conseguente aumento della disoccupazione. Nonostante ciò il supporto popolare a Putin resta stabile ai massimi livelli e questo perché il ruolo geopolitico che la Russia sta riconquistando incontestabilmente (recupero dei territori russofoni in Ucraina, presenza militare e strategica ineludibile in Siria con stabilizzazione dell’amico Assad e buoni rapporti con l’Iran e di recente anche con la Turchia) soddisfano il nazionalismo russo, che esce dalla lunga umiliazione subita dopo il crollo del regime sovietico: la Russia è oggi un paese in difficoltà economica, con buone prospettive di rimediarvi grazie alla nuova lievitazione del prezzo del greggio e
la necessità dell’Europa di recuperarvi spazi di mercato e di garantirsi l’afflusso dei prodotti energetici, ma che sta ricollocandosi in una posizione centrale nel consesso dei decisori degli assetti politici internazionali.

3.5 I paesi del terzo e quarto mondo

È evidente che questi paesi, se non va bene per il primo ed il secondo mondo, non possono aver beneficiato della situazione globale. Anzi, in molti casi, per essi la situazione è molto peggiorata. Come si sa la globalizzazione allarga le diseguaglianze all’interno dei paesi, ma anche il divario tra paese e paese tende a crescere. La seguente tabella ne rende conto[29]. Fatto 100 il PIL pro capite della Germania nel 2000 e nel 2013. la seconda colonna indica quale era il rapporto del paese indicato nella prima con i tedeschi nel 2000 e la terza quale risulta il rapporto nel 2013. Come si può constatare, mentre per i paesi cosiddetti industrializzati il rapporto è stabile, leggermente migliorato o di poco calato, per altri la situazione non è analoga; in alcuni casi si tratta, non solo di una mancata rincorsa al benessere, ma di un vero e proprio radicale impoverimento: basti citare i casi di Haiti, della Repubblica Centraficana e della Liberia. Singapore offre un dato poco significativo per il ridotto numero di abitanti. Il caso dell’Italia è un clamoroso esempio di perdita di passo nei confronti degli altri paesi del G-20.

Germania 1.00 1.00
Norvegia 1,18 1,40
Svezia 0,95 1,04
Francia 1,04 0,90
Gran Bretagna 0,97 0,94
Italia 0,94 0,75
Polonia 0,36 0,53
Croazia 0,25 0,45
Grecia 0,74 0,60
Hong Kong 1,09 1,33
Singapore 1,13 1,58
Taiwan 0,74 1,00
Corea del Sud 0,69 0,84
Brasile 0,32 0,31
Russia 0,33 0,46
India 0,09 0,10
Cina 0,15 0,25
Sudafrica 0,36 0,29
Angola 0,04 0,16
Bangladesh 0,07 0,05
Benin 0,04 0,04
Botswana 0,28 0,42
Burkina Faso 0,04 0,04
Burundi 0,03 0,02
Congo (ex Zaire) 0,03 0,01
Eritrea 0,03 0,03
Haiti 0,08 0,03
Kirghistan 0,12 0,06
Camerun 0,07 0,06
Mali 0,04 0,03
Myanmar 0,06 0,04
Mozambico 0,04 0,03
Repubblica Centrafricana 0,07 0,02
Liberia 0,05 0,02
Somalia 0,03 0,02
Zimbabwe 0,11 0,02

4 La globalizzazione

La globalizzazione ha perso molto smalto quale mito del secolo. È pur vero che essa come mercato globale senza frontiere non è mai veramente esistita[30]. Questa frontiera, che sta a fondamento principale delle teorie neoliberiste, sembra infrangersi sulla nascita di sempre nuove entità nazionali, sulla rinascente pulsione alle identità etniche e linguistiche, sull’ergersi di limiti doganali che avrebbero dovuto invece affievolirsi, sul riproporsi di autonomie viste come protezione delle basi economiche di un territorio. Ma è proprio così?

4.1 L’estensione della miseria

La forza contrattuale dei lavoratori, anche solo parzialmente qualificati, frana a fronte di un’offerta di lavoro facilmente impiegabile nei nuovi processi di produzione, anche in assenza di un’adeguata preparazione.
Cala quindi la necessità di trovare nei luoghi dove si intende esportare un impianto, quella manodopera adeguata, un tempo necessaria. L’esercito di riserva si allarga a dismisura e quella che doveva essere la fase della concorrenza tra gli imprenditori, diviene una spietata lotta per la sopravvivenza tra proletariati locali, rendendo determinante nel conflitto tra capitale e lavoro il ricatto occupazionale[31]. Gli effetti sono stati quelli di un’internazionalizzazione delle miserie, mentre le ricchezze si sono concentrate in mani sempre più ristrette.
Alcuni dati esemplificheranno la situazione. Nel 2015 il 45,2% della ricchezza mondiale era appannaggio dello 0.7% della popolazione mondiale, mentre il 71% possedeva solo il 3%. I superricchi risiedono in gran parte negli Stati Uniti d’America (46%), ma il loro totale è calato di 2.405 unità rispetto al 2014 (6,66%), ma sono aumentati negli USA (903), in Cina (152), nel Regno Unito (18) e ad Honk Kong (6) e calati altrove, in
particolare in Giappone (-681) e Francia (-631). Oltre il 50% dei poveri si concentra in India, Africa e Cina[32].
Nei paesi industrializzati la classe media, volano vero del mercato, arranca e rischia di perdere molti posti di lavoro per il dilagare dei processi di informatizzazione di televendita e la scomparsa della piccola distribuzione; nelle statistiche in circolazione il fatto è occultato sia dalla imprecisione e dalle differenze con cui essa viene
definita nelle varie ricerche, sia dalla sua reale consistente crescita in Cina dove è comparsa solo di recente. Ma negli altri paesi emergenti essa rischia, a causa della crisi, di essere ricacciata al di sotto del reddito minimo che la definisce.

4.2 La concentrazione del potere

Dal punto di vista degli assetti economici e politici, la globalizzazione ha comportato l’esatto contrario della diffusione della partecipazione dei cittadini alla gestione delle risorse. Della nascita di autentici monopoli e quindi della riduzione della tanto decantata concorrenza abbiamo già detto[33]. Questo dato economico si traduce in politica in una drastica riduzione delle regole democratiche. I finanzieri che controllano in pochi
l’assetto economico mondiale necessitano di piegare i popoli alle loro esigenze di profitto e per far questo mettono in atto strategie di controllo sociale, su cui sarà opportuno ritornare. Il primo passo però è quello di controllare la politica degli Stati nei cui territori si sviluppano i loro interessi. È così che l’economia ha preso il comando della politica, e una serie di istituzioni internazionali detta le regole cui i governi devono attenersi: Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, World Trade Organization, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico; organismi che non rispondono ad alcun mandato elettorale, ma soggiacciono alla volontà delle grandi banche d’affari, quali Morgan Stanley, Deutsche Bank e Goldman Sachs.
Sempre più gli esecutivi dei singoli paesi sono chiamati a portare in esecuzione progetti provenienti da quelle centrali, e per far ciò devono disporre di poteri tali da essere al riparo dal dissenso delle popolazioni; è questa l’origine dei progetti di revisione costituzionale in fieri in molte nazioni. Siamo di fronte ad un vero colpo di
Stato disarmato delle istituzioni finanziarie[34].

