L’imprenditoria sociale criminale al sacco di Roma

I comportamenti criminali non sono solo frutto di scelte individuali, né dipendono da un grado più o meno alto di situazioni ambientali ma hanno la loro origine principale nelle scelte di carattere strutturale che governano un aggregato sociale e che possono concorrere a creare comportamenti e pratiche criminali. Per noi comunisti anarchici, che utilizziamo il materialismo storico come metodo di analisi, la legge e le regole sociali
sono frutto dei rapporti di forza che si determinano in una società tra le sue diverse componenti, rapporti di forza che poi trovano nella sanzione penale erogata dallo Stato lo strumento per imporre il rispetto delle regole e la punizione di coloro che le violano. Questa prima considerazione di fondo andrebbe analizzata nelle sue tante conseguenze per discutere di che cosa è il reato, il carcere, la pena, la criminalità, il recupero di chi ha infranto le regole, ecc. Sono queste tematiche interessanti che prima o poi affronteremo ma non in questa sede nella quale la prima considerazione di partenza ci serve per capire il contesto nel quale si è sviluppata l’imprenditoria sociale criminale che ha portato al sacco di Roma attualmente in corso.

Le ragioni strutturali

Un primo punto dal quale partire è la specificità di Roma, fatta di più città che vivono una nell’altra e che interagiscono in modo costante su ogni aspetto della vita sociale. Vediamo di darne i tratti salienti in un ordine non necessariamente gerarchico in quanto ad importanza ed effetti ma almeno descrittivo.
Roma è innanzi tutto due città: quella italiana, capitale istituzionale del paese Italia e quella Stato città del Vaticano. La seconda vive nella e dell’altra, in quanto usufruisce gratuitamente dei suoi servizi (acqua, luce, fogne, nettezza urbana, strade e viabilità, trasporti ecc) e non ne paga il costo, che è tutto a carico dell’altra Roma, quella delle istituzioni civili. La seconda città, gestita amministrativamente dal Comune, nasce quindi con un costo fisso che non si esaurisce nelle voci che abbiamo segnalato, ma si articola in una serie di interessi per cui larga parte del suo patrimonio abitativo e immobiliare è di proprietà ecclesiastica, gran parte delle strutture alberghiere hanno lo stesso padrone e operano in condizione di miglior favore rispetto ai privati imprenditori che agiscono nello stesso settore, è dotata di strutture finanziarie e bancarie proprie, ha costruito infrastrutture specifiche al suo servizio il cui costo ricade sulla fiscalità generale del paese. Tutto ciò per dire che esiste un circuito economico separato e parallelo di città nella città dove quella “celeste” vive di quella terrena.
Accanto a questo c’è la città che vive di e intorno alle istituzioni, che dispone di un apparato immenso, che gode di privilegi di ogni tipo che amministra migliaia di redditi, operando nel settore immobiliare, come in quello della ristorazione e dei servizi. In più questa parte della città gestisce ai vari livelli l’accesso di tutto il paese alle istituzioni, controlla i flussi di denaro e quelli finanziari dalla periferia del paese verso il centro e
sostituisce il fulcro nevralgico di un sistema spartitorio appropriativo che è il tratto tipico della struttura economica e sociale del paese.
C’è poi una terza Roma, quella delle periferie e del suo hinterland nella quale è concentrato – per dirlo in termini borsistici – il “parco buoi”, quella massa più o meno inconsapevole di uomini e di donne da mungere e da utilizzare per alimentare gli altri strati di città. E’ questo un formicaio nel quale coloro che ne fanno parte si agitano per guadagnarsi una posizione migliore, una postazione che garantisca di usufruire di una rendita che permetta loro di uscire e mettere almeno un piede negli altri livelli della città. Ma spesso l’operazione non riesce e costoro, più facilmente di altri precipitano verso il quarto livello, disposto a corona nelle periferie e intorno alla città: la bolgia dei dannati fatta di profughi, di Rom, di senza lavoro, di poveri strutturali, che vivono della carità altrui, che integrano il proprio reddito facendo da manovali alle scorrerie di coloro che
stanno un po’ o molto meglio di loro e che costituiscono, per dirla con gli indagati dalla magistratura un business “più redditizio della droga”.
E’ questo il contesto nel quale è chiamata ad operare “Imprenditoria sociale criminale”.
