VENIAMO DA LONTANO

Il 2021 ci consegna il centenario dalla nascita del Partito Comunista d’Italia (poi Partito Comunista Italiano). Il tempo trascorso dovrebbe perlomeno orientare verso una discussione di carattere storico e meno tifosa.
Ma noi siamo sicuri che non sarà così ed in fondo questo potrebbe non essere un male, a testimonianza di ancora un qualche interesse non solo filologico verso tematiche e questioni che tutto dovrebbero essere meno che fredde analisi accademiche.
Allora invece di occuparmi dell’inizio, vorrei in queste poche righe interessarmi alla fine.
Il PCI dalla fine della Seconda Guerra Mondiale diventa un partito di massa. È un cambiamento enorme rispetto al partito della clandestinità degli anni del fascismo. Seppure il suo orizzonte sia quello della Russia Sovietica, titolata ormai anche per il contributo fondamentale alla sconfitta del nazismo, i dirigenti si barcamenano fra una
situazione oggettiva, data dai rapporti di forza internazionali che congelano le situazioni stabilite dopo la guerra, e una soggettiva data dall’essere un partito nato per realizzare il comunismo.                                                                                                                  Non si tratta della stra-abusata “doppiezza”.                                                               Bisogna essere chiari, in quella situazione nessuna doppiezza sarebbe stata possibile. Lo iato era fra una narrazione rivoluzionaria e una situazione reale che frenava qualunque possibile attività, non dico rivoluzionaria, ma neppure socialdemocratica spinta. [1]
Un partito di massa, per definizione, non può più pensare a se stesso come avanguardia rivoluzionaria [2] e l’accettazione del sistema democratico ed elettorale era visto come un lungo percorso verso il socialismo (curiosamente senza neppure un accenno alla socialdemocrazia, la quale, nei fatti, era l’unica strada, quando si
esclude il progetto rivoluzionario, per arrivare ad una qualche forma di socialismo per vie pacifiche).
Anche sotto questo aspetto, la strada per quanto non fosse obbligata, era assai stretta.
Ma per il PCI i problemi erano altri. Sia detto ovviamente con il massimo rispetto per un partito che ha comunque educato alla politica milioni di persone (sia pure come vedremo, sotto con enormi problematiche all’interno dello stesso soggetto politico e con una certa abitudine alla semplificazione manichea e all’assoggettamento acritico ai gruppi dirigenti).
Del resto nel 2021 sarebbe quantomeno sbagliato riproporre polemiche d’altri tempi come se fossero realmente importanti e cogenti.
Uno dei problemi esiziali, ma anche, spesso, il meno rilevato nella discussione era la subalternità ideologica al liberismo.[3]
Una subalternità che faceva il paio con il fraintendimento della frase di Lenin sul “colonialismo straccione” (già di per sé prodotta in un contesto ben specifico) e che analizzava l’economia italiana dal punto di vista di quali passi, per essere  “capitalisticamente ortodossa”, avrebbe dovuto compiere (le famose incompletezze italiane “la riforma”, “la rivoluzione” ecc…ecc… che ancora oggi vengono propinate come soluzioni per essere un paese “normale”. Vattelapesca quale fosse questo paese normale).
Quindi l’inflazione nientemeno che anticamera del fascismo come sosteneva Amendola (una curiosa lettura dell’affermazione dei fascismi, che ancora oggi viene venduta nel panorama mediatico, la quale, oltre che essere monocasuale, è pure sbagliata), il freno ai sindacati come “cinghia di trasmissione” (forse quella cinghia andava comunque allentata ma non certo recisa come oggi) e l’incapacità di capire non solo quel presente che di lì a poco avrebbe portato un cambiamento epocale nella società italiana, trasportandola dalla fase agricola ad industriale in una manciata di anni, ma pure il passato che conteneva in sé quel possibile sviluppo.
Il problema era che il liberismo (e il liberalismo) furono i contesti nei quali quella classe dirigente si formò e che diventò poi una specie di antifascismo liberale.
Questo fardello il Partito Comunista però se lo portò dietro per molti anni fino agli anni settanta. Dopo quello non fu più un fardello ma un paradigma. Assunto consapevolmente su di sé.