4.3 Il frazionamento dei popoli

Il risorgere di sciovinismi nazionalistici, la deflagrazione in mille rivoli di unità nazionali, la frammentazione delle entità multi linguistiche (anche se solo derivanti da inflessioni dialettali), la riscoperta di identità scomparse sotto secoli di polvere, appaiono in contraddizione col concetto stesso di “globalizzazione”; in realtà ne sono il corollario, la necessaria conseguenza. La rinascita dei particolarismi etnici risponde, infatti,
ad un affinamento dei controlli sui popoli; i conflitti, le incomprensioni, le distanze contribuiscono a far calare il potere delle micronazioni, aprendo la strada agli investimenti esteri ed alla penetrazione della finanza internazionale. Dopo la riconquista dell’autonomia, le repubbliche baltiche (Lituania, Lettonia ed Estonia), prive di potere politico e con scarse risorse finanziarie, sono state facile preda degli investitori esteri che le hanno praticamente acquistate a prezzi stracciati. In poche parole più le popolazioni sono divise, più sono controllabili e indifese; Dinamiche simili si sono sviluppate per i Balcani occidentali e per tutti gli Stati già facenti parte della ex Jugoslavia. L’assimilazione della Slovenia e della Croazia al sistema produttivo tedesco, iniziata negli anni ’90 e primo obiettivo della Germania nella sua opera di dissoluzione della Jugoslavia, è stata rapida e può dirsi ormai definitivamente compiuta. E’ invece in atto quella dell’Albania, della Bosnia, della Macedonia, del Montenegro e della Serbia. Questi paesi sono stati largamente utilizzati per destinarvi una fase
del limitato decentramento produttivo tedesco, finalizzato a crearvi dei presidi, impossessandosi della gestione delle strutture logistiche (gli aeroporti, ad esempio) tutti realizzati a gestione tedesca e al tempo stesso come serbatoio per alimentare il mercato del lavoro tedesco con un grande esercito di riserva. Ora, in vista della loro
graduale adesione all’UE, stanno vivendo un processo di uniformazione ordinamentale con adeguamenti progressivi ai sistemi di governo tedeschi, come prezzo da pagare per l’ingresso nell’Unione. Mentre l’assorbimento di manodopera da parte del mercato tedesco è cessata e si è passati a una politica di respingimenti, si stà operando per fare dell’area un’appendice del mercato tedesco. La politica tedesca verso l’area centrale dell’Europa (Boemia, Slovacchia, Ungheria e Polonia) si differenzia paese per paese, ma il blocco imposto dal confronto con Mosca sull’Ucraina ha fino ad ora impedito l’attuazione di una politica economica coerente ed omogenea rispetto a questa direttrice. Non resta che rilevare che il ruolo complessivo dell’Est Europa nella strategia di espansione della grande Germania è passato da quello di serbatoio di manodopera a area di consumo privilegiato per le merci tedesche e di dominio del capitale finanziario di provenienza e localizzazione tedesca. Sul piato di una politica economica e finanziaria generale si rileva che più le popolazioni sono divise, più sono controllabili e indifese; l’autonomia è una chimera che, lungi dal garantire l’autodeterminazione, rende le nazioni più agevolmente etero dirette e preda degli appetiti del capitale
finanziario.

5 Gli esperimenti sociali

Le frontiere nazionali non sono il solo mezzo per il controllo dei popoli. I cittadini di tutti i paesi vengono sottoposti a continui esperimenti che li assuefacciano ad essere oggetto di continue verifiche e li rendano meno consapevoli dei propri diritti. Per esempio, i controlli negli aeroporti sono spesso generati da regole prive di una reale giustificazione e talvolta nascono dal semplice arbitrio degli addetti, in gran parte dipendenti da ditte
private; è impossibile portare un temperino all’interno dell’aereo, ma poi in classe business i pasti vengono serviti con autentici coltelli. Anche l’ondata del terrorismo islamico giustifica, rende plausibile, un controllo capillare dei movimenti, delle interlocuzioni, delle abitudini di ognuno di noi, che viene accettato in virtù di una
dilagante sindrome securitaria; non si riflette sul fatto che ben poco questi controlli sono serviti ad impedire le azioni per le quali si sarebbero rese necessarie.

5.1 Le catastrofi

Non tutti i disastri vengono per nuocere. È quanto teorizza, con ampia documentazione Naomi Klein nel suo saggio Shock Economy[35]. La scuola di Chicago, centro motore delle teorie monetariste assieme al New York Times, hanno fatte proprie le risultanze degli esperimenti, supportati dalla CIA, dal neuropsichiatra inglese Cameron eseguiti a Montreal. Lo scopo era quello di dimostrare che un forte evento traumatico predisponeva gli individui a subire supinamente una ristrutturazione della propria personalità, grazie alla tabula rasa indotta nel loro cervello dallo shock. I neoliberisti hanno sfruttato queste idee, estendendole a gruppi di popolazione o ad intere popolazione; la strategia risiede nel cogliere occasioni derivanti da eventi naturali (uragano Katrina del 2005 che distrusse New Orleans) e da clamorosi attentati (11 settembre 2011, attentato alle torri gemelle di New York) o addirittura provocandoli (11 settembre 1973, golpe di Pinochet in Cile). Tutte queste sono state utilizzate efficacemente per ristrutturare i rapporti sociali ed economici dell’umanità in esse coinvolti.