“Modernizzazione” dello Stato e imprenditoria sociale criminale La stratificazione sociale appena descritta è rimasta sostanzialmente identica almeno nell’ultimo secolo,
ma sul finire degli anni ’80, lo strumento operativo con il quale lo Stato gestiva questa situazione era in parte diverso. Dopo una lunga gestione democristiana del Comune, nell’agosto del 1976, è prevalsa una gestione di sinistra per circa un decennio (fino al 30 luglio 1985). Durante questo periodo sembrava essersi interrotto l’infeudamento clientelare di larga parte della popolazione al potere politico cittadino, ma era seguito un
interludio quinquennale socialista (Franco Carraro) che aveva sostanzialmente lasciate immutate le cose, conclusosi con ben otto mesi di commissariamento governativo.
Dopo di allora comincia l’ascesa di Rutelli, radicale neo convertito margheritino, sostenuto dalle gerarchie ecclesiastiche, il quale avvia la trasformazione degli strumenti operativi del Comune. Questa trasformazione si consolida e si assesta con la gestione Veltroni, che termina il suo mandato nel 2008, dopo aver costruito l’ossatura organizzativa di una struttura burocratico amministrativa bi-partisan, buona per tutte le
stagioni. Ambedue le esperienze di governo di centro sinistra della città si concludono con un affidamento temporaneo del Comune al Commissario governativo, ma è durante questi anni che avvengono le trasformazioni che più ci interessano per spiegare la situazione odierna. La filosofia con la quale si affronta il problema dell’organico comunale è quella dell’esternalizzazione dei servizi tanto che il numero di dipendenti
oscilla tra i 30.000 e i 24.000, con ben 250 dirigenti circa.
L’arrivo di Alemanno trova la macchina amministrativa predisposta ad accogliere le nomine clientelari, le assunzioni pilotate, la proliferazione dei dirigenti. Esiste già un quadro istituzionale che può essere fidelizzato con oculate delibere, e ci sono le condizioni perché il cosiddetto “mondo di mezzo”, da tempo già a lavoro possa unificare la propria strategia, mettendo in atto una gestione spartitoria appropriativa del bene
comune. La “sinistra” politica si è trasformata in una presenza sinistra nelle istituzioni, oggi apparentemente messa in liquidazione commissariando il PS affidato da Matteo III, al secolo Orsini, quasi che il sistema sia riformabile senza smantellare l’intero apparato che regge le sorti di quello che fu un partito della “sinistra”, quel partito che oggi gestisce l’indotto al quale viene destinata la gran parte della spesa comunale.
Questa operazione di esternalizzazione di servizi pubblici ai quali il Comune ha provveduto è stata resa possibile dall’applicazione, sia pur graduale, di quel pacchetto di leggi che prende il nome di “leggi Bassanini”, nel combinato disposto con l’applicazione del Dlg 30/93 sulla privatizzazione del lavoro pubblico. Questo pacchetto di leggi – voluto dalla sinistra riformista – è stato poi completato, per quanto riguarda questa materia, dalla legge delega 13 giugno 2005 n. 118, le cui disposizioni vennero attuate dal d.lgs 24 marzo 2006, n. 155 intitolata:”Disciplina dell’impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118″.
La convinzione di fondo, la scelta politica alla base di questi interventi era ed è l’intenzione dichiarata di rendere “più leggera” l’amministrazione pubblica, appaltando ad altri soggetti la gestione di numerosi servizi, privatizzandone la gestione per estrarne profitti a discapito degli utenti del servizio. La qualità delle prestazioni sociali diminuisce, le condizioni di lavoro si precarizzano, utilizzando un falso volontariato a gestione clientelare. Tuttavia queste attività rispondono ad esigenze sociali e perciò il loro costo rimane economicamente a carico degli enti e del bilancio pubblico. Quindi ciò che si riduce non è l’entità della spesa che anzi cresce, ma muta la gestione e i servizi vengono forniti in regime di cosiddetta sussidiarietà, da soggetti esterni, attraverso
l’intervento di privati operatori sul mercato.
