Similloro nero

Come appaiono lontani i tempi (meno di dieci anni fa) in cui la corsa al rialzo del prezzo del petrolio (salito a 147 $ al barile, e c’era anche chi ipotizzava superasse i 200 $) minacciava l’economia mondiale.
Ora il problema inverso: nulla sembra arrestare la discesa del prezzo del greggio, sceso sotto il 30$ al barile ed anche questo minaccia l’economia mondiale. Come è possibile che tutto ed il contrario di tutto costituisca una mina vagante per il miraggio di una ripresa dalla crisi?
Uno sguardo retrospettivo può risultare utile. Dopo circa mezzo secolo di libere fluttuazioni sul mercato (quando ancora il petrolio non aveva l’importanza strategica che avrebbe assunto in seguito, quale fonte energetica primaria), negli anni venti dello scorso secolo il prezzo al barile si è stabilizzato per un altro mezzo secolo, dal 1920 al 1970. Questa stabilità risultava quale frutto di un accordo tra le multinazionali del settore dell’energia e quelle legate alla produzione industriale: un costo basso e costante garantiva il settore produttivo (quello automobilistico in particolare che aveva fatto la scelta infelice del motore ad idrocarburi), che beneficiava di una sostanziale moderazione dei costi di approvvigionamento e quindi di una programmazione
efficace, e le multinazionali energetiche (le cosiddette “sette sorelle”), che potevano contare su di un afflusso costante e cospicuo di risorse valutarie. Ai paesi produttori restavano le briciole, seppure consistenti.
Dalla guerra del Kippur del 1973 questo panorama di stabilità si è infranto e non si è più ricostituito. Da un lato c’è stato un tentativo di assalto al controllo assoluto del mercato globale da parte delle “sette sorelle” (in realtà allora le società legate al petrolio erano 27), la cui mira era quello di infeudarsi l’intero settore produttivo, piegandolo alla propria volontà con l’aumento dei prezzi dell’energia (cfr. “Sapere”, febbraio 1974, n° 769),
processo ricostruito in AA.VV., “Ai compagni su capitalismo ristrutturazione e lotta di classe”, CP editrice, Firenze 1975; poco importa oggi se l’attacco fallì per lo spostamento del potere economico verso i gruppi finanziari, che pure sfruttarono la situazione.
Dall’altro lato il passaggio del 1973 costituì una svolta senza ritorno per l’emergere degli interessi dei paesi produttori, tra i quali si era da tempo (1960) costituita una collaborazione, non sempre in verità molto solidale, l’OPEC (Organization of Petroleum Exporting Coutries) formata allora da 13 paesi, che rivendicarono una maggiore fetta dei profitti derivanti dallo sfruttamento delle materie prime in loro possesso. Da allora il
prezzo del petrolio è tornato a fluttuare sul libero mercato, sotto la spinta della domanda e dell’offerta.
Alcune altre considerazioni devono essere inserite tra le premesse. Dell’OPEC non fa parte la seconda potenza produttrice al mondo, la Russia, che da sola produce il 12,8% del greggio prodotto ogni anno. Anche gli USA, che nella classifica dei paesi produttori occupano la terza posizione con l’8,8%, non fanno parte dell’OPEC; è da ricordare che lo sfruttamento del petrolio ha avuto inizio proprio in questo Stato. Vi è però un’ulteriore considerazione che tornerà utile al nostro ragionamento: gli Stati Uniti d’America nel 2011 hanno prodotto 2 miliardi e 861 milioni di barili e ne hanno consumati 6 miliardi e 875 milioni (https://it.wikipedia.org/wiki/Mercato_del_petrolio), con una dipendenza dalle importazioni di circa un miliardo di barili; la ricerca dell’autosufficienza energetica è una costante della politica statunitense.
Ora si consideri l’ultimo tassello del ragionamento. All’interno dell’OPEC, l’Arabia Saudita ha un ruolo egemone, per un semplice motivo: non solo è il maggiore produttore al mondo, coprendo da sola il 13,2% della produzione mondiale, ma detiene il 16,1% delle riserve accertate, collocandosi al secondo posto nel mondo, dietro al Venezuela che ne detiene il 17,9%; con la differenza che il livello di sfruttamento di quest’ultimo paese è più arretrato e che il Venezuela ha una instabilità politica più accentuata, così che esso esporta solo un quarto di quanto non esporti il paese saudita. Non è una caso che di questa instabilità politica stiano tentando di approfittarsene gli USA, che intravedono una rinnovata possibilità di porre il paese sotto controllo, grazie la fine dell’indipendenza perseguita dallo chavismo e la crisi del presidente Maduro. A ciò va aggiunto che l’Arabia Saudita con i suoi satelliti (Emirati Arabi Uniti e Kuwait) controlla il 20,5% delle riserve globali.
Grazie alla sua posizione il paese dei Saud ha condizionato pesantemente il mercato mondiale del petrolio negli ultimi quaranta anni, pompando a proprio piacimento più greggio quando le conveniva far calare il suo prezzo e restringendo la produzione per ottenere un prezzo più elevato, in virtù della propria elevata elasticità estrattiva, che ne fa un unicum nel panorama produttivo. La metà del primo decennio di questo secolo è stata contrassegnata da un crescita smisurata del prezzo del greggio, come abbiamo visto all’inizio; la strategia degli alti profitti si è ben presto rivelata perdente, in quanto ha reso competitive altre fonti di approvvigionamento energetico. Il ricorso a fonti alternative di energia è cresciuto, è divenuto conveniente per gli USA estrarre il