Mentre il capitalismo stava cambiando faccia e metodi[4], anche perché la stagione di enorme conflittualità sociale aveva un po’ spuntato le unghie (appena appena) alle classi dominanti (che sempre dominanti erano ma che dovevano comunque
venire a patti per evitare il peggio: Statuto dei lavoratori ecc….) e quindi c’era da riprendersi il “bentolto”.[5]
Il Partito Comunista, che aveva visto ormai la propria base divenire enorme, ma anche, sempre più moderata e conservatrice (pensionati, classe media, lavoratori autonomi -per non parlare del capitalismo familiare della Toscana con migliaia di “piccoli imprenditori” rigorosamente iscritti al PCI) prendeva una strada che possiamo  suddividere in vari spezzoni:
1) la democrazia compiuta come un accordo di vertice fra i due partiti più popolari (il c.d. “compromesso storico” che non nasce su input del colpo di stato in Cile ma è parte integrante di una determinata concezione della democrazia [6 ] );
2) proporsi quindi come forza di governo affidabile sia sul piano internazionale (La Nato sotto il cui ombrello anche Berlinguer si sente al sicuro) sia su quello interno (la moderazione salariale, la svolta dell’EUR);
3) rassicurare la base con prese di posizioni “di principio” apparentemente radicali, in realtà spesso moralisteggianti (questa sarà una delle eredità che passeranno in toto ai nuovi soggetto dopo la fine del PCI);
4) predisporre il “buon governo” nelle Regioni in cui il PCI è alla guida.

Sia chiaro la fase degli anni ‘70 è stata contraddistinta da enormi passi avanti sul piano della legislazione sociale con la creazione del SSN, lo Statuto dei lavoratori e non si tratta certo qui di fare una qualche specie di processo ex-post.
Tuttavia quella temperie riformatrice, che ha il suo precipitato fra gli anni 70 e i primissimi anni ‘80, è certamente figlia della fase precedente più che di quella nella quale quelle riforme arrivano a compimento.
Lo sfilacciamento fra il Partito e i giovani, e le nuove realtà prodotte dai cambiamenti del sistema capitalistico di cui sopra, diventa drammatico prima degli anni ‘80.
La diffusione delle incertezze nel mondo del lavoro sull’onda del riassestamento neo-liberale (il precariato intellettuale, il “discorso” pubblico sempre più criminalizzante di ogni devianza) le innovazioni tecnologiche nell’industria, la finanziarizzazione dell’economia.
Tutti fenomeni che vennero combattuti con armi spesso spuntate, affrontandoli dal lato esclusivamente politico e non sistemico, spesso da quello morale ma con una costante incapacità di comprendere il cambio di paradigma che stava avvenendo.
La sconfitta del referendum sulla scala mobile (in cui in realtà il gruppo dirigente del PCI non fu in sintonia con Berlinguer) è la dimostrazione dell’aggrapparsi a vane speranze di riportare indietro il treno che ormai aveva attraversato ben altre stazioni.
In quel contesto di fine decennio non va dimenticato, per correttezza storica, il declivio “securitario” preso dal PCI dalla metà degli anni ‘70, anche qui non per un qualche errore di calcolo, ma per il combinato disposto della serie di elementi costitutivi del partito: accreditarsi come candidato accettabile per il governo, evitare divisioni all’interno (nessun nemico a sinistra), ritenere il fenomeno della violenza non accettabile a sinistra e, anzi, neppure dicibile (da qui le varie teorie tese ad accreditare “infiltrati”, “complotti”. Ma questa è un’altra storia [7] per cui sarebbe necessario ben altro approfondimento).
Dalla metà degli anni’80 il partito è spiazzato dalla virulenza innovativa di Craxi, che gestisce il proprio mandato innanzitutto avendo come avversario il PCI ed evitare di essere di nuovo fagocitato dall’egemonia comunista.
L’occasione per ricucire l’alleanza fra PSI e PCI si allontana definitivamente e la responsabilità va equamente condivisa fra i 2 soggetti.
Il progetto Craxiano fallisce sul piano politico (il PSI non vedrà mai l’”onda lunga” nelle urne) ma trionfa nella società: la fine degli anni ‘70 provoca un contraccolpo epocale. Il movimento operaio viene attaccato a mani basse dalla ristrutturazione tecnologica (la scienza non neutrale) dai media unificati che tutti i giorni ridicolizzano ogni richiamo alla lotta di classe sull’onda del “nuovo che avanza”.[8]
A livello globale la finanziarizzazione dell’economia è ormai matura, Reagan, Tatcher e Craxi rappresentano i volti della nuova fase “post-moderna”.
