DOSSIER FONDAMENTALISMO – Alle origini del disastro

Oggi è naturale restare sconvolti dalla violenza che i video provenienti dal medio oriente portano nelle nostre vite quotidiane. Siamo però spesso ciechi di fronte alle violenze, altrettanto ripugnanti, che le popolazioni subiscono sotto gli attacchi asettici degli aerei da guerra occidentali. Un ostaggio sgozzato è contro la convenzione di Ginevra, come lo è, d’altra parte, la morte sotto i bombardamenti di civili inermi spesso di età infantile. Ma al di là del diverso peso che l’informazione che riceviamo ci induce a dare a morti tutte esecrabili, occorre capire da dove origina l’accanimento anti occidentale che connota la riviviscenza fondamentalista islamica.

1. Gli errori del primo dopoguerra

A seguito del crollo dell’impero ottomano, gli stati vincitori della prima guerra mondiale accorsero a spartirsene le spoglie. Nella previsione di quanto sarebbe accaduto di lì a poco, nel 1916, Francia ed Inghilterra avevano già stabilito un piano di massima per le relative zone di influenza, cui fu poi associato lo zar di Russia; in esso si prevedevano zone sotto il controllo diretto e zone sotto “influenza”, tutte collocate nella Mesopotamia, nell’Anatolia e nel vicino medioriente. L’Arabia restava libera da controlli e doveva costituire un unico paese sotto il comando di Hussein della Mecca, sceriffo appunto della città santa dell’Islam. Attirati da queste promesse gli arabi parteciparono attivamente alla guerra contro il trono della Sublime Porta, coordinati dall’agente inglese Thomas Edward Lawrence e guidati da Feysal, figlio di Hussein.
Le loro attese dovevano andare deluse. Quando nel 1922 l’impero ottomano si disfece molta acqua era scorsa. Gli inglesi controllavano l’area dal sud della Turchia fino alla fine della penisola arabica. Il nazionalismo turco, ristretto nei confini dell’Anatolia, aveva trovato nei giovani militari al potere, dopo l’abdicazione del Sultano, dei difensori spietati ed il popolo armeno ne aveva fatto le spese. La Francia manteneva solo il controllo dall’area siriana e libanese. La Germania, sconfitta ed alleata al sovrano turco, non aveva più alcun interesse nell’intera zona. Nell’affare del petrolio subentravano gli Stati Uniti d’America, senza una presenza militare, ma con una compartecipazione, concessa dall’Inghilterra, nell’Irak Petroleum Company.
Gli inglesi hanno quindi potuto operare tutte le scelte, creando in quella che doveva essere la nazione araba unita una decina di nazioni. Prima di tutto, poiché le popolazioni irachene avevano mostrato subito una propria capacità di iniziativa, opponendosi all’insediamento sul trono di Feysal ivi catapultato dopo il fallimento di un
suo regno in Siria, l’Irak venne privato di uno sbocco al mare; il Kuwait, originariamente nell’impero ottomano e da sempre, una provincia del distretto di Bassora sotto il comando della dinastia degli Al Sabah, fu reso indipendente di modo che all’Irak restò un breve tratto di costa privo di approdi, mentre nello Chatt el Arab funzionava sotto il dominio inglese l’unico porto possibile.
Perché questa divisione? Il Foreign Office di Londra riteneva pericoloso per i propri interessi nella zona la creazione di un Arabia unita, preferendo affidarsi a piccoli potentati, locali e spesso tribali, in conflitto fra di loro. La gran parte del territorio della penisola arabica fu invece affidato alla famiglia dei Saud, divenendo l’Arabia Saudita, che ebbe anche in dote due terzi del Kuwait, che pagava così la propria indipendenza. I Saud erano i capi religiosi dell’unica setta islamica fondamentalista di una qualche consistenza, esistente dal XVIII secolo, quella dei wahhabbiti. Guerrieri e conquistatori, fondando la propria potenza sulla fascinazione della religiosità pura e radicale, erano stati in auge fino alla metà del XIX secolo, per poi venire sconfitti e marginalizzati nel Neged. All’inizio del secolo successivo gli inglesi provvidero a finanziare una loro nuova
ascesa in funzione di limitazione delle pretese dello sceriffo della Mecca, Hussein, che finì per esserne sconfitto nel 1919. Erano così stati messi nel corso della storia dell’area due fattori di perenne instabilità: la frontiera artificiale del Kuwait e la creazione della culla del fanatismo musulmano. Tutto ciò per assicurare alle potenze occidentali il controllo delle ricche giacenze petrolifere della zona. Altra storia riguarda il controllo del petrolio del Mar Caspio la cui trattazione non interessa questa rassegna.