petrolio presente in Alaska e sono entrate in produzione le estrazioni ricavate dalla frantumazione degli scisti bituminosi. A questo calo della domanda non ha sopperito la crescente richiesta proveniente dalla Cina, in sviluppo vertiginoso e per questo affamata di energia, nonostante sia il quinto produttore al mondo (1 miliardo e 492 milioni di barili, pari al 5,1% della produzione mondiale, a fronte di un consumo di 3 miliardi e 562 milioni di consumo che ne fanno il secondo consumatore al mondo). Appare, comunque, chiaro che un prezzo del petrolio crescente tendesse a destabilizzare l’economia dei paesi importatori.
Recentemente la strategia dell’Arabia Saudita ha perseguito nuovi scopi. Dopo anni di assoluta subalternità ai voleri dell’amministrazione statunitense, plasticamente resa dalla cointeressenza di affari con la famiglia Bush, i rapporti con la nuova amministrazione Obama sono divenuti meno idilliaci. Per quanto la nuova amministrazione statunitense fosse emanazione di interessi diversi da quello dei petrolieri, le sue prime mosse hanno incontrato il favore dei sauditi: ridimensionamento delle relazioni favorite con Israele ed attacco alla Siria guidata dall’alawita Assad. La situazione si è incrinata quando gli USA hanno iniziato la distensione con l’Iran, che è sfociata recentemente nella fine delle sanzioni che pesavano da decenni sull’economia
iraniana. Questo fatto non solo ha riportato sulla scena una paese che possiede il 3,4% delle riserve accertate di petrolio, ma ha riabilitato il nemico storico dell’Arabia Saudita per due motivi: l?iran è militarmente una potenza regionale che aspira ad un ruolo egemone nel medio oriente e rappresenta il punto di coagulo degli sciiti, considerati eretici dai sunniti, come si spiega estesamente in altro articolo. Gli sciiti sono in netta
maggioranza in Iran, in maggioranza in Iraq dove sono al governo, in minoranza, ma al governo in Siria, (attraverso gli alawiti loro affini) hanno una forte presenza militare in Libano e Palestina e controllano la maggioranza del territorio nello Yemen.
In tale situazione i sauditi stanno puntando ad abbassare senza limiti il prezzo del petrolio, con un’azione di dumpig resa possibile dalla loro pressoché illimitata possibilità di elevare la produzione e dal calo della domanda mondiale, generata dal rallentamento dell’economia cinese. A costo di rendere per un periodo problematico l’assetto del bilancio del paese, gli obiettivi perseguiti sono ambiziosi e molteplici:
Ø rendere meno profittevole l’ingresso nel mercato globale del greggio dell’Iran, così che le sue aspettative di riscatto siano più problematiche;
Ø minare la ricerca dell’indipendenza energetica degli USA, facendo così in modo che non risultino convenienti gli sforzi per lo sfruttamento degli scisti bituminosi;
Ø creare problemi all’economia della Russia (secondo produttore ed esportatore al mondo), che proprio sulle esportazioni energetiche basa la propria forza economica e che punta a giocare un ruolo di primo piano militare strategico nella regione mediorientale, in appoggio alla Siria di Assad ed all’Iran sciita.
Il calo dei profitti delle multinazionali legate all’approvvigionamento energetico e il diminuito afflusso di investimenti provenienti dai paesi del Golfo rischiano però di aggravare i rischi per la fragile ripresa dell’economia mondiale, che già incontra difficoltà nella bassa congiuntura cinese e nel venir meno di sbocchi importanti per le merci prodotte, quali la Russia e gli stessi paesi del Golfo. L’economia capitalistica mondiale può prosperare solo se le materie prime sono offerte a prezzi controllati ed entra in fibrillazione quando le risorse di base oscillano fuori controllo nel marcato globale.
L’apertura del mercato iraniano giunge al punto giusto e può stimolare non solo le economie europee attraverso importanti commesse, ma generare un circuito virtuoso nell’area compresa tra la Cina, l’India e l’Iran. La Cina è interessata a dirottare verso la regione dello Xinjiang a maggioranza musulmana oleodotti e gasdotti provenienti dall’Iran per soddisfare la sua sete energetica e l’india a utilizzare i porti meridionali
dell’Iran per aggirare il Pakistan e sfruttare le risorse dell’Afghanistan, paese nel quale, insieme alla Cina sta investendo soprattutto nel settore minerario.
L’uscita dall’isolamento dell’Iran apre dunque scenari fino ad oggi impensabili.

Saverio Craparo

Cosa vuol dire
Dumping: Operazione di vendita sottocosto messa in atto da un attore del mercato globale in posizione di forza, per eliminare da esso i concorrenti più deboli e creare così un regime di quasi monopolio o di dominio incontrastato di chi lo mette in atto.