Riti scaramantici e scuola italiana – La benedizione pasquale nelle scuole pubbliche

Lo scorso anno in periodo pasquale i parroci delle Parrocchia della SS. Trinità, di S. Giuliano e di S. Maria della Misericordia di Bologna chiesero all’’Istituto comprensivo n. 20 di Bologna di poter effettuare fuori dall’orario delle lezioni la benedizione pasquale dei locali delle scuole afferenti al suddetto plesso scolastico. Il 9 febbraio 2015, il Consiglio di Istituto dell’Istituto comprensivo decideva di “concedere l’apertura dei locali
scolastici di tutti e tre i plessi dell’I.C. 20 per le benedizioni pasquali richieste dai parroci del territorio, con le seguenti modalità: – la benedizione pasquale dovrà avvenire in orario extra scolastico; – gli alunni dovranno essere accompagnati dai familiari, o comunque da un adulto che se ne assume l’onere della sorveglianza”.
Contro questa decisione alcuni docenti, alcune famiglie e il Comitato Scuola e Costituzione sollevarono obiezioni sostenendo che non è consentito svolgere nei locali scolastici attività di culto di alcuna confessione religiosa a salvaguardia della laicità e dell’aconfessionalità della scuola pubblica. Di fronte alla persistenza della decisione dell’autorità scolastica veniva proposta al Tribunale Amministrativo Regionale dell’Emilia Romagna richiesta di sospensiva della delibera del Consiglio d’Istituto sostenendo che, in quanto rito o atto di culto religioso, la benedizione pasquale cattolica non rientra né nelle varie forme di attività scolastica (artt. 7 e 10 del d.lgs. n. 297/1994) né nelle iniziative “complementari” ed “integrative” previste dal d.P.R. n. 567 del 1996. Pertanto lo svolgimento del rito “è estraneo alle competenze dell’istituzione scolastica, chiamata a occuparsi delle sole attività suscettibili di far parte dell’offerta formativa affidata alle sue cure; ciò anche in quanto la collocazione della pratica religiosa al di fuori dell’orario scolastico e senza obbligo di partecipazione degli alunni, pur apparentemente salvaguardando la libertà religiosa dei componenti della comunità scolastica, otterrebbe comunque l’effetto di accostare l’istituzione al cattolicesimo e di lederne di conseguenza l’imparzialità, la neutralità, la laicità e la aconfessionalità, oltre a condizionare in modo significativo soggetti deboli come gli studenti, senza tenere conto della necessità di evitare qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione […] e di tutelare diritti fondamentali quali quello alla non discriminazione (artt. 2 e 3 Cost), alla libertà religiosa (art. 19 Cost.) e di pensiero (art. 21 Cost.)”. I ricorrenti rilevavano inoltre l’incompetenza del Consiglio di Istituto, in quanto “se anche un atto di culto potesse costituire attività didattico/culturale la questione sarebbe in ogni caso riconducibile alle attribuzioni del Collegio dei docenti (art. 7 d.lgs. n. 297/1994); ove, invece, si trattasse di attività ascrivibile alle iniziative “complementari” o “integrative”, sarebbe stato comunque necessario acquisire l’avviso del Collegio dei docenti
(art. 4 d.P.R. n. 567/1996).
Per i suddetti motivi rilevavano l’assenza di motivazione della scelta operata, l’illogicità e contraddittorietà del deliberato, per l’incertezza delle modalità di attuazione della decisione quanto a locale scolastico interessato, a giorno e ora dell’evento, a sorveglianza degli alunni.
Di qui la richiesta di annullamento dell’atto impugnato.
La direzione scolastica da parte sua andava avanti nelle sue scelte, precisava ora giorno e luogo del rito che aveva luogo malgrado la richiesta di sospensiva al TAR da parte dei ricorrenti. Alla scuola Fortuzzi partecipavano 19 (dieci) famiglie su 600 e alle altre poche decine di persone ! D’altra parte alla Fortuzzi le benedizioni non erano mai avvenute mentre alla Carducci, altra scuola coinvolta erano state effettuate senza
clamore in pochi locali.
In questa situazione il TAR decideva di pronunciarsi nel merito e ciò è avvenuto prima di questo periodo pasquale dichiarando l’illegittimità dell’effettuazione del rito religioso

La decisione del TAR

Il Tribunale Amministrativo rigetta le richieste dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Bologna che assume le difese dei dirigenti scolastici e del MURST sostenendo che non vi è interesse da parte degli insegnanti a ricorrere in giudizio. A questa obiezione il TAR osserva rilevando che tali attività coinvolgono tutta la scuola e quindi anche personale tecnico e docente, non a caso informati dell’evento per svolgere opera di sorveglianza. All’avvocatura dello Stato che vorrebbe escludere dall’intervenire Scuola e Costituzione per assenza di interesse il TAR fa osservare “come oggetto del contendere sia proprio la qualificazione giuridica degli atti impugnati e l’attitudine delle relative determinazioni ad interferire con la libertà religiosa di quanti operano nell’àmbito scolastico. Pertanto, sussiste la legittimazione dell’associazione ricorrente a vedere accertato se le scelte compiute dall’Istituto comprensivo n. 20 di Bologna siano rispettose delle regole che
presiedono al rapporto tra istituzioni scolastiche e religione”. “… il principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato, secondo una costante lettura della Corte costituzionale, non significa indifferenza di fronte all’esperienza religiosa ma comporta piuttosto equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose” la scuola non può essere coinvolta nella celebrazione di riti religiosi che sono attinenti unicamente alla sfera individuale di ciascuno – secondo scelte private di natura incomprimibile – e si rivelano quindi estranei a un àmbito pubblico che deve di per sé evitare discriminazioni. Pertanto il Tribunale ribadisce che le attività di culto religioso che attengono alle pratiche di esercizio del credo confessionale di ciascun individuo restano confinate nella sfera intima dei singoli, mentre una rilevanza culturale, non lesiva della libertà religiosa e non incompatibile con il principio di laicità dello Stato – quindi non escludente quanti professano una fede religiosa diversa o sono atei –, è propria di tutte le attività che, nel diffondere elementi di conoscenza e approfondimento relativamente alle religioni, la loro storia e le relazioni nel tempo intessute con la comunità, contribuiscono ad arricchire il sapere dei cittadini e ad assecondare in tal modo il progresso della società.