2. Gli errori del secondo dopoguerra

Ma il corso degli eventi riservava altre miopi manovre. Già durante la prima guerra mondiale gli inglesi avevano pensato di giocare la carta sionista nel medio oriente, in funzione del controllo del canale di Suez e per creare un avamposto fedele in quella terra. È opportuno aprire una breve parentesi per delineare le origini del sionismo. Senza scomodare il falso “Protocollo degli anziani di Sion” opera concepita in funzione antiebraica, per avere una visione chiara di cosa sia il sionismo basta leggere “Lo Stato ebraico” opera fondamentale di Theodor Herzel, fondatore della sua dottrina. Bastino alcune frasi, tratti anche dai diari. “[…] Per l’Europa, costituiremo” (noi ebrei trasferiti nella Palestina) “un baluardo contro l’Asia, saremo la sentinella avanzata della civiltà contro la barbarie.” Il trasferimento nella Terra Promessa viene vista come “una terra senza popolo per un popolo senza terra” e “la popolazione araba sarebbe giusto adatta per servire ai bisogni coloniali degli ebrei”, “dovremmo sforzarci di espellere le popolazioni povere, dall’altro lato della frontiera, […] negando loro qualsiasi lavoro nel nostro paese”. Ma nonostante i massicci flussi migratori, incentivati nel periodo della
shoah, gli ebrei residenti in Palestina alla fine della seconda guerra mondiale rappresentavano il 35,1% ed avevano acquistato regolarmente il 7,6% delle terre.
Il corso della seconda guerra mondiale aveva però cambiato il panorama mondiale e con esso la presenza delle potenze occidentali in Medio Oriente. La Francia, che aveva affrontato la guerra divisa tra il governo Pétain filonazista ed il governo De Gaulle in esilio, ne uscì privata di ogni influenza nell’area, mentre emergeva come egemone la presenta degli USA; l’Inghilterra restava nominalmente l’unico controllore della zona, ma ormai era debole e dopo un decennio di resistenza doveva allinearsi alla politica di oltre oceano, cedendo così lo scettro del combinare disastri: la potenza subentrante non fu certo da meno in questo nobile sport.
Gli Stati Uniti d’America durante gli anni trenta avevano iniziato una lenta, costante e crescente infiltrazione nel controllo delle risorse petrolifere della penisola arabica, la cui scoperta in quel periodo spostava l’asse degli interessi energetici verso il sud; i tradizionali bacini di produzione irakeni ed iraniani erano divenuti non più esclusivi. Al loro interno era presente gran parte delle risorse finanziarie del movimento sionista e i suoi rappresentanti godevano di una forte influenza politica. Gli inglesi tentarono di governare il processo di sviluppo postbellico, non certo per ridare una patria unica alla “nazione araba”, ma con la solita filosofia del divide et impera. Nella loro strategia gli ebrei immigrati in Palestina dovevano servire da contrappeso, senza per questo azzerare completamente le richieste arabe: il loro punto di riferimento era pur sempre la “dichiarazione di Balfour” del 1916 in cui il Ministero degli Esteri britannico si diceva favorevole alla creazione di un “focolaio” ebraico in terra di Palestina, uno Stato ebraico che facesse gli interessi inglesi, senza per altro innescare una conflittualità elevata con gli arabi. Questa strategia trovò sanzione, nel secondo dopoguerra, con la risoluzione dell’ONU del 29 novembre 1947, che vedeva, però già presente lo zampino statunitense: in essa si prevedeva la formazione di due stati, uno ebraico ed uno palestinese, il secondo fortemente penalizzato dalla divisione. Gli arabi si opposero, i sionisti accettarono, ma covavano piani molto più radicali.
Durante il conflitto gli ebrei di Palestina, oltre ad essere cresciuti di numero, si erano armati ed addestrati, grazie alla loro collaborazione con gli inglesi, mentre gli arabi, per lo più rimasti neutrali, non avevano fatto altrettanto. Finito il periodo bellico si pensò di inviare gli ebrei (oltre 100.000) scampati all’olocausto in Palestina, che doveva accoglierli, anche se renitente, mentre gran parte di essi voleva emigrare oltre oceano, ma ne furono impediti dalle pesanti limitazioni imposte dal governo statunitense e dirottati in Medio Oriente. Nel 1948 i rapporti di forza erano ineguali. I britannici decisero di lasciare non presidiata l’area, anche perché la loro politica volta a ritardare la creazione dello stato ebraico in attesa che si formasse anche quello palestinese era invisa agli ebrei; questi si resero responsabili tramite due bande armate terroristiche (l’Irgun guidato da Menahem Begin e la Stern guidata da Itzhak Shamir, entrambi futuri presidenti del Consiglio israeliano) di continui attentati agli interessi inglesi, di cui il più eclatante fu quello del 22 luglio 1946 all’Hotel King David di Gerusalemme, sede del governo inglese, che costò la vita