Si è dunque trattato non di una riduzione della spesa pubblica, ma di apertura di nuovi settori all’interven to dell’imprenditoria privata in materia di assistenza sociale, assistenza sanitaria e socio sanitaria, educazione, istruzione, tutela ambientale, tutela dei beni culturali, formazione universitaria. formazione extrascolastica, turismo sociale. Ciò vuol dire che mentre prima le attività concernenti tali servizi venivano erogati in regime di monopolio amministrativo, cioè direttamente dall’ente al quale competono, che ne era responsabile, e che attingeva al proprio bilancio, da allora in poi tali attività sono divenute occasione di affari e di estrazione di profitto per coloro che le gestiscono e sono rimaste a carico dell’ente pubblico.
Se l’intento del provvedimento era quello di sfoltire l’amministrazione pubblica inefficiente, privandola della gestione di attività delle quali erano responsabili dirigenti ben pagati si è fatto in modo che il profitto ricavato da tali attività andasse al titolare dell’azienda vincitrice dell’appalto. Ciò malgrado il numero dei dirigenti comunali super pagati addetti a controllare /senza farlo qualità e quantità dei servizi erogati è cresciuto
comunque. Si sono così create le condizioni giuridiche che hanno permesso crescita e sviluppo di un sottobosco di imprenditori gestori di servizi grazie alle mediazioni politiche, a gare di appalto fasulle, a distribuzioni lottizzate di soldi di provenienza pubblica.
Una miscela micidiale che ha distrutto e sta ancora distruggendo lo Stato sociale e che ha creato quel “mondo di mezzo” di criminalità politico mafiosa del quale gli inquisiti romani parlano, quel mondo nel quale si sono inserite le cooperative cosiddette sociali.
Imprese sociali e cooperative.
Assumono la denominazione di imprese sociali quelle imprese private, comprese le società cooperative, in cui l’attività economica d’impresa principale e stabile ha per oggetto la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale. Tali sono i beni o i servizi che ricadono nei settori tassativamente indicati dal d.lgs. 155/2006. che abbiamo prima ricordato e dei quali forniamo qualche significativo esempio: gestione delle mense e servizi scolastici come gli asili e scuole materne (questi ultimi territorio di caccia preferito della Chiesa cattolica), assistenza agli anziani (come sopra), raccolta dei rifiuti, gestione dei servizi come quello dell’acqua pubblica, servizi fognari, trasporti di pendolari, assistenza alle fasce deboli della popolazione (rom e sinti), ecc.
Di particolare valore economico l’attività riguardante gli aiuti a migranti e rifugiati, gestita come attività emergenziale e quindi il più delle volte assegnata senza gare di appalto e senza alcun controllo e trasparenza, non a caso terreno privilegiato di investimento della mafia romana e non solo così redditizia da far dire ai mafiosi che rende più della droga.
Il fatto è che, a causa della legislazione vigente, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso si sono venute affermando forme imprenditoriali e organizzative per perseguire finalità sociali operando all’interno del mercato. Vi è chi sostiene che tali imprese “sociali” sono nate per rispondere ai nuovi bisogni trascurati dall’impresa tradizionale e ai quali le politiche governative non erano in grado di fare fronte in maniera adeguata, ma come abbiamo rilevato la loro comparsa coincide con la chiusura di grandi strutture residenziali pubbliche o parapubbliche, come risposta alla conseguente deistituzionalizzazione dei servizi. Si arriva a sostenere che questo è un modo per reinserire nella società i soggetti precedentemente istituzionalizzati ma, per dirla in pratica al fine di fornire nuove occasioni di investimenti e profitto all’imprenditoria privata; la speranza dichiarata era che aprendo alla concorrenza questo settore sarebbe aumentata la qualità del servizio erogato mentre i fatti dimostrano che la collusione tra politica, investitori e imprenditori del settore ha complessivamente aumentato l’economia criminale.
E dire che in passato la cooperazione era stata uno strumento riformista di mutuo-aiuto fra portatori di bisogni e varie aggregati organizzati delle comunità locali, che si sono dedicate in maniera diretta all’erogazione di servizi. Tuttavia i fatti di cronaca giudiziaria dimostrano che questo non è certamente il caso italiano oggi, se si escludono forse alcune eccezioni. Il favore che questa esternalizzazione dei servizi incontra malgrado ogni scandalo è causata dalla generalizzata crisi dei sistemi di welfare e dall’orientamento al decentramento dei poteri pubblici, che permette a queste imprese di ritagliarsi sempre nuovi spazi. grazie alla citata legge 2005 n. 118.