I pregi di una sentenza equilibrata

La sentenza del Tar dell’Emilia Romagna è perciò estremamente equilibrata e distingue meglio di quanto abbiano saputo fare politici interessati, dirigenti scolastici, docenti e religiosi, tra conoscenza del fatto religioso e partecipazione al rito, ovvero a un atto devozionale che nelle intenzioni di chi lo compie intende delimitare un luogo e porlo sotto la protezione di un Dio, mediante atti conseguenti (la preghiera e gli atti rituali), finalizzati ad intercedere per ottenere la protezione della divinità. La benedizione è dunque un atto di dedicazione di un luogo a un Dio, è atto di culto.
Considerare la benedizione pasquale una mera tradizione ne sminuisce il significato e non concorre a coglierne la portata e l’importanza religiosa: chi lo fa banalizza e offende questo rito così importante per chi crede, in quanto marca il territorio, delimita uno spazio posto sotto la protezione del Dio dei cattolici.
A scuola si può parlare delle zeppole o delle uova dipinte, o della coltivazione e realizzazione dei sepolcri queste si evocative delle tradizioni. Si tratta di attività ludico-gastronomiche o evocative di antiche festività e eventi dell’avvicinarsi della primavera – assorbite dalla tradizione religiosa cattolica e già frutto di religioni precedenti – non assimilabili a un atto rituale come la benedizione che coinvolge i ministri di culto e i
fedeli nella celebrazione di un atto devozionale escludente e rivolto a un unico Dio.
I giudici hanno dimostrato di saper cogliere questa differenza che sfugge invece a dirigenti scolastici di evidente poca cultura religiosa, a politici a caccia di voti dell’elettorato più tradizionale e a prelati interessati a mantenere il controllo sul territorio e a tutti coloro che fanno della religione un “marcatore culturale”. atto a affermare la propria appartenenza e identità.
Il confronto e il dialogo inter religioso, come quello con i non credenti –affermano i giudici amministrativi – si svolge sul piano culturale e non sul terreno del rito e della pratica di culto, ridotta da chi vuole imporla e elemento folcloristico, depauperato di ogni significato religioso e devozionale, se non quello formale. Eppure la religiosità, la preghiera e la fede di tutto hanno bisogno fuorché di esibizioni forzate! La propaganda del culto – nel senso dell’art. 19 della Costituzione – si fa, aggiungiamo noi, con la predicazione, con l’apostolato e con le azioni di carità e non con le esibizioni di malsane abitudini, come ad esempio la benedizione degli autoveicoli che notoriamente non hanno un’anima!
Consapevoli di ciò i giudici amministrativi hanno ricordato che il principio di laicità esige che la scuola sia luogo di cultura e di confronto tra le differenti appartenenze religiose, che anzi si faccia carico di affrontare queste tematiche con il metodo che gli è proprio e cioè il contraddittorio e il confronto tra le diverse opzioni. Il rito invece è esecuzione univoca, unilaterale, indiscutibile di un atto devozionale che o si condivide o non si
condivide.
Perciò i giudici fanno riferimento al principio di laicità che è il vero elemento distintivo della civiltà europea e costituisce elemento culturale di identità.
Certo l’efficacia di questa sentenza – che del resto conferma un orientamento consolidato del Tribunale bolognese che si pronunciò nello stesso senso nel 1994 – è limitata al caso specifico, ma è l’art. 19 della Costituzione che disciplina il diritto di celebrare il culto e di farne propaganda. E questa è norma generale che deve essere applicata e da tutti rispettata, anche e soprattutto dai sovrintendenti e dirigenti scolastici. Tanto più che sono le stesse norme concordatarie, le quali disciplinano la presenza della religione nella scuola, che all’art. 9 del Concordato stabiliscono che l’insegnamento della religione deve avvenire come fatto culturale e non rituale. Altrettanto fanno le intese con le diverse confessioni, le quali sanciscono che questo insegnamento non può avere carattere diffuso e quindi avvenire durante le altre attività della scuola. Da tali disposizioni emerge il divieto di svolgimento di atti rituali nella scuola pubblica.
Una sentenza quindi frutto di buon senso, di profonda e rispettosa conoscenza della Costituzione, delle leggi, dei Patti con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni, dell’art. 21 Cost. sulla libertà di pensiero, e dell’art. 3 Cost. che impone il rispetto del principio di uguaglianza tra chi crede e non crede e quindi del principio di laicità.

Giovanni Cimbalo