5.2 Le guerre

Nell’ottica sopra esposta non appare più strano che l’inizio del ventunesimo secolo sia percorso da un numero incredibile di conflitti e che in tutti questi gli Stati Uniti d’America svolgano un ruolo di primo piano.
Sicuramente tutte queste guerre rivestono un’importanza strategica perché si svolgono in luoghi dove le materie prime, specie energetiche, abbondano, oppure nei luoghi in cui esse devono transitare per essere consumate dai paesi ricchi; tant’è che quei conflitti che non rispondono a questa caratteristiche proseguono dimenticati fuori
dai fari della cronaca. Anche se la fase di ricostruzione dei territori interessati secondo le esigenze della finanza non è ancora iniziata e per ora si assiste soltanto ad una completa distruzione delle radici culturali delle popolazioni interessate (con la conseguente reazione fondamentalista fatalmente volta ad aspirare al ritorno di
un passato lontano) non vi è dubbio che questo dilagare degli eserciti, con il loro portato di annichilimento delle basi sociali prima esistenti, porterà i suoi frutti nel futuro. Per il momento masse imponenti di individui lasciano i loro paesi di origine per affluire nei paesi “ricchi”, nei quali assorbiranno costumi e modalità di interazione sociale per loro nuove. Non è un caso che l’opposizione all’integrazione trovi spazio invece nelle ondate migratorie meno recenti, spesso nei cittadini di seconda generazione, che spinti ai margini del benessere, vedono i limiti della società dei consumi per essi maligna, mentre i nuovi arrivati aspirano a goderne gli agognati benefici.

5.3 Il controllo quotidiano

I veleni del nuovo regime economico, ormai dominante da tre decenni, nella vita associata dei cittadini sono abbastanza alla luce del sole. Più in profondità, più lentamente, con effetti più duraturi agiscono giornalmente, ora per ora, i cambiamenti indotti nei comportamenti di ciascuno di noi; i loro effetti si misurano nel tempo, ma sono devastanti per le relazioni sociali e mutano la mentalità dei singoli e di conserva quella collettiva. Gli strumenti sono quelli al cui utilizzo siamo assuefatti, senza renderci conto di quanto siano incisivi e nocivi. Non è, quindi, solo il controllo cui siamo sottoposti, in modo tale che ogni attimo della nostra vita, ogni luogo dove ci rechiamo, qualsiasi comunicazione con altri che intraprendiamo vengono monitorati, registrati ed analizzati. Ancora più efficaci sono gli strumenti che siamo continuamente indotti ad utilizzare a condizionare dal nostro interno, senza consapevolezza, il nostro modo di agire, il nostro modo di relazionarci con gli altri. Strumenti informatici, sindrome securitaria, fine dei luoghi di aggregazione sociale, sono tutti fattori che concorrono a far sì che gli individui si ritraggano sempre più nel proprio privato.

6 La strategia del privato

Troppo coerente negli effetti coll’idea di società prefigurata dall’assetto economico delineato dalla finanza incontrollata, ma controllante, questo ritorno al privato che ormai va avanti da oltre trent’anni, per poter credere che esso non risponda ad alcuna strategia e che sia solo frutto del caso e dell’evolversi spontaneo degli avvenimenti. Ad esso hanno contribuito il mito della fine delle ideologie e le sconfitte subite nel corso degli sessanta e settanta dai moti politici e sociali; non poco su questa deriva ha pesato la diffusione degli stupefacenti, che invece di essere, come certa propaganda di movimenti nati sull’altra sponda del’Atlantico voleva far credere, strumento di autoaffermazione e di liberazione dai condizionamenti imposti dalle regole
della società borghese, si sono rivelati potenti fattori di ripiegamento nel proprio individuale e solipsistico. Il “proprio particolare” guicciardiniano ha scalzato dalle fondamenta la visione machiavellica dell’impegno politico volto alla costruzione di una società ideale.

6.1 La solitudine informatica

È fatto accertato, su cui è opportuno dilungarsi poco, che il dilagare degli strumenti informatici (PC, smartphone, tablet, whatsapp) contribuiscono al ripiegamento di ognuno all’interno del loro utilizzo, tagliando fuori gran parte della vita sociale. È un modo facile e immediato, necessitante scarso impegno, di mantenere contatti con gli altri, per cui è facile illudersi di conservare un’intensa vita di relazione. In realtà i rapporti umani si impoveriscono, si riducono a veloci battute, a messaggi futili, a interazioni tanto frequenti quanto prive di reali contenuti. Il confronto reale, spesso duro ma che scava nel merito dei problemi, nell’acutezza dei sentimenti vissuti e non sbandierati, viene eluso; ciò rende l’individuo più solo di fronte ai propri problemi
senza reali confronti autenticamente amicali.

6.2 “I like”, ma stammi lontano

Quanto detto è ben esemplificato dal fenomeno dei social network. Il successo di un profilo si misura dal numero delle amicizie richieste, e mai un termine fu più svilito di questo e ridotto a puro pretesto. La maggior parte di quanto postato dagli aderenti è una congerie infinita di eventi privati il cui valore sociale è nullo: la banalità del quotidiano assurge per costoro per evento rilevante e degno di essere condiviso. Gli “I like” si moltiplicano, ma questa forma di apprezzamento è priva di qualsiasi contenuto concreto e si consuma in una distanza infinita ed incolmabile tra i soggetti che se la scambiano: l’antitesi di una vera e propria relazione umana. Chiusi nel bunker del proprio io, incapaci di una autentica comunicazione affettiva, i soggetti riempiono
la propria solitudine con conoscenze virtuali prive di calore emotivo. Nell’esplosione esponenziale delle comunicazioni si perde il senso della vita reale, della socialità: l’entropia comunicativa coincide con l’assenza di qualsiasi contenuto. Un tempo le relazioni tra individui si intrecciavano nei luoghi di incontro reali: le piazze, i quartieri, le parrocchie, i circoli culturali, le case del popolo, i sindacati, i partiti, le associazioni; non si comunicava in tempo reale tra un luogo del globo ad un altro agli antipodi, ma si facevano incontri che duravano una vita; non si condivideva un pensiero banale, scritto frettolosamente in poche righe, ma si costruivano insieme ai propri simili vicini nello spazio, delle idee meditate e confrontate, delle autentiche visioni del mondo.

6.3 La fine dell’impegno sociale

Tutto quanto sopra detto è ben conosciuto e non meriterebbe di essere ricordato, se non fosse per le conseguenze che comporta ai fini del ragionamento intrapreso. Il riflusso verso una dimensione individuale ha segnato la fine di un’epoca, quello dell’impegno sociale collettivo. Ovviamente altre cause hanno concorso a produrre questo effetto: la sconfitta delle lotte degli anni a cavallo tra il 1960 ed il 1970, il crollo del mito sovietico e di quello cinese, le nuove forme di colonialismo puramente economico che hanno ricacciato indietro il terzomondismo, il rigurgito dei localismi, etc. Sta di fatto che si è smesso di credere nelle prospettive di un riscatto complessivo per finire col ritenere che l’unica via sia il successo individuale, il perseguimento della
felicità del singolo, costi quello che costi. Le conseguenze sono profonde sia dal punto di vista politico, che da quello economico.