Una falsificazione manifesta

I riformisti e gli imprenditori sostengono che con l’introduzione della figura giuridica dell’impresa sociale si è voluto distinguere il concetto di imprenditoria da quello di finalità lucrativa: si è riconosciuta cioè l’esistenza di imprese che dovrebbero avere finalità diverse dal profitto, che differiscono da un’impresa tradizionale per il fatto che tentano di erogare servizi ad alto contenuto relazionale, nel cercare di fare “rete” con
esperienze del terzo settore, dando luogo a esternalizzazioni positive per la comunità, promuovendo lo sviluppo locale, l’adozione di valori quali la giustizia sociale, dando garanzie di democraticità dell’organizzazione e un coinvolgimento diretto dei lavoratori nella gestione, soddisfacendo più opportunità e i fruitoti di dritti dei lavoratori, promuovendo la riduzione delle diseguaglianze.
Ebbene, se questi erano gli scopi l’obiettivo è fallito e lo dimostra il fatto che il profitto rimane l’obiettivo prioritario di queste imprese, che le condizioni di lavoro sono addirittura peggiori di quelle delle aziende tradizionali. Inoltre il considerare queste imprese fortemente caratterizzate le equipara a imprese di tendenza in grado di violare tutte le norme in materia di tutela del lavoro. La commistione tra lavoro di impresa,
fine solidaristico e volontariato crea un o spazio sempre maggiore per la precarietà e lo sfruttamento.

