La rotta balcanica

I 500 mila morti per covid (fino ad ora) in Europa hanno contribuito a distogliere l’attenzione dall’ecatombe che si consuma ai confini dell’Unione. Non ci riferiamo in questo caso alle migliaia di morti che vanno ad alimentare il cimitero a cielo aperto nel quale è stato trasformato il Mediterraneo ma a quella che viene chiamata la “rotta balcanica” che partendo dalla Grecia e dalla Turchia tenta di raggiungere via terra il centro dell’Europa e la Gran Bretagna. Si tratta di migranti in cammino da 5 – 56 anni, provenienti dall’Afganistan, dal Pakistan, dall’ Irak, dalla Siria espulsi dalle guerre e dalla fame dai loro territori ai quali si sono via via aggiunti altri disperati provenienti da ogni parte del mondo. A bloccarli in Turchia,a pagamento su fondi UE e Erdogan che tuttavia li lascia filtrare poco a poco, aprendo il rubinetto e producendo con la propria
politica di potenza regionale sempre nuovi profughi e rifugiati e minacciando all’occorrenza di aprire le frontiere.
Ma c’è un fronte “avanzato” di contenimento costituito dai campi bosniaci, realizzati in un territorio già disastrato da decenni di guerra civile . Questi campi sono concentrati nei cantoni multietnici della Federazione bosniaca che costituiscono il territorio immediatamente a ridosso di quello europeo. L’entità bosniaca serba, la Repubblica Srpska che occupa il 40% circa del territorio del paese sembra essere esente da campi ,ma per il solo fatto che la polizia non permette la sosta e perché il suo territorio non è immediatamente a ridosso dei confini della Croazia, primo territorio di transito dell’Unione.
Il risultato è la creazione a Lipa, a Bihać, a Velika Kladuša, tutti concentrati nel cantone di Una Sana. È qui in condizioni miserabili, in tende di fortuna, senza acqua e servizi igienici degli di tal nome ad almeno 10 gradi sotto zero che i migranti attendono di passare o vengono stipati quando vengono respinti in Bosnia dai tre filtri costituiti dalla polizia Croata, da quella slovena e da quella italiane, pestati e depredati di tutto, a cominciare dal loro bene più prezioso, il telefonino satellitare, indispensabile a comunicare a per orientare il cammino.
Questo dramma lascia indifferenti i politici europei che hanno fatto la scelta della selezione eugenetica. Scaraventando queste persone nell’inferno dei campi, lasciano che sopravvivano solo i più forti, che si realizzi quindi una selezione “naturale”, alla fine della quale solo chi sarà riuscito a sopravvivere avrà, forse un giorno, la possibilità di entrare in Europa, ricongiungersi a famiglie e parenti, aspirare a un’improbabile vita migliore.
Se da un lato il continente dovrebbe attentamente considerare il proprio assetto demografico valutando criteri razionali delle popolazioni sul territorio certo la scelta non può essere quella di puntare alla ”selezione naturale”attraverso le malattie, la sofferenza e la morte. L’individuazione di una politica migratoria che fissi dei criteri per consentire l’ingresso nel territorio, attraverso corridoi umanitari non può essere disgiunta da interventi di pacificazione sul territorio per impedire che le popolazioni siano costrette alla fuga e al tempo stesso consentire il rimpatrio volontario assistito a
quelle persone che non hanno possibilità di accoglienza.
In problema sarà insolubile fino a quando non si modificheranno i criteri di sfruttamento e utilizzazione dei territori, impegnando risorse per contrastare e arginare la desertificazione climatica dei territori e fino a quando non si comprenderà fino in fondo l’iniquità del sistema capitalistico di sfruttamento dell’uomo sull’uomo (e sulla donna).
Non costituisce una semplificazione concludere che solo una diversa configurazione dei
rapporti produttivi e di potere può dare delle soluzioni che allevino le diseguaglianze sociale e consentano per tutti una vita più degna di essere vissuta.