7 Crisi della politica

I riflessi più eclatanti si sono registrati nella sfera politica. Negli ultimi trenta anni in quasi tutti i paesi sono nati nuovi partiti, spesso legati ad aspetti parziali o locali, mentre partiti di lunga tradizione sono scomparsi. E sono venuti cambiando i connotati di molti partiti che sembrano aver mantenuto il proprio ancoraggio alla loro storia. Questo anche negli USA, dove il partito repubblicano ha dovuto nominare quale candidato alla Casa Bianca un personaggio estraneo, che si è catapultato in esso, suscitando l’avversione dell’establishment: Donald Trump che, appresa la lezione di quei milionari che hanno nelle tornate precedenti cercato di fare la scalata quale terzo incomodo (Ross Perot nel 1992 e 1996), ha deciso di tentare la corsa dall’interno.
Da lungo tempo i partiti statunitensi hanno assunto la veste di aggregazioni di lobby e sono privi di un proprio connotato ideale. Nella vecchia Europa, invece, l’ondata di disimpegno dall’agone politico sta trasformando gli elettori in una massa fluida che segue gli impulsi del momento, la voce che più solletica il loro immediato sentire. I partiti tradizionali di sinistra si sono liquefatti, perché la loro vita si basava sul concetto di “militanza”, cioè di un impegno ideale fatto di comuni prospettive e di ideali condivisi, in virtù dei quali si sviluppava un impegno spesso totalizzante; è questa forma partito che è stata messa in crisi dal disimpegno individualistico. La protesta per i problemi che la crisi solleva ai ceti medi e alle classi più povere, non trova voce in una visione alternativa della società, ma si incanala in manifestazioni di dissenso parziali e puramente legate alla cronaca. Tipico esempio può essere quanto successo in Spagna, dove il neonato movimento “Podemos”, generato dalla protesta degli “indignados”, ha avuto una battuta di arresto nelle ultime elezioni del 26 giugno 2016; questo perché ha fatto un cartello unico col partito “Izquierda Unida” e ha ricevuto voti da sinistra meno di quanti ne abbia perso a destra; e ciò nonostante il leader di Podemos non abbia mai fatto mistero delle proprie idee di sinistra. I nuovi partiti nascono su singoli problemi (immigrati, spinte autonomistiche, antieuropeismo, corruzione, etc.) e sfugge agli elettori il fatto che i singoli problemi non trovano soluzione se non all’interno di un mutato contesto.

7.1 I dolori della socialdemocrazia

Nel 1959, a Bad Gotesberg, la socialdemocrazia tedesca fece un ulteriore passo in avanti nello svincolarsi dalla pur tiepida ispirazione marxista. Nel 1994 i laburisti inglesi, guidati da Tony Blair, imboccarono la strada fumosa di una “terza via”. Questi passi hanno portato le socialdemocrazie europee a divenire i più coerenti difensori delle teorie neoliberiste, i più determinati esecutori dei dettami delle ricette imposte dalla scuola di Chicago. Non è un caso che in Italia il vecchio PCI, già molto lontano dalla Terza Internazionale, sia divenuto progressivamente PDS, poi DS ed infine PD, per ricadere nelle mani di una nuova leva democristiana, molto meno incline al compromesso di quella storica. È pure consequenziale il fatto che il “socialista” Hollande in Francia si faccia duro sostenitore di una revisione delle regole del mercato del lavoro di stampo reazionario.
Anche il partito di “sinistra” Syriza in Grecia è divenuto paladino, con effimere proteste, dei dettati della cosiddetta “Troika”, il rullo compressore del neoliberismo. E, nonostante tutto ciò, la socialdemocrazia in Europa arretra irrimediabilmente ed in Germania è costretta ad un ruolo di vassallaggio della Premier. Incuranti di questi fatti, non ammaestrati dalla duplice vittoria dei conservatori di Cameron, miopi a tal punto da non
capire che il blairismo ha minato le basi elettorali di sinistra del partito, i dirigenti del partito laburista inglese hanno eretto muri contro un pallido socialdemocratico come Corbyn, che ha in parte rivitalizzato la base del partito, ed ora cercano in tutti i modi di scalzarlo dal luogo in cui gli aderenti lo hanno collocato[36].

7.2 La fine della democrazia borghese

Non è solo la sinistra più o meno moderata e neppure quella che di sinistra non merita più l’appellativo a soffrire della situazione venutasi a creare. Non basta all’oligarchia al potere che gli elettori abbiano perso il senso di un vero cambiamento di sistema (per via riformista ed ancor più per via rivoluzionaria), perché talvolta l’elettorato risponde in modo inatteso alle sollecitazioni e la protesta si incanala per rivoli che, pur non contribuendo ad un vero mutamento di assetto economico e sociale, si rivelano contrari ai bisogni dei potenti e quindi meno malleabili e di più difficile riconduzione alle regole loro più congeniali. È il caso dei movimenti xenofobi in crescita in molti paesi: Ungheria, Francia, Austria, Polonia, Boemia, la stessa Germania. Anche il caso del referendum sulla Brexit ha rivelato comportamenti non controllabili[37]. Per rendere gli esecutivi più
controllabili dal fluttuare dell’elettorato si studiano sistemi elettorali che sacrificano la rappresentatività alla governabilità. Già la parola “governabilità” è molto eloquente e nasconde, comunque, due problemi: il primo è che in realtà mai la rappresentatività ha impedito la formazione dei governi; il secondo è che l’accento su di essa è un chiaro sintomo del decadere delle regole democratiche. In Italia, negli ultimi anni si è molto fatto riferimento al sistema elettorale spagnolo, propagandato come risolutivo del problema della governabilità: è quasi un anno e sono già state fatte due tornate elettorali ed il Governo in Spagna non si è potuto formare. È facile prevedere che sarà necessario un passo ulteriore verso il peso minore dei voti, visto che se il sistema
bipartitico si complica è necessaria una più drastica riduzione delle minoranze, anche se consistenti, esigenza ben rispettata nella nuova legge elettorale italiana.