Fine delle grandi narrazioni. Fine del conflitto di classe (“siamo tutti sulla stessa barca”) e fine della società (Tatcher).
In pochi anni il sistema sovietico collassa e i leader “innovatori” non sono in grado di evitare la rovinosa caduta. L’uno (Gorbaciov) perché era impossibile pensare di far transitare un gigante come quello sovietico all’economia di mercato se non in tempi lunghissimi. L’altro (Eltisn), a parte il tasso alcoolico, perché finisce il lavoro dell’altro.
Questo periodo accelera vorticosamente anche la fine del c.d. “socialismo reale” e non certo per la repressione di figuri che in occidente divengono martiri e, spesso, sono solo dei reazionari fatti e finiti, ma per l’incapacità di quel sistema di competere con le economie avanzate, con la enorme e abnorme crescita dei consumi individuali occidentali, per la obsolescenza delle strutture industriali e per le enormi risorse che la bufala delle “guerre stellari” reaganiane avrebbe comportato.                                    Curiosamente, ma non troppo, quella repressione (su cui l’assenza di immagini si innesta anche sulla mancanza quasi totale di una sua lettura storica o anche solo cronachistica. L’occidentale medio ieri ignorò cosa successe se non per il refrain “dagli al comunista” oggi non lo ricorda e non gliene frega nulla) evita alla Cina la fine
dell’ex-Urss avviandola verso l’egemonia mondiale attuale L’ultimo vero capo del PCI, Enrico Berlinguer, con la sua morte drammatica, porta il PCI nelle case di tutti gli
italiani come un partito di gente “seria” che piange ai funerali e l’immane corteo funebre diventa anche un velo che, per anni, coprirà il cambiamento strutturale del partito e anche l’inizio della fine.
Lo stesso Berlinguer, quasi santificato come Aldo Moro (rappresentato in una statua a Maglie con l’Unità in mano, a significare come la storia reale possa essere completamente cancellata dalla narrazione) diventa un oggetto difficilmente criticabile [9] e, nella memoria collettiva, viene rappresentato quasi come un deus ex machina.
Si diffonde la narrazione del tutto antitetica alla realtà storica, di un qualche futuro di “latte e miele” che il compromesso storico avrebbe portato, interrotto dall’uccisione di Aldo Moro.[10]
Anche in questo caso è inutile ricordare i fatti avvenuti. Il mito sovrasta ogni oggettività.
In questa serie di sbandamenti della società e il crollo, l’implosione, di un sistema, si innesta la fine ingloriosa di un partito che ha attraversato la storia d’Italia.
Beninteso, se è vero che nessuna storia è mai scritta in anticipo, è anche vero che alcuni risultati non possono essere considerati del tutto alieni dalla struttura e dalla concezione stessa di quel partito: anche, e, anzi proprio, nel caso di un ribaltamento totale delle radici stesse.
Il PCI, che per decenni ha cercato di distinguersi dai paesi d’oltrecortina, si trova, alla fine degli anni ‘80 in un empasse che avrebbe avuto bisogno sia di una leadership forte ed autorevole, che di un progetto. Ma si trova in mano al più debole dirigente che abbia mai avuto, Achille Occhetto e al gruppo di rampanti quarantenni, i quali, seppure dotati di ampio spessore teorico (D’alema, ma non certo Veltroni), sembra che fremano dalla voglia, soprattutto, di liberarsi della zavorra con cui hanno convissuto per decenni.
Guardano a Craxi, al percorso socialista e, per quanto moralmente sdegnati, quella è la strada verso cui vorrebbero dirigersi.
Il PCI viene così liquidato ad ampia maggioranza. Proprio a seguito del crollo  dell’URSS, con una tempistica assai azzardata, anche se, a seguito di quei fatti epocali, una decisione andava presa.
