Una svolta “pocale”

Un pericoloso paranoico non sarà più l’uomo più potente del mondo e questo
non può che farci piacere. Le fanfare del momento parlano di fase epocale
della politica statunitense e, di conseguenza, mondiale, ma è veramente così?
La domanda merita una risposta articolata su piani diversi.

Un po’ di storia

Negli ultimi due secoli l’alternarsi di amministrazioni conservatrici e progressiste ha contraddistinto epoche in cui gli Stati Uniti d’America erano attenti alla politica interna e relativamente disinteressate all’arengo internazionale ed epoche in cui si accentuava l’interventismo negli affari altrui. Questa seconda tendenza è andata accentuandosi nel XIX secolo, sfociando nella difesa degli “interessi nazionali” in qualsiasi parte del globo essi venissero ravvisati; la potenza militare dello Stato nordamericano, basata sulla ricchezza di materie prime, fertilità del suolo, massiccia immigrazione di manodopera spesso professionalizzata, opulenza finanziaria, crescita smisurata dell’apparato produttivo, progresso tumultuoso dell’innovazione grazie ad una ricerca scientifica di altissimo livello supportata da cervelli provenienti dalla vecchia Europa, la potenza militare, si diceva ne ha fatto il “gendarme” del mondo, mentre la potenza economica ne faceva il fulcro dell’impero capitalistico. Il nuovo secolo ha infranto lo schema alternativo sopra descritto, mentre i due partiti che si contendono il potere hanno via via assunto caratteristiche più differenziate. A lungo la competizione si è sviluppata tra programmi non troppo dissimili (se si eccettua la “nuova frontiera” di John Fitzgerald Kennedy, anomalia ben presto spenta), ma l’apparire sul proscenio politico del partito repubblicano di un gruppo marcatamente di destra (il PNAC, Program for a New American Century) ha insegnato, grazie all’elezione George Walker Bush, che le competizioni si vincono mobilitando le ali estreme dell’elettorato. Questo nuovo orientamento ha spostato l’asse del partito, indirizzando anche i conservatori verso un pronunciato intervento internazionale per riaffermare la preminenza statunitense.
La tempesta inaspettata di Barack Hussein Obama (sulla cui figura sarà opportuno tornare) avrebbe dovuto insegnare anche ai democratici che le elezioni non si vincono al centro, soprattutto negli USA col loro assurdo sistema elettorale, che merita un discorso apposito. L’apparato del partito, colto di sorpresa dall’irrompere del primo Presidente nero, è ritornato ai suoi riti ed alle sue convinzioni centriste, tanto da schierare nella campagna presidenziale del 2016 la figura consunta di Hilary Diane Clinton (nata Rodham), preferita a quella più caratterizzata a sinistra di Bernard Sanders pur dominatore delle primarie democratiche, che finì poi schiacciata dalla mobilitazione decisamente reazionaria del candidato opposto Donald John Trump.

Da Obama a Hilary

La novità di un Presidente nero fu salutata in tutto il mondo come una grande vittoria progressista, fino al punto che a meno di un anno dal suo insediamento, il 9 novembre 2009, fu insignito del premio Nobel per la pace, prima ancora che la sua strategia internazionale potesse essere messa in evidenza[1]. Vediamo il dettaglio.

[\] Scrivevamo poco dopo il suo insediamento: […] la realtà che si materializzerà con la nuova Amministrazione non è l’oro promesso dalla propaganda, anche nostrana; ed è stato possibile constatarlo con le nomine effettuate, volte a rassicurare le lobby che hanno sostenuto la sua elezione: lobby economiche, religiose e politiche. La presidenza Obama apporterà dei correttivi di rotta rispetto all’Amministrazione che l’ha preceduta, che nelle intenzioni dovrebbero contribuire ad affrontare la difficile situazione economiche ed a ricostituire la centralità degli USA nel panorama politico internazionale, deteriorata dalla proclamata volontà di imporre le proprie decisioni anche agli alleati. Alcuni interessi saranno privilegiati rispetto ad altri che hanno goduto de[1]i benefici precedentemente, alcune palesi ingiustizie sociali e giuridiche verranno corrette, ma nel complesso quello che è ragionevole aspettarsi non è molto diverso da quanto abbiamo conosciuto nell’ultima metà di secolo. Saverio Craparo,
Once Obama a time…, in Antipodi, n° 9, marzo 2009, Crescita Politica Editrice, Firenze.