7.3 Governi come gendarmi del territorio

Avere governi meno controllabili dai votanti non basta ed è così che i poteri reali si stanno spostando verso organismi sovranazionali che non devono mai rispondere agli elettori[38]. Il processo data dalla fine della seconda guerra mondiale, con la creazione del Fondo Monetario Internazionale, avvenuta alla conferenza di Bretton Woods; e di fatto il FMI è stato a lungo uno strumento agile per imporre le proprie volontà di politica
economica ai paesi terzi da parte degli Stati Uniti d’America. Questa autentica prevaricazione non aveva però mai riguardato i paesi industrializzati fino agli anni novanta. Con gli accordi di Maastricht l’Unione Europea nel 1992 si dotava degli strumenti per controllare le politiche economiche dei paesi aderenti[39]; non solo
venivano fissati dei parametri, rigidamente neoliberisti, cui le singole economie dovevano sottostare, ma si delegava ad organismi sovranazionali, al di fuori di un qualsiasi controllo elettorale, il potere di imporre il loro rispetto e di sanzionare chi non vi rientrava o concedere ad alcuni paesi, in casi da loro stessi giudicati adeguati,
l’eventuale non osservanza temporanea. Da quel momento l’andamento economico di un paese è uscito dal controllo dell’esecutivo, privandolo pertanto di un potere essenziale per la gestione del proprio territorio. I governi sono stati ridotti a meri esecutori di ricette economiche decise sopra la loro testa, e quindi a garantire
alle istituzioni comunitarie il rispetto di quanto deciso da esse. Gli esecutivi devono inoltre vigilare sul controllo dell’eventuale dissenso sociale, facendo in modo che le popolazioni accettino come fatalmente inevitabili gli effetti che quelle direttive hanno sul loro benessere quotidiano.

8 La produzione del consenso

La necessità di avere una popolazione inconsapevole dei propri diritti, pronta a “soffrire
i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna”[40] viene presentata come scientificamente ineludibile e si afferma che condurrà comunque ad un futuro migliore[41]. Mantenere il controllo dell’opinione pubblica, seppure la soglia del senso critico, si sia notevolmente abbassata negli ultimi decenni, necessità di un apparto mediatico molto vasto e ramificato.

8.1 La macchina comunicativa

L’infeudamento della stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione è lo strumento principe del condizionamento delle masse. In realtà è sufficiente il controllo di quelli che McLuhan chiamava i media “caldi”[42], ovverosia quelli a bassa interazione, in cui il ricevente subisce l’informazione. Non mancano neppure le incursioni nei media “freddi”, a forte interlocuzione, ma servono più a saggiare le opinioni che corrono,
piuttosto che a formarle; infatti in essi le notizie che circolano sono spesso infondate, o poco documentate, e per di più la quantità di individui che li frequenta rappresenta tuttora una minima parte della popolazione, anche nei paesi industrializzati. I primi, invece, incidono sulla fascia di cittadini per formazione ed inclinazione meno
propensi ad informarsi. E d’altra parte il gusto della ricerca, come detto, e dell’approfondimento in proprio, tramite il confronto delle fonti e la loro verifica, è una merce sempre più rara. Proprio questa privazione della curiosità, che è l’anima del pensiero critico, viene perseguita e coltivata con cura nei sistemi formativi.

8.2 Il nodo dell’istruzione

Nel 2000 la conferenza di Lisbona fissava come obiettivo per i paesi dell’Unione Europea quello ambizioso della “società della conoscenza”[43], da raggiungere nel 2010; mai prima di allora i sistemi scolastici hanno subito un degrado altrettanto rapido. Più si parla di “merito”, più i livelli di preparazione decrescono. E ciò è funzionale al controllo delle coscienze, sempre più vulnerabile ai messaggi semplificati e sempre meno in grado di semplicemente prendere in considerazione la complessità dei problemi. Ne discende un danno per la ricerca, che dovrebbe essere la leva di un rinnovato sviluppo[44]. Dell’Italia si è già detto[45]; il sistema anglosassone è accertato da tempo essere un sistema a forte discriminazione censitaria, che nei livelli generali
sforna generazioni deprivate culturalmente; in Francia è in discussione una riforma della scuola[46], che dovrebbe rendere lo studio “meno noioso”, e questo tema dell’appetibilità, variamente cavalcato, non tiene conto del fatto che, la formazione degli adolescenti è comunque un impegno per il loro futuro e nasconde una faciloneria poco
promettente per le loro capacità critiche di comprensione della realtà; in Germania nel 2004 la durata del Gymnasium è stata ridotta di un anno[47], ma i risultati non sono stati soddisfacenti, e si consideri che quello tedesco è un sistema duale, che già a dieci anni divide gli alunni secondo le loro “abilità”, ed il Gymnasium è la scuola di élite. L’abbassamento dei livelli culturali delle popolazioni appare chiaramente un obiettivo perseguito da tutti i governi, perché una persona dotata di un minor bagaglio culturale è più facilmente manipolabile ed è soprattutto un buon consumatore, ben indottrinabile dai messaggi pubblicitari. Nel complesso si tende a sostituire un modello formativo con uno prevalentemente informativo, nella consapevolezza che un accumulo di una congerie incoerente di informazioni non fa cultura e nel tempo inevitabilmente decade.

8.3 Essere o apparire?

L’assenza di una struttura culturale, che può costituire un’identità a chi la possiede, lascia il posto alla costituzione di un’immagine individuale fatta di sole caratteristiche che il soggetto si costruisce. È così che la costruzione di un io fittizio, fatta apposta per presentarsi agli altri, prende il posto di una propria solida base identitaria, basata sulle proprie convinzioni, i propri gusti, il proprio carattere. Un io-immagine trova semplice
confrontarsi con individui simili, e l’apparire diviene il modo maturale di essere; si finisce in tal modo a identificarsi con coloro che meglio sono riusciti nell’operazione, a delegare a loro il proprio futuro, a mutare il proprio superficiale sentire in conformità del leader del momento.

9 La produzione delle merci

I dati della crisi sono impietosi. Gli occupati nell’industria sono calati dal 2000 al 2014 da 18,5 milioni a 13,4 negli Stati Uniti d’America (-27,6%), da 4,7 a 3,4 nel Regno Unito (-27,7%), da 9,3 a 8,3 in Germania (-10,8%) e da 5,3 a 4,4 in Italia (.17%)[48]. L’introduzione di nuove macchine labour saving ha certamente pesato su questi dati, ma è indubbio che vi è stato anche un forte calo dell’attività industriale nei paesi occidentali, mentre l’occupazione contemporaneamente cresce in Brasile (22,3%) e in Cina (30%). Il fulcro dei centri produttivi delle merci si è spostato altrove, ma questa tendenza segna il passo negli ultimi due anni. Sta di fatto che è la frontiera interna del lavoro che sta cambiando pelle nei paesi di vecchia industrializzazione.

9.1 L’innovazione sospirata

2.0, 3.0, 4.0, 5.0, … i numeri dell’avanzata tecnologica si succedono inesorabili ed al loro miraggio si uniformano tutte le attività umane. Persino l’istruzione, definita un tempo come il luogo della lentezza e della riflessione, rincorre la modernità acriticamente. Nel mondo della produzione l’inarrestabile progredire della tecnologia, come sempre in passato, comporta la cancellazione di molti posti di lavoro, e senza una
redistribuzione dei tempi delle attività la crisi dei mercati interni diviene ineludibile. Un sistema che miri solo ai tagli di spesa, quelli dovuti ai salari, non ha respiro. Questa è la consapevolezza che dovrebbe guidare anche i molto ricchi che rischiano di doversi isolare nei loro ritiri dorati, (come avviene in molti paesi dell’America Latina) ma anche di veder crollare il castello di carta su cui basano le proprie fortune. Ma non sono i loro
destini a destare le nostre preoccupazioni, ma le masse che soffrono, per ora solo loro, tutto il peso della crisi.