Verso una nuova organizzazione dei servizi alla persona

Se fosse vero che l’obiettivo prioritario dei poteri pubblici è quello di eliminare l’economia criminale, almeno in questo delicato settore, i provvedimenti da adottare non possono essere sul piano repressivo penale contenuti in un disegno di legge, come ha fatto il cazzaro di Palazzo Chigi nel recente Consiglio dei ministri, il quale del resto, nella sua gestione del Comune di Firenze si è distinto come paladino della privatizzazione (vedi gestione dell’acqua pubblica, dell’ATAF, ecc); siamo di fronte ad un campione della decretazione d’urgenza, che improvvisamente scopre l’impossibilità costituzionale di ricorrere ad un decreto quando il suo Governo ha fatto ricorso ai decreti, avvallati da Re Giorgio, praticamente per tutto, se si esclude l’altezza dei tacchi della Boschi!
Il vero intervento strutturale, atto a rimuovere alla radice le possibilità di delinquere, sta nel ripristino della gestione pubblica dei servizi alla persona, sta’ nel riaffermare il ruolo della gestione diretta in regime di monopolio amministrativo, a partire dal fatto che alcuni servizi, come ad esempio quello scolastico e della formazione, non possono essere affidati al privato sociale stante l’obbligo costituzionale contenuto nell’art 33 c.
II della Costituzione che afferma che tutti hanno diritto ad accedere a scuole statali di ogni ordini e gradi, perché questa è la scuola della Repubblica.
Ciò premesso dovrebbe essere rivisitata la nozione stessa di impresa sociale, contenuta nell’art.1 del d.lgs.155/2006 che definisce queste forme societarie come «organizzazioni private, ivi comprese gli enti di cui al libro V del Codice Civile, che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale». Non si tratta di incidere sulla destinazione degli utili e avanzi di gestione, sullo svolgimento dell’attività statutaria o dalle modalità di incremento del patrimonio, sulla non distribuibilità di eventuali utili, neanche in forma indiretta, oppure sulle modalità di tenuta del libro giornale e dell’inventario, né sui documenti da depositare presso il registro delle imprese, relativamente allo stato patrimoniale e finanziario dell’impresa o infine alle modalità per la redazione del bilancio sociale.
Prioritario è ricordarsi che tra i requisiti di questa forma di impresa vi è il fatto che essa deve avere una struttura democratica e coinvolgere lavoratori e destinatari delle attività nella gestione, avere la maggioranza degli amministratori soci, requisiti peraltro comuni alle forme di gestione che dovrebbero caratterizzare i servizi resi in regime di monopolio amministrativo e gestiti direttamente dai poteri pubblici. Ciò risponderebbe alla necessità tutta politica: le imprese sociali devono comunque mantenere finalità di interesse generale che vengono favorite dal legislatore sul piano civilistico, con la possibilità di potersi organizzare in qualsiasi forma di organizzazione, con qualsiasi tipo societario, con la possibilità di federarsi tra loro al fine di fornire un servizio migliore e realizzare economie di scala, ricordando che questo tipo di impresa non può avere come fine ultimo o principale lo scopo di lucro, ma è solo una forma possibile nella quale si organizza la capacità di autogestione degli abitanti di un territorio di un gruppo di lavoratori.

Per una gestione partecipata e responsabile dei servizi alla persona

Una volta ridimensionata la sfera di intervento delle imprese di utilità sociale l’elemento comune tra gestione pubblica e privata dovrebbe essere costituito dalle regole comuni per la gestione e il controllo dell’attività svolta. Una visione moderna e innovativa dei servizi alla persona deve muovere dalla considerazione che essi sono diretti non solo ai cittadini, ma a tutti coloro che risiedono sul territorio e sono espressione del senso di comunità e partecipazione, luogo di una effettiva eguaglianza di diritti e doveri di
solidarietà sociale. Ogni struttura pubblica o privata che svolge servizi alla persona deve veder limitata l’autonomia degli organi di gestione e rigidamente regolamentata la delega.
Ciò significa che i bilanci devono essere pubblici e accessibili anche attraverso la rete, che gli utenti, come i lavoratori della struttura, devono poter avere una rappresentanza negli organi di gestione, con mandato revocabile a livello almeno semestrale e con procedura straordinaria di urgenza al verificarsi di rilievi di lavoratori e/o utenti. La funzione ispettiva sulle attività deve poter essere svolta da organi elettivi costituiti da
soggetti con mandato non rinnovabile, se non dopo periodi congrui da stabilire in Statuto, ecc. Queste stesse regole di controllo, di trasparenza di visibilità dei conti e dei bilanci e controlli di gestione dovrebbero essere utilizzate per ogni struttura erogatrice di servizi alla persona, sostenuta con la fiscalità generale, indipendentemente dalla sua gestione.
In buona sostanza servizi pubblici gestiti direttamente e quelli a composizione mutualistica e cooperativa devono poter essere controllati dal basso e affidati alla vigilanza degli stessi utenti, sviluppando un livello di partecipazione che deve essere diffuso è capillare. Si tratta di un intervento finalizzato a prosciugare totalmente l’acqua di coltura che permette oggi al “mondo di mezzo” di esistere.

Gianni Cimbalo