THE DAY AFTER

Le elezioni in Toscana sono andate come previsto. Ma, come nei romanzi distopici, si nega perfino l’evidenza e si continua a dire che “L’abbiamo scampata bella”.
In realtà il distacco di 8 punti tra Giani e gli avversari non segna nessun drammatico rischio “fascista” e se la destra ha raggiunto percentuali oggettivamente elevate questo è dovuto alla logica conseguenza della polarizzazione del voto che ha stritolato qualunque altra ipotesi.
Fatto sta che nella nuova compagine regionale non vi sarà più nessuna forza di “sinistra” (per quanto bisognerebbe tornare a discutere sul senso di questa parola, al di là dei posizionamenti geografici) che possa perlomeno portare avanti qualche istanza ragionevole sulle varie questioni ambientali-sanitarie-securitarie, dove la maggioranza che ci ha salvato dal “fascismo” non pare avere idee molto diverse dalla destra sporca brutta e cattiva.
Non si vuole dire qui che i 2 soggetti siano uguali. Perché non lo sono. Si vuole dire che il loro percorso ideologico non prevede nessuna alternativa al capitale come stato di natura (il che è oltretutto un controsenso rispetto alla fase del capitalismo attuale) e la loro differenza si esplicita nella parte esteriore della struttura socio-economica.
Una volta si sarebbe detto: “sovrastruttura”. Se non fosse che tale termine è in realtà più complesso della definizione che normalmente se ne dà. Nel nostro caso, purtroppo, di questa complessità non c’è traccia e la “sinistra” si differenzia dalla destra, molto spesso, per un mero e diverso approccio linguistico.
Sia chiaro, anche l’approccio linguistico è importante, ma siccome noi volgari materialisti siamo convinti che alla base di ogni libertà, anche personale, ci sia soprattutto la libertà dall’essere sfruttati, non ci possiamo accontentare di idee e proposte tese a salvaguardare i diritti civili (sacrosanti e imprescindibili) senza che essi
poggino i piedi su una indispensabile base materiale.
Altrimenti quei diritti saranno solo un altro esempio della fasulla uguaglianza formale delle società liberali.
La destra, becera, ma non idiota, ha capito che su questo iato può incunearsi con facilità. E lo fa benissimo, con discorsi binari e brandendo l’arma del tutto fasulla (ma convincente) del solito anticapitalismo-reazionario che glorifica una inesistente età dell’oro della piccola bottega locale, dell’industria “italiana” contro il “mostro” della
finanza e, ovviamente, evitando bene di assumere qualunque atteggiamento “di classe” (sostituito dal razzismo e dalla xenofobia, dai deliri della “sostituzione etnica” e dall’attacco a “Soros” in quanto ebreo-capitalista).
Tornando quindi alla Toscana, l’aver evitato i “barbari” non mi pare quindi un grande motivo di soddisfazione, stante una situazione complessiva, la cui “diversità”, sempre meno evidente (e se c’è ancora) nasce da una eredità storica lontana che si prolunga ancora oggi e non certo dalle scelte, dalle idee, dai programmi e dalle convinzioni dell’attuale compagine al governo.
Il capoluogo della Regione, Firenze, appare ormai come una grande galleria commerciale, svuotata dei suoi abitanti e riempita di luoghi dove mangiare (ormai le città turistiche sono un mangificio), senza nessun appiglio a quella storia che pure si vuole continuare a vendere.
Una storia senza conflitti, senza classi sociali, guerre, lotte. Pacificata e vendibile al pubblico sotto l’egida mostruosa di un “bello”privo di ogni spessore, di lacrime, sangue, sudore. Materie delle quali dovrebbe essere composta ogni storia vera.
Una Firenze senza studenti, deportati nella più efficiente e nascosta periferia. Portatori ormai di bisogni solo economici e non di proposte, critiche, ribellioni.
Spazi sanificati, resi algidi da restauri perfetti, città immobili, senza persone reali, senza quell’anima violenta ma necessaria che da sempre caratterizza gli spazi veramente vivi.
Una galleria commerciale a cielo aperto: ordinata, pulita e soprattutto innocua.
La pandemia aveva reso spettrali le città italiane vuote. Spettrali ma più vere di quelle piene.
Il turismo di massa collegato alla espulsione dei residenti e alla eliminazione di ogni conflittualità sociale (gli “sgomberi” della aree occupate sono una delle tante occupazioni bipartisan Lega-PD) ha cambiato il segno dei luoghi trasformandolo in meri convertitori di flussi di denaro, vera caratteristica della globalizzazione.
Quella epidemia avrebbe dovuto far riflettere sul modello di sviluppo, sule modalità distruttive di un turismo che ha ormai solo effetti deleteri e, alla fine, è pure un costo maggiore rispetto a qualunque “mirabolante” entrata.
Ma queste sono pie illusioni, un po’ “cattolicheggianti”, ovvero che da una tragedia possa nascere un mondo migliore. Se non c’è la volontà politica di crearne uno, non solo migliore, ma, soprattutto diverso, possono accadere tutte le tragedie del mondo senza che la situazione cambi.