9.2 L’innovazione reale

La realtà è un po’ meno trionfale. Prendiamo i due paesi più avanzati nell’innovazione tecnologica: Stati Uniti d’America e Germania; la loro situazione è la seguente[49]. Per quanto concerne la digitalizzazione della logistica, della catena di montaggio e dei magazzini, gli imprenditori tedeschi dichiarano di averla realizzata il 19%, di completarla entro 1 o 2 anni il 46%, di averla pianificata entro 5 anni il 22% e di non averla neppure
pianificata il 14%. Negli USA la situazione è peggiore e le percentuali sono rispettivamente del 10%, 26%, 30% e 34 %. Per la gestione mobile e in tempo reale delle prestazioni in Germania le percentuali sono dell’11%, 48% , 29% e 17%, mentre per gli USA del 14%, 28%, 29% e 32%; per quanto concerne l’officina intelligente e
controllo della produzione in Germania abbiamo il 13%, 47%, 27 e 20%, e negli USA il 10%, 26%, 29% e 36%; infine per il fondamentale sistema di assistenza con robot ed automi in Germania le percentuali sono il 18%, 34%, 27% e 21%, mentre negli USA l’8%, 20%, 24% e 48%. Riassumiamo in tabella.

realizzata entro 2 anni entro 5 anni non programmato
settore Germania-USA Germania-USA Germania-USA Germania-USA
Logistica. magazzini 19% – 10% 46% – 26% 22% – 30% 14% – 34%
Gestione prestazioni 11% – 14%  48% – 28% 29% – 29% 17% – 32%
Officina intelligente 13% – 10% 47% – 26% 27% – 29% 20% – 36%
Automazione  18% – 8% 34% – 20%  27% – 24% 21% – 48%

Significativo è l’ultimo dato percentuale degli imprenditori che non pensano neppure di iniziare l’innesto delle tecnologie informatiche avanzate nelle loro aziende e metà degli imprenditori statunitensi non pensano di dotarsi di robot. Non è un caso che vi sia un forte impegno dell’industria italiana dei robot per crescere nel mercato di oltre oceano, per il quale siamo il terzo fornitore dopo Giappone e Germania[50].

9.3 Luoghi e classe operaia

Già nel 2011 avevamo segnalato i limiti della delocalizzazione. In effetti, per impiantare delle attività produttive in un luogo non necessitano solo gli spazi; occorrono infrastrutture, vie di comunicazione, manodopera adeguata, impianti industriali già esistenti di livello tecnologico non eccessivamente inferiori, etc.
[…]. Vaste aree dell’Africa, ad esempio, a tutt’oggi non si prestano assolutamente ad insediamenti produttivi, se non altro per l’assoluta impossibilità di veicolare merci in ingresso ed in uscita ad un ritmo soddisfacente. E come per l’Africa il discorso vale per oltre la metà della superficie del globo[..]: va aggiunto che le aree di instabilità politica e le zone di guerra si sono da allora drammaticamente allargate, così che le zone adatte a delocalizzare le produzioni si sono ridotte all’America del Nord, parte dell’America del Sud, zone dell’Asia e alla vecchia Europa allargata ai paesi del defunto impero sovietico[51]. Da allora, infatti, ha preso corpo il fenomeno del reshoring, ovverosia il rientro nei paesi di origine di aziende che avevano precedentemente de localizzato. Sono 326 le aziende statunitense che sono tornate a far base nel loro territorio, 121 quelle italiane (numero che colloca l’Italia ai vertici del fenomeno, percentualmente s’intende), 68 quelle britanniche e 63 quelle tedesche, per un totale mondiale di 730 casi[52]. Il fenomeno è ora oggetto di studi approfonditi.

9.4 La produzione virtuale

Risulta comunque evidente che la produzione manifatturiera è in decadenza e calano gli investimenti nel settore; le prospettive di profitto sono più allettanti e più rapidamente ottenibili nel settore finanziario. La finanza, però, non produce cibo o merci utili alla vita quotidiana e questo è uno dei colli di bottiglia cui l’economia globale va incontro. Nel recente passato, cioè dall’ultimo scorcio del secolo passato, le grosse fortune, improvvise e tumultuose sono quelle legate alla produzione immateriale, virtuale. Coloro che hanno inventato Google (Larry Page e Sergey Brin), Facebook (Mark Zuckeberg), Flogg (Ben Pasternak), Snapchat (Garrett Gee), etc., sono diventati ricchissimi nel volgere di pochissimi anni. È tutta un’economia che gira intorno alla pubblicità, ma non produce nulla di concreto. Anche questo è un gigantesco castello di carte che rischia di franare col prossimo default globalizzato.

9.5 Le Startup

Il termine è entrato di moda. Inizialmente riguardava le sole nuove aziende legate all’informatica, ma il significato è stato esteso anche a quelle manifatturiere nuove e con elevata innovazione tecnologica. Facciamo alcuni esempi. Quelle che operano nel settore turistico sono complessivamente in crescita di fatturato (nel primo trimestre del 2016 circa 1,5 miliardi), ma in Italia circa la metà fattura meno di 10.000 €[53]. Le startup operano anche nel settore produttivo vero e proprio: la Helium One ha recentemente scoperto in Tanzania (sarebbe meglio dire che ha portato a termine ricerche di altri degli anni cinquanta, leggendo i dati allora raccolti e che non erano stati compresi fino in fondo) un enorme giacimento di Elio, gas nobile che è utilizzato
in vari settori ad alta tecnologia, quali ricerca atomica, sistemi di anestesia negli ospedali, macchine per la risonanza magnetica, magneti superconduttori, produzione di microchip, gascromatografi[54]. Le startup godono di particolari disposizioni legislative che ne facilitano la nascita ed in Italia hanno sgravi fiscali e finanziamenti agevolati, anche se la legislazione non le garantisce fino in fondo[55]. Nel paese se ne contano ben 3.850, che impiegano però meno di 5 addetti ciascuna, si rivolgono prevalentemente al mercato estero e chiedono maggiori incentivi e più crediti agevolati; su di essi il sistema economico fonda molte speranze[56]. Il problema che molte
di esse sono effimere e l’80% chiude nell’arco di tre anni[57]; si tratta quindi di un ulteriore mito della modernità e dell’innovazione.