Aveva promesso di smantellare la prigione illegale di Guantanamo e non lo ha fatto. Aveva promesso di sganciarsi dalle guerre in corso in Iraq ed Afghanistan, non iniziate dalla sua amministrazione, ma dopo un parziale disimpegno in Iraq non ha mantenuto neppure queste promesse. Ha supportato il movimento sionista in Israele. Ha concorso
all’intervento anglo-francese in Libia, che eliminando un sanguinario dittatore, ha lasciato il paese in mano ai signori della guerra. Ha iniziato l’intervento in Siria per liberarsi del nemico Assad ed il conflitto è ancora in corso. Ha contribuito alla spartizione dell’Ucraina, dove è ancora in corso una guerra civile. Un bel bilancio per un premio Nobel per la “pace”! Tutto ciò a dimostrazione che la politica estera statunitense di ingerenza, spesso disastrosa, negli affari di altri paesi non conosce colore. Alla fine del suo mandato il partito democratico ha schierato per la campagna elettorale
presidenziale Hilary Clinton, nella convinzione che dopo aver portato alla presidenza il primo afroamericano, avrebbe bissato il successo con la prima donna. Il miracolo non si è verificato; nonostante la candidata democratica avesse conseguito nel voto popolare circa un milione di voti in più dell’avversario, Trump vinse perché la Clinton fu tradita dai
grandi stati operai (Minnesota, Pensylvania e Michigan): moglie di un ex presidente la sua candidatura appariva come una discendenza dinastica; era troppo legata all’apparato burocratico del partito; ed infine era in corrispondenza di amorosi
sensi con i giganti economici e finanziari, di cui era espressione talmente organica da alienarsi le simpatie delle classi meno abbienti.

La scelta del 2020

Non pago dell’esperienza maturata nella tornata precedente, il partito democratico ha replicato lo schema, scegliendo un candidato di stretta appartenenza all’apparato, senatore da 48 anni. L’uomo appare grigio e senza una marcata personalità, di per sé una scelta mediocre e di scarso futuro, ma stavolta è andata meglio per tre ordini di motivi.
Prima di tutto, pur essendo un moderato di destra, Joseph Robinette Biden Jr. ha mantenuto le radici nel suo territorio, tenendo rapporti cordiali con la parte più disagiata della popolazione, cosa che lo caratterizza come un sincero democratico ed antirazzista agli occhi degli elettori. In secondo luogo ha azzeccato la scelta per la carica di vice
presidente; quando Obama sconvolse il quieto vivere del sonnecchiante partito democratico, per tutelarsi a destra dei contraccolpi dell’apparto colto di sorpresa, scelse proprio Biden per quel ruolo, ed ora lui per coprirsi a sinistra (a parte l’ala sandersiana) ha scelto una radicale (per quanto può esserlo un esponente di quel partito), Kamala Devi Harris, che gli ha garantito larga parte del voto afroamericano e femminile. Infine, e siamo costretti a citarci ancora una volta, come dicevamo nel numero 137 dello scorso settembre di questa rivista: Nonostante la scelta di una candidata alla
vicepresidenza grintosa e che da un po’ di smalto alla sua campagna elettorale Biden non può vincere con le sue proprie scarse forze; solo Trump può agevolare la sua ascesa, inanellando alcune delle sue famose gaffe, nuove o ripescate all’uopo come quella recentissimamente riapparsa sui caduti nella prima guerra mondiale. I due stanno giocando a chi perde di più. E in effetti, Trump, nonostante l’eroica galoppata finale di errori ne ha inanellati a non finire e Biden ha compostamente atteso che il cadavere dell’avversario passasse lungo il fiume. Ma che il candidato democratico fosse intrinsecamente debole lo dimostra il fatto che si è giocato il vantaggio enorme (fino a 10 punti percentuali) di cui ha goduto fino a fine settembre: alla fine ha rischiato addirittura di perdere, pur conseguendo un vantaggio di oltre quattro milioni di voti, pari al 3% di distacco.