a 91 persone. Il posto delle truppe britanniche doveva essere preso da una forza internazionale sotto l’egida dell’ONU. I sionisti, spinti dagli USA, decisero di approfittare del periodo di transizione e il 14 maggio 1948 fu dichiarata formalmente la nascita dello Stato di Israele, subito riconosciuto dagli USA. La polizia, l’esercito israeliano entrarono immediatamente in azione espellendo i palestinesi dalle loro terre, distruggendo le loro case, compiendo massacri e  annettendo un territorio molto più ampio di quello consentito dalla risoluzione dell’ONU, mentre le bande armate avevano già dato vita a spedizioni e massacri: il 9 aprile 1948 il villaggio di Deir Yassim fu distrutto e 254 tra uomini, donne e bambini furono massacrati. I dati fanno impressione. Nel dicembre 1947 vivevano nel territorio del futuro Israele circa un milione 300mila palestinesi; nel novembre 1948 ne restavano circa 130.000. Gli espulsi risultarono circa 900.000, le terre furono espropriate, le case distrutte e 70.000 espropriate grazie al principio del “proprietario assente” e così 10.000 negozi. Tutto ciò creò una frattura insanabile tra i popoli arabi e gli ebrei. Basti citare alcune frasi seguenti al maggio 1948 da parte ebraica. Moshe Sharett il 15 giugno: “I rifugiati troveranno il loro posto nella diaspora. Grazie alla selezione naturale, certi resisteranno e altri no. La maggioranza diventerà un rifiuto del genere umano e si fonderà con gli strati più poveri del mondo arabo”. Ben Gurion, colui che lesse la dichiarazione di indipendenza e che fu il primo Presidente dello Stato: “Se fossi un
dirigente arabo non firmerei mai la pace con Israele. È ovvio: abbiamo preso il loro paese. Ci era stato promesso da Dio, certo, ma perché ciò dovrebbe interessarli? Il nostro Dio non è il loro: è vero che siamo originari di Israele, ma è un fatto che risale a duemila anni fa. In che modo può riguardarli? Ci sono stati l’antisemitismo, il nazismo, Hitler, Auschwitz. Ma è stata forse colpa loro? Essi vedono una cosa sola: siamo
venuti e abbiamo preso la loro terra”.
Ma gli USA non avevano terminato la loro opera negativa. Nel 1951 in Iran fu nominato Primo Ministro Mohammad Mossadeq, un nazionalista, che prima di tutto espropriò la compagnia inglese Anglo-Iranian Oli Company che sfruttava il petrolio iraniano. Nel 1953 Mossadeq fu deposto da un colpo di Stato organizzato dagli USA (operazione Ajax) e agevolato dal clero che temeva le innovazioni sociali che egli stava inserendo
nella società. Gli statunitensi ottennero di entrare successivamente nello sfruttamento del petrolio iraniano.
Quando allo scià, ritornato al potere dopo la deposizione di Mossadeq, toccò di essere a sua volta scacciato. Gli USA armarono contro il clero persiano il vicino Irak di Saddam Hussein e ne seguì un conflitto durato dieci anni e costato più di un milione di morti. Fu poi lo stesso Hussein a minacciare gli interessi statunitensi nella zona rivendicando ed invadendo il Kuwait che naviga su di un mare di petrolio; così nacquero la prima e la
seconda guerra del golfo, indette dai Bush padre e figlio. Ancora una volta il dominio occidentale si imponeva sugli interessi delle popolazioni arabe.
Nel frattempo gli USA avevano concepito una nuova strategia volta a destabilizzare l’Unione sovietica: agitare le masse musulmane al suo interno, nella cintura asiatica meridionale, stimolando dall’esterno il fondamentalismo islamico. L’URSS reagì invadendo l’Afghanistan e gli USA armarono Bin Laden ed il clero sunnita in funzione antisovietica.

3. Alcune considerazioni

Nell’ultimo secolo di storia le masse arabe e musulmane del vicino oriente sono state pervicacemente frustrate nelle loro aspirazioni. Il fondamentalismo religioso, fino agli anni venti del secolo scorso marginale, è stato costantemente incentivato per dividere gli interessi nazionali e spostare l’attenzione sull’identità religiosa.
Finito l’impero ottomano, i popoli del medio oriente hanno visto le proprie terre oggetto di dominio e spartizione da parte delle potenze occidentali. Le ricchezze su cui risiedevano e di cui non avevano piena coscienza sono state sistematicamente depredate a vantaggio di tutte le altre economie. Tutto ciò ha comportato continui conflitti e devastazioni dei loro territori. Come stupirsi ora se parte di quelle masse diseredate vedono nel ritorno ad una visione rigida del proprio credo religioso (credo che in epoche lontane le aveva portate ad essere una potenza planetaria ed a possedere un territorio immenso) la sola possibilità di riscatto, in grado di rianimare la propria opposizione alla soggezione militare e culturale cui sono state sottoposte, restituendo loro identità e compattezza?

Maggiori informazioni su: FILIPPO GAJA, Le frontiere maledette del Medio Oriente, Maquis, Milano 1991.