9.6 Le app

Gli ingenti, quanto improvvisi, guadagni sono però legati al proliferare delle “app” che inondano gli smartphone, da quelle più utili a quelle totalmente demenziali. Giovani e meno giovani scambiano il proprio cellulare per un eterno giocattolo ed è così che l’intrattenimento digitale diviene fonte di effimere applicazioni che arricchiscono solo chi le progetta, per poi scomparire precocemente nel nulla. È un mercato drogato, che, se
può rappresentare un’opportunità per qualche individuo intraprendente, ben difficilmente può costituire la base per uno sviluppo economico. Anche se molto si scommette sulla crescita infinita delle app, recentemente sono stati avanzati dubbi circa il loro futuro, in quanto il numero dei download sta retrocedendo e gli utenti tendono a
affezionarsi quelle che hanno storicamente utilizzato. Esse rappresentano con ogni probabilità l’ennesima bolla high-tech[58].

10 Prospettive

Nell’analisi del 2011, già citata, si cercava di individuare le possibili via d’uscita del capitalismo dalla crisi nelle cui spirali era stretto. L’auspicio era che le classi dominanti intuissero il pericolo che incombeva anche su di loro e cambiassero paradigma di riferimento. La scelta operata è invece stata quella di proseguire la linea di condotta che aveva portato al disastro e che quindi non è certo quella che può portare l’economia globale alla fuoriuscita da esso. Ovviamente tale scelta risponde all’interesse immediato di quelle classi dominanti che continuano ad arricchirsi, facendo pagare i costi della crisi agli altri. È una scelta miope che potrebbe perdere chi la compie a patto però che l’antagonista di classe riprenda in mano i propri destini e
prenda coscienza dei propri bisogni immediati e storici. Stante la situazione, però, quella che era la quarta riga dello schema riportato all’inizio di questo lavoro, quello che prospettava l’avvio di un ciclo economico diverso, non ha avuto alcuna possibilità di realizzazione o di un semplice inizio di cambio di rotta. Oggi, di fronte alla sclerosi delle politiche economiche, in considerazione che la teoria economica dominante continua a dettare leproprie ricette inefficaci, mantenendo ben saldi i posti di potere (nei mass media, nelle accademie, negli organismi internazionali), quella quarta riga viene sostituita da una serie di punti interrogativi, che vogliono significare, che non è possibile prevedere quando il sistema economico internazionale impatterà frontalmente
contro la realtà, avviando una crisi ancora più devastante di quella che andiamo attraversando; appare, d’altra parte, inevitabile che ciò avvenga.
Va precisato che quest’analisi si è mossa prevalentemente su di un versante sociologico, in quanto le determinazioni di base dell’economie non hanno subito mutazioni di rilievo e per esse si rimanda all’analisi del 2011. Questo lavoro va, pertanto, letto in controluce con quello precedente, cui si fa riferimento per un’analisi
del mondo capitalistico neoliberista.

10.1 Azzardiamo un’ipotesi

Nonostante il fuoco di fila che i soloni della politica economica dominante mettono in atto giornalmente contro qualsiasi proposta deragli dai binari da loro prefissati, la tosse persistente che la congiuntura, ha mostra che qualcosa debba necessariamente essere cambiata nella sua conduzione. Come detto, gli USA hanno abbondantemente derogato alle regole del monetarismo, scaricando i costi dell’operazione sugli altri paesi,
sotto forma di indebolimento del dollaro a danno delle altrui esportazioni. Se la Cina rallenta ed i restanti paesi emergenti vanno incontro a crescenti difficoltà, l’Europa a trazione germanica accusa i guasti di una troppo prolungata gestione austera, con conseguente contrazione dei mercati interni e si trova adesso di fronte alle rivendicazioni di autonomia sociale economica: la prima dei paesi dell’est e la seconda dei paesi della fascia mediterranea, dove le popolazioni mostrano segni evidenti d’insofferenza. L’uscita della Gran Bretagna, che si procrastina per predisporre gli strumenti atti ad un divorzio meno traumatico possibile, accentua la turbolenza
sociale negli altri paesi europei, insofferenti al giogo di Berlino. È per noi evidente che questa insofferenza difficilmente può tradursi in un conflitto di classe, riattivando una coscienza antagonista che si è andata spegnendo negli ultimi quattro decenni, ma nessuno può impedirci di pensare che un ribaltamento degli attuali rapporti di forza tra le classi sociali sia possibile, se non nel breve termine, almeno in prospettiva; nessuno può impedirci di lavorare per questa prospettiva, perché l’uscita dagli assetti sociali ed economici del capitalismo è l’unica ipotesi in grado di rendere all’intera umanità il senso della dignità della propria vita, l’unica, per altro, che ci è concesso di vivere.