Il sistema elettorale

Una domanda sorge a questo punto spontanea; come è possibile che un candidato con un vantaggio di oltre 4.000.000 di voti possa rischiare di perdere? Per rispondere al quesito occorre addentrarsi nel complesso sistema elettorale degli USA. In effetti, grazie a questo complicato sistema, stratificatosi storicamente nel corso dei secoli,
rispondendo ad esigenze del momento senza mai una revisione che lo rendesse democraticamente omogeneo, è successo più volte che vincesse il candidato cui erano andati un minor numero di voti popolari: abbiamo già ricordato che Hilary Clinton aveva preso nel 2016 circa un milione di voti in più rispetto a Trump, ma anche Al Gore nel 2000 aveva superato di circa mezzo milione i voti conseguiti da Bush. I passaggi che rendono altamente antidemocratico il sistema elettorale statunitense sono vari.

  •   Negli Stati Uniti d’America il diritto di voto non spetta automaticamente a tutti i cittadini; essi si devono fare parte attiva iscrivendosi alle liste elettorali e la trafila per farlo non è poi molto semplice. In seguito, non tutti gli iscritti esercitano effettivamente il diritto, tant’è che nel 2016 ha votato solo il 65% degli iscritti, che, come detto, non corrispondono all’elettorato potenziale. Ovviamente la procedura complessa esclude dal voto automaticamente le classi più disagiate ed il fatto che si voti in un giorno feriale taglia fuori coloro che lavorano; il voto anticipato ed il voto per posta tendono ad ovviare questo problema. Dopo la liberazione degli schiavi (1870), questi tesero a votare per il partito repubblicano, che, con a capo Lincoln, si erano battuti per la loro liberazione e quindi i “democratici” cercarono di impedire che votassero approvando una costituzione nel Mississippi che prevedeva test di alfabetizzazione e tasse per poter votare. Gli afroamericani sono arrivati ad esercitare il diritto di voto praticamente nel secondo dopoguerra, ma ciò non significa che per le minoranze votare sia divenuto facile, perché le amministrazioni di vari Stati si industriano a trovare espedienti per impedirglielo i con motivi burocratici o addirittura cancellandoli dalle liste elettorali. Ma i trucchi per vanificare i voti popolari non si fermano qui. Infatti si tende a tagliare i fondi ai seggi elettorali, per farli chiudere, e guarda caso questo avviene per i seggi dislocati nel quartieri più poveri.
  •  I voti si assommano per contee e poi per Stati. In tutti gli Stati, tranne il Maine ed il Nebraska, chi sopravanza gli altri candidati, anche per un solo voto si accaparra la totalità dei grandi elettori assegnati a quello Stato; i grandi elettori, 538 a livello federale, eleggeranno a maggioranza il futuro Presidente; un sistema seccamente maggioritario, se si escludono i due Stati sopra citati dove vige una divisione per
    distretti in cui vale il sistema proporzionale. È evidente che quello che conta è vincere negli Stati di poco, anche se negli altri si accumulano distacchi abissali. Questo spiega perché il volume dei voti popolari è ininfluente: Al Gore, come sopra ricordato, non arrivò alla Casa Bianca, nonostante avesse cumulato più voti, perché perse in Florida (29 grandi elettori) per poche centinaia di voti; aveva chiesto, come possibile, il riconteggio, e il vantaggio di Bush si assottigliava quando la Corte Suprema a maggioranza repubblicana lo interruppe, è appena da ricordare che il Governatore della Florida era un fratello del candidato repubblicano John Ellis Bush.
  •  Esiste un altro problema: il numero di grandi elettori assegnato ai singoli Stati è equamente distribuito? Dalle elezioni del 2008 nessuna variazione è intervenuta nel peso elettorale degli Stati e quindi gli spostamenti di popolazione rendono poco attendibile la ripartizione. Per fare un esempio, La California i più pesante degli Stati (55 Grandi Elettori) resta comunque, grazie al suo sviluppo economico e demografico, il più penalizzato. Per un’analisi attenta si veda: https://www.washingtonpost.com/graphics/politics/how-fair-is-the-electoral-college/.

