Il debito

Il debito pubblico italiano ha raggiunto a giugno 2014 i 2.168,4 miliardi di €, pari ad un tendenziale 134,9% del PIL a fine anno (Il Sole 24 ore, a. 150, n° 223, 15 agosto 2014, p. 2). L’Italia non è solo uno dei maggiori contribuenti dell’UE (più della Gran Bretagna), ma per di più versa una quota di “45,6 miliardi di prestiti ad altri paesi Uem [area dell’Euro] tramite il programma Efsf o sulla base di accordi bilaterali e di 14,3 miliardi di contributo nazionale al capitale dell’Esm” (ibidem). In pratica un paese sorvegliato speciale per il proprio debito sovrano, versa contributi per gli stati europei in difficoltà. Il problema non è quindi quello di adire al fondo salva Stati, ma solo quello di non alimentarlo. Per inciso i circa 60 miliardi di cui sopra sono l’equivalente di due manovre finanziarie annuali e più della metà degli interessi annuali che l’Italia paga sul proprio debito. Nel frattempo il debito del Giappone ha superato il 200% del PIL e quello degli USA il 100%, mentre Francia e Germania corrono intorno al 90%. In termini assoluti, vista la differenza nell’ammontare del PIL, Germania e USA hanno un debito pubblico molto più grande del nostro, anche se garantito da un apparato industriale più consistente, ma anch’essi sono in difficoltà.
Gli USA in particolare, diversamente dall’Europa ingabbiata nelle regole capestro che a suo tempo si è data, ha stampato moneta, scaricando l’inflazione sul resto del mondo e ha sostenuto e sostiene la congiuntura interna, oltre che con l’immissione costante di liquidità, con le commesse all’industria bellica: ciò grazie al proprio stato permanente di guerra e all’imposizione ai propri partner di un continuo rinnovo degli armamenti, ovviamente di marca statunitense. In generale, quindi, si può sostenere che l’attenzione esasperata al debito sovrano, alimentata dalle agenzie di rating sovvenzionate dagli imperi bancari, serve a mantenere le economie capitalistiche sotto il controllo della finanza e non rappresenta di per sé un problema capitale. L’esempio del default islandese serve però fino ad un certo punto: è vero che l’Islanda, entrata in crisi per la politica dissennata messa in atto prima della crisi del 2007 per attirare capitali esteri fino ad avere depositi bancari superiori ben cinque volte il proprio PIL, si è rifiutata di rimborsare i crediti degli investitori stranieri; ma è anche vero che questi ultimi sono stati rimborsati dei rispettivi governi (Germania e Olanda in particolare) e che l’uscita dalla propria insolvenza è stata concordata col sistema finanziario internazionale, che ha preferito accollarsi delle perdite, piuttosto che correre il rischio di veder dilagare il metodo islandese. Ma l’economia della piccola isola nordica non è paragonabile a quella italiana, anche perché tbtf (too big too fall, troppo grande per cadere) si applica più all’Italia che all’Islanda.