In realtà quello che manca è uno sguardo diverso che non può provenire da questa classe dirigente, e, mi sia consentito, neppure dalla sinistra che si è auto-nominata tale e che nessuno vota più, non comprendendo nessuno dei suoi (seppur giusti) propositi.
Ecco, il voto, il momento ormai topico della politica. Quello che dovrebbe essere, semmai (e non sempre) un compimento di un lavoro e di una elaborazione è diventato l’unico scopo, l’unica ragion d’essere del fare politica. E ci si stupisce se poi l”elettorato” si comporta come tale? E che dovrebbe fare? Se tutto si condensa in quel mese di propaganda sempre più stanca e inutile (davvero, senza voler fare il qualunquista, tutti dicono quasi le stesse cose) si vota quello che deve vincere.
Il partito, l’organizzazione, la struttura sono cose importanti e oggi si apprezza sempre di più la loro mancanza.
La necessità di una filosofia generale senza che diventi una camicia di forza ma che neppure rifiuti di interpretare (e voler modificare, ovviamente) il mondo, che faccia analisi complesse, che lavori con lo strumento, ancora, dell’ideologia come punto di vista e anche come occhio delle e per le classi che si vogliono rappresentare.
Invece, quello di cui si fa finta di discutere sono i “programmi”, ovvero le lenzuolate di buone intenzioni, apparentemente tecniche, in cui il sistema capitalistico non è minimamente messo in discussione (in Inghilterra addirittura si vuole vietare “l’anticapitalismo” nelle scuole [1]).
Per cambiare passo, davvero, quindi, stante le ripetute e pessime prove elettorali delle varie liste “di sinistra” ormai risucchiate nel vortice dell’elettoralismo compulsivo sarebbe necessario una riconquista dei luoghi delle città ma che non fosse la replica del refrain “ripartiamo dei territori” .
Tale modalità ha infatti portato nel tempo a battaglie del tutto condivisibili, ma parcellizzate, settoriali, rivendicative che non sono andate al di là dell’oggetto del contendere, spesso anche con ottimi risultati ma che non hanno spostato di una virgola i rapporti di forza e, anzi, spesso sono state sussunte dallo stesso potere politico che le ha trasformate in buone pratiche. Inglobandole a coso zero nella propria progettualità di governo.
Sia chiaro, è ovvio che se una battaglia va a buon fine, l’interesse è per la battaglia, per il risultato e nessun benaltrismo può far passare in secondo piano reali, seppure parcellizzati, successi.
Le elezioni confermano quindi un panorama sempre più asfittico, in cui non c’è più nessuno spazio istituzionale per istanze che, appena qualche decennio addietro, sarebbero apparse modestissime proposte riformiste.
La macchina trituratrice del neoliberismo ha, sotto la parvenza di una “libertà totale”, eroso e smontato gli spazi di partecipazione democratica, con le modiche artefatte delle leggi elettorali e della manomissione continua della Costituzione.
Certamente, la cosa non ci stupisce. Seppure favorevoli all’ampliamento delle libertà civili, e delle conquiste (in verità arrivate dopo lunghe battaglie) non ci facciamo soverchie illusioni sulle priorità delle democrazie liberali.
Ovvero, quando è necessario, la democrazia viene ridotta ad un simulacro, trasformata e piegata, resa innocua, insomma.
Quindi, al di là delle dinamiche elettorali, che paiono diventate sempre di più l’unico orizzonte delle forze politiche ancora esistenti, è necessario riuscire a saldare le lotte locali, con una visione più ampia, nel tempo e nello spazio.
Questo senza rinunciare, anzi, alla partecipazione elettorale. Ma per far crescere il consenso di un qualunque progetto politico bisogna avere spalle larghe e affrontare un lunghissimo lavoro.
Firenze sarebbe il laboratorio ideale per le motivazioni di cui sopra, e che l’accomuna a molte altre città.
Insomma, se la “Sinistra” crede ancora di poter combattere una battaglia, ogni volta, predisponendo cartelli elettorali privi di ogni previsione di vita a medio termine e pensando di ottenere consenso solamente perché pensa di essere nel giusto (cosa spesso vera, intendiamoci) è destinata a scomparire.
Sulla lista “civetta” di “sinistra” che ha appoggiato Giani, invece, c’è poco da dire, rispetto a quanto avevamo già scritto da queste parti. Oltre all’evidente danno della spaccatura della sinistra che ha impedito a TAS di superare la soglia di sbarramento (di una legge infame ma non per caso) si aggiunge la beffa di non essere a loro volta passati per la stretta via del 3%.
Forse Giani gli concederà un assessorato, dal quale i nostri potranno “condizionare” ben poco.
Ma come si dice “Chi visse sperando…:”

[1]https://ilmanifesto.it/lanticapitalismo-diventa-tabu-nelle-scuole-inglesi/

Andrea Bellucci