Questo aspetto è significativo. Per due ordini di motivi. Innanzitutto il percorso che avvia la liquidazione del partito è in realtà deciso in anticipo,[11] e, quindi, le discussioni immortalate da Moretti ne “La Cosa” appaiono un po’ come i percorsi partecipativi delle amministrazioni pubbliche.                                                                                                Si condivide una decisione già presa.                                                                               L’altro aspetto, maggiormente interessante, è l’adeguamento della massa dei militanti che aderisce alla fine di un soggetto politico nel quale, molti di loro, avevano davvero vissuto una vita intera.
Si ubbidisce, cioè, al gruppo dirigente, purchessia.
Alla nascita di Rifondazione (sulla quale qui non ci possiamo soffermare [12]) gli attacchi a chi aveva aderito (qualche ex-Pci ma molti che mai avevano militato in quel partito) a quella nuova compagine furono furiosi.
Se, da un lato, questo comportamento poteva essere comprensibile in contesti di emergenza, o di disciplina, è difficilmente spiegabile per una strada che conduce alla fine della propria storia politica.
Venne cioè rovesciata su chi non aveva accettato il diktat della chiusura del partito l’accusa di tradimento e scissione. Curiosa nemesi per un partito che da una scissione era nato, ma anche indice del significato che nel PCI veniva dato alla militanza.
E per ribadire l’accusa si sottolineava (in un percorso logico davvero inquietante) che bisognava aderire al nuovo soggetto perché nel PCI vigeva la disciplina e il centralismo democratico.
Cioè si richiamava il comportamento di un partito che si era deciso di liquidare per stigmatizzare chi con quella liquidazione non era d’accordo.
Insomma, si doveva seguire il percorso di scioglimento del PCI perché la disciplina del PCI imponeva ai militanti di obbedire alla decisioni della dirigenza, mentre chi non voleva lo scioglimento del PCI non era degno di essere comunista.
In questo delirio logico si sommava il concetto della “storia che va con noi” con il paradosso del mentitore.
Detto questo, quel partito fu chiuso non per far nascere un soggetto socialdemocratico, ma per aderire compiutamente al capitalismo come unico orizzonte. Si passava dal comunismo al liberismo senza stazioni intermedie, ma sulle parole d’ordine che erano state del PCI, “nessun nemico” A sinistra? No nessun nemico e basta.
Ebbe buon gioco Berlusconi a sfottere i cambi di nomi che da allora si sono succeduti, a dimostrazione che ormai la politica era diventata solo un brand. Solo che questo brand oltre che scadente era assai poco appetibile. Se il nuovo mantra era “mercato-arricchitevi-imprenditori di voi stessi” certo i soggetti che dirigevano l’ex-pci erano assai poco credibili oltre che per nulla divertenti.
Poi iniziò la discesa libera. Spogliati di ogni remora, il percorso avviato nel 1991 portò a cambi di nome e posizionamenti sempre più a destra dello schieramento politico e pure, e soprattutto, economico.
Alfieri delle privatizzazioni, europeisti senza macchia anche di fronte all’evidente distorsione della UE sotto tutti i punti di vista, fautori di sciagurate modifiche costituzionali.
Per reggere tutto questo riorientamento era necessario costruire una contronarrazione adeguata (si sarebbe detto una volta “la sovrastruttura”). Eccolo lì, il moralismo spicciolo, contro Craxi (più che altro dettato da invidia personale) contro Berlusconi, a difesa senza se e senza ma della magistratura. Il rilancio di una diversità fatta
solo di “pappa del cuore” e sfumata da chissà quanto.
Addirittura, dopo l’esitazione del 1991 con una quasi opposizione alla Guerra del Golfo, con l’appoggio e il sostegno ai bombardamenti in Kosovo, con la morte di migliaia di civili e con il supporto dei militanti!!!
E arriviamo alla nascita del PD, una costruzione nata sulla leggenda del compromesso storico, il quale, perlomeno, non sosteneva la fusione di partiti diversi. Spacciato anche qui come necessità storica, sommati alla scelta demenziale delle primarie aperte, portò alla scalata, dopo pochi anni, da parte di Matteo Renzi.
Renzi. L’idolo delle folle i cui seguaci oggi valgono più del Gronchi Rosa (anche se è tornato a fare quello che gli riesce meglio, ovvero camuffare la propria nullità politica con il solo spregiudicato cinismo – al limite del banditismo).