[1] MICHAIL BAKUNIN, Lettera a Celso Ceretti e a Carlo Gambuzzi, in MICHAIL BAKUNIN. Opere complete, vol. III, Anarchismo, Catania 1977, pp. 156-163.
[2] AA.VV., Ai compagni sulla Cina, CP, Firenze 1972.
[3] LUIGI DI LEMBO, SAVERIO CRAPARO, GIANCARLO LEONI, PASQUALE MASCIOTRA, MARCO PAGANINI, GIOVANNI CIMBALO , Ai compagni
su: capitalismo, ristrutturazione e lotta di classe, CP, Firenze 1975.
[4] UCAT, I comunisti anarchici e l’organizzazione di massa, CP, Firenze 1984.
[5] AA.VV., Il “Programma minimo” dei Comunisti anarchici, CP, Firenze 1998, pp. 23-52.
[6] AA.VV., Tattica generale dei comunisti anarchici, I quaderni di AL, Cremona 2004, pp. 6-20.
[7] UCADI, Analisi della fase 2011, http://www.ucadi.org/2015/12/06/analisi-della-fase-2011/.                                                                                                                         [8] PIERRE DARDOT. CHRISTIAN LAVAL, La nuova ragione del mondo, Derive Approdi, Roma 2013.
[9] Quando oggi ci si riferisce alla necessità per il capitale di possedere il consenso della popolazione in’area geopolitica data bisogna tenere conto che i sistemi di controllo sociale permettono di tollerare come fisiologico il dissenso anche radicale di almeno un terzo degli abitanti. La scomposizione di classe della società liquida, ovvero sempre più priva di partiti organizzati e corpi intermedi impedisce e previene le aggregazioni anti sistema.                                                                                                                            [10] ANDREA FRANCESCHI, L’economia Usa delude le Borse, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 124, 7 maggio 2016, p. 2.
[11] LESSANDRO MERLI, Il G-7 resta in stallo sugli stimoli fiscali, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 138, 21 maggio 2016, p. 2.
[12] MARCO VALSANIA, Lavoro americano, crescita ai minimi, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n* 152, 4 giugno 2016, p. 3.                                                                                     [13] MARCO VALSANIA, Boom di occupati negli Stati Uniti, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n* 215, 6 agosto 2016, p. 4.
[14] DOMENICO LOMBARDI, Un’economia entrata in debito di ossigeno, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n* 152, 4 giugno 2016, p. 3.
[15] LORETTA NAPOLEONI, Maonomics, Rizzoli, Milano 2010, pp. 31-44.
[16] UCADI, Analisi… cit., 9.1.
[17] DOMENICO LOMBARDI, op.cit..
[18] LUCA ORLANDO, L’anno d’oro dei robot industriali, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 211, 2 agosto 2016, p. 9.
[19] Per un approfondimento vedi: Le materie prime, “L’Economia per la famiglia n° 16”, supplemento a “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 212, 3 agosto 2016. Vedi anche http://www.ucadi.org/2016/08/30/osservatorio-economico-serie-ii-n-8-ottobre-2010/.
[20] BERNARD CASSEN, L’eredità britannica per l’Europa, in “Le Monde diplomatique”, pp. 10-11.                                                                                                                         [21] Ivi.
[22] LEONARDO MAISANO, Vodafone pronta a lasciare Londra, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 178, 30 giugno 2016, p. 8.
[23] LEONARDO MAISANO, Londra, si avvicina la recessione, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 211, 2 agosto 2016, p. 8.
[24] Inghilterra in zona recessione, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 214, 2 agosto 2016. p.1, con servizi a pp.2-3.                                                                                                  [25] “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 164, 16 giugno 2016, p. 25.
[26] LUCA DAVI, MORYA LONGO, Banche deboli in tutta Europa, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 190, 12 luglio 2016, p. 3.
[27] “Il fatto quotidiano”, domenica 1 luglio, pp.12-13.                                                        [28] http://country-facts.findthedata.com/l/26/Russia.
[29] Dati prelevati da http://www.indexmundi.com/g/g.aspx?v=67&c=ym&c=za&c=zi&l=it.                                                                                                                                      [30] SAVERIO CRAPARO, Equivoco globalizzazione, I quaderni di Alternativa Libertaria, Fano 2002; in http://www.ucadi.org/2016/08/30/equivoco-globalizzazione/.
[31] UCADI, Analisi… cit., 4.2.                                                                                         [32] https://publications.credit-suisse.com/tasks/render/file/?fileID=F2425415-DCA7-80B8-EAD989AF9341D47E,
[33] UCADI, Analisi… cit., 4.1.
[34] LUCIANO GALLINO, Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013. Sono destinatarie di un attacco particolarmente virulento le Costituzioni “liberalsocialiste” dell’Europa mediterranea (Portogallo, Spagna, Italia. Grecia) le quali conservano tracce dei principi di eguaglianza e solidarietà, r per questo avversate in quanto incompatibili con la fase in atto di compressione dei diritti. Uno degli obiettivi perseguiti sullo scacchiere europeo è la definitiva sconfitta della strategia di potenziamento del ruolo delle città come strumento di integrazione dei residenti nel territorio (a prescindere dal possesso della
cittadinanza) che avrebbe forse consentito la nascita effettiva di un’entità europea sovranazionale in grado di rimettere in discussione il direttorio dei centri di gestione neoliberista che abbiamo elencato.                                                                                 [35] NAOMI KEIN, Shock economy, Rizzoli, Milano 2007.                                                  [36] Vedi anche http://www.ucadi.org/2016/06/12/una-sinistra-sinistra/-
[37] LUCA RICOLFI, Il popolo è sovrano se vota «come deve», in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 174, 26 giugno 2016, pp. 1 e 23.
[38] LUCIANO GALLINO, op. cit.                                                                                        [39] https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_Maastricht.
[40] WILLIAM SHEKESPEARE, The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, atto III, scena I.
[41] FRANCSECO SYLOS LABINI, Rischio e previsione, Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 109-111.
[42] MARSHALL MCLUHAN, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967, pagg. 31-33
[43] http://www.edscuola.it/archivio/ped/strategia_lisbona.htm.
[44] FRANCSECO SYLOS LABINI, op, cit., pp. 131-188.
[45] http://www.ucadi.org/2016/08/31/il-piano-inclinato/. .
[46] http://www.ilpost.it/2015/05/20/riforma-scuola-francia/.                                                [47] http://www.ilpost.it/2014/07/07/durata-liceo-germania/
[48] Elaborazione su dati de “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 219, 10 agosto 2016, p. 1.
[49] “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 219, 10 agosto 2016, p. 1.                                             [50] LUCA ORLANDO, Robot a caccia di ordini negli Usa, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 86, 29 marzo 2016, p. 9.
[51] UCADI, Analisi…cit., 3.2.
[52] ENRICO NETTI, Italia in prima linea nel «reshoring», http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2016-05-23/italia-prima-linea-reshoring-090139.shtml?uuid=ADaYeTN&refresh_ce=1.                                                                [53] LUCA ORLANDO, Le stratup del turismo a quota 1,5 miliardi, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 214, 5 agosto 2016, p. 23.
[54] GUIDO ROMEO, Startup scopre giacimento di Elio. Il progresso è salvo, in “Il Sole 24 Ore”, a. 152, n° 209, 31 luglio 2016, Nova 24, n° 544, pp. 12-13
[55] FABIO CESARE, La crisi delle start up innovative in bilico tra sovraindebitamento e istituti della legge fallimentare, http://www.diritto24. ilsole24ore.com/art/avvocatoAffari/mercatiImpresa/2016-02-09/la-crisi-start-up-innovative-bilico-sovraindebitamento-e-istitutilegge-fallimentare-142439.php,
[56] Rapporto Unioncamere 2015, http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0ahUKEwiK6qS54bnOAhUE7xQKHZmXAYwQFggjMAA&
url=http%3A%2F%2Fwww.unioncamere.gov.it%2Fdownload%2F4793.html&usg=AFQjCNFYqsdPx-9XNCz08ynuZ_U67Sqv0w&bvm=bv.129422649,d.bGg, pp. 91.99.
[57] http://www.lastampa.it/2013/11/10/economia/febbre-da-startup-si-rischia-la-bolla-otto-su-dieci-falliscono-in-tre-anni-1PAzov4i1-MHwAOqauVm1oK/pagina.html.
[58] http://formiche.net/2014/09/09/quanto-vale-veramente-leconomia-delle-app/.

Unione dei Comunisti Anarchici d’Italia (UCAdI)
Crescita