I risultati

Al momento in cui scrivo queste note lo spoglio delle schede non è terminato. I tempi di scrutinio biblici dipendono dal fatto che i Grandi Elettori vengono nominati nella capitale di ciascun Stato e lì devono affluire i voti delle singole contee. Questa farraginosa procedura, tutt’ora in voga nell’era digitale, risale ad abitudini del primo XVIII secolo,
quando le notizie viaggiavano a cavallo. Quelle che mancano al momento attuale sono pugni di schede nei singoli Stati, tali da non inficiare i singoli risultati, se si eccettuano Alaska, North Carolina e Georgia: comunque dovesse finire il testa a testa in questi ultimi Stati non turberà l’esito finale che secondo ragionevoli calcoli dovrebbe attestarsi con 306 voti per Biden e 232 per Trump. I voti popolari raccontano un’altra storia: Biden 75.559.513 voti, pari al 50,68%; Trump 71.032.721 voti, pari al 47,65%: un distacco di 4 milioni e mezzo di voti incolmabile. L’ignobile (nel senso letterale del termine) ciancia di brogli elettorali di cui non fornisce prove. Dice un proverbio: chi mal fa, mal pensa! In effetti gli unici due fermati con una camionata di schede falsificate sono stati due suoi supporter di Philadelphia, la capitale della Pennsylvania, lo Stato in cui si è giocata la partita decisiva. Trump, sapeva che i suoi elettori, incuranti della pandemia per
scelta ideologica, si sarebbero recati di persona ai seggi, cosa che non avrebbero fatto gli altri, preferendo il voto postale; così a giugno aveva provveduto a nominare Postmaster General and Chief Executive Officer (direttore generale della Poste statunitensi) un suo fedelissimo: Louis DeJoy, che ha cercato di bloccare alcuni finanziamenti al fine di depotenziare il servizio ed oggi si parla di centinaia di migliaia di schede elettorali non pervenute; infine nello Stato della Florida, il cui Governatore è il repubblicano Ron DeSantis, si denuncia la scomparsa del 2/% di schede elettorali, tutte
provenienti dai quartieri degli afroamericani.

Le prospettive

La presidenza ormai in scadenza è sicuramente al di sotto ai qualsiasi critica; ma come sarà quella ventura? Sicuramente più accorta con i propri alleati, meno aggressiva con i propri avversari, più rispettosa dei trattati e delle istituzioni internazionali: la forma diplomatica sarà ripristinata. Alcune riforme dell’Amministrazione Obama, azzoppate
nell’ultimo quadriennio, verranno recuperate. Ma chi si aspetta che la politica estera degli stati Uniti d’America e la loro politica sociale subisca una radicale svolta (quella epocale che i giornali annunciano a titolo cubitali) verrà presto disilluso. Il razzismo, il sessismo, l’emarginazione sociale non subiranno un radicale ridimensionamento. Il medio oriente resterà in stato di conflitto permanente e gli USA continueranno a far perno in quell’area sulla potenza militare di Israele, pur non dismettendo i rapporti privilegiati con l’Arabia Saudita. Diminuirà la tensione con la Cina, la cui potenza
economica incute giocoforza rispetto, ma permarrà la tensione con la Russia, a meno che l’occaso di Putin non renda più maneggevole quella nazione. Forse si rinnoverà l’interesse per le immense riserve naturali dell’Africa, Nella sostanza assisteremo ad un ritorno a linee strategiche e sociali già ampiamente consolidate. Nihil sub soli novi!

Saverio Craparo