Con Renzi la militanza degli ex-pci e anche ex-dc (ma più preparati) si muta definitivamente in tifoseria, in setta religiosa con accenni squadristici, con la violenza verbale, il dileggio dell’avversario, le carriere fulminanti.
Si parla spesso, e a sproposito di fascismo (che pare diventato un moto dell’anima più un fenomeno concretamente piazzato nella storia). Francamente non riesco a ricordare nulla di più simile al fascismo (beninteso senza elementi fondamentali quali la milizia armata e la violenza) del periodo renziano, dove gruppi di incapaci miracolati divennero fedelissimi esecutori legati mani e piedi al capo. Il culto della personalità elevato a sistema.
Con Renzi e la sua violentissima parabola, a mio parere, viene a conclusione davvero una storia lunga un secolo. Ovvero anche la minima traccia del soggetto politico nato nel 1921 viene cancellata.
Un partito che ha avuto grandissimi meriti dal punto di vista della difesa della democrazia borghese (spesso difesa per conto terzi e con la virulenza tipica dei neo-adepti) e anche della maturazione politica di generazioni di lavoratori.
Una militanza che oggettivamente è impossibile da comprendere oggi ma che ha educato alla politica, alla lotta milioni di lavoratori.
Ma di quel percorso non rimane più nulla.

[1] Donatella Della Porta, nel suo lavoro Polizia e protesta; l’ordine pubblico dalla Liberazione ai no global, Il Mulino, Bologna, 2003, elenca una serie impressionate di morti dovuti alle forze di polizia, ormai epurate dai partigiani, per le quali il nemico principale rimaneva la classe operaia. Vi è anche da ricordare che Scelba, seppure avesse creato una forza specifica dedicata all’ordine pubblico, la quale per quanto estremamente violenta, superava l’azione puramente militare del passato contro le manifestazioni, nel suo progetto per mettere fuorilegge il MSI (che spesso viene rammentato solo a metà), aveva messo in conto di predisporre anche la stessa misura per il PCI, (come era accaduto in Germania).                                                                     [2] Non troppo paradossalmente questo fu il percorso intrapreso da chi, negli anni ‘70 del secolo scorso, si indirizzò verso la scelta della lotta armata.
[3]Questo aspetto è evidenziato dalla biografia di Aldo Agosti, “Togliatti”, Utet, 1996.
[4]Giovanni Arrighi “ Il lungo XX secolo”, Il Saggiatore, 2004-2014.
[5]Per una testimonianza della chiarezza con cui le classi dominanti operano è da leggere senz’altro Cesare Romiti, “Questi anni alla Fiat”, Rizzoli, 1988,
[6]Vedi Enrico Berlinguer “Per un nuovo grande Compromesso Storico”Castelvecchi, 2014, In particolare l’introduzione di Fabio Vander. È da notare che del colpo di Stato in Cile se ne dà una lettura tutta “politica” in senso stretto (e certamente vicenda politica è) ma si dimentica di guardare e comprendere il “laboratorio” neoliberista.                        [7] Davide Steccanella, “Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata”, Bietti, 2018. Questo periodo accelera vorticosamente anche la fine del c.d. “socialismo reale” e non certo per la repressione di figuri che in occidente divengono martiri e, spesso, sono solo dei reazionari fatti e finiti, ma per l’incapacità di quel sistema di competere con le economie avanzate, con la enorme e abnorme crescita dei consumi individuali occidentali, per la obsolescenza delle strutture industriali e per le enormi risorse che la bufala delle “guerre stellari” reaganiane avrebbe comportato.      [8] Famosa la vignetta di Altan; “Mi sorprende questo riflusso moderato”. “Mi devo essere perso il flusso progressista”. In questo contesto entra anche la repressione cinese a Tienammen, su cui parte un attacco ad alzo zero contro il PCI a cui viene richiesta ogni tipo di abiura (strada che aveva intrapreso ormai da tempo).                   [9] Vedi le varie biografie su Berlinguer.
[10]Su Aldo Moro è da leggere Massimo Mastrogregori “Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica”, Salerno, 2016.
[11] Vedi Luca Telese, “Qualcuno era comunista”, Sperling & Kupfer, 2010.
[12] Vedi Severino Galante, “Cronaca di una scissione: dal Pci al Prc. 11 marzo 1990-3 febbraio 1991”, Del Bucchia, 2017.

Andrea Bellucci