Eco(logia)nomia

“Già milioni i crociati del movimento ecologico. Tutta l’America mobilitata per la Giornata della Terra. Le manifestazioni tenute ieri in tutto il paese per la difesa della natura sono state il frutto di una miriade di iniziative locali ed autonome dominate dai giovani”[1]. “Dilaga in America la crociata ecologica. Tutti schierati con la Madre Terra. L’Earth Day non si è esaurito in una sola giornata dedicata alla natura, ma ha messo in moto una reazione a catena. Il governatore in bicicletta. Dall’inquinamento atmosferico alle
sofisticazioni alimentari e al problema degli slums”[2]. “La Giornata della Terra negli Stati Uniti. Ecologia come partito. Milioni di americani hanno partecipato con entusiasmo alle manifestazioni contro l’inquinamento dell’ambiente naturale. Gli uomini politici non risparmiano impegni e promesse; anche se, per respirare aria pura, si dovranno spendere cento miliardi di dollari in cinque anni[…]”[3]. Sostituite “Giornate
della Terra” con “Wednesday for future” e “inquinamento atmosferico” con “global warming” e l’analogia risulta strabiliante dopo mezzo secolo.

1. Mezzo secolo

È passato, in effetti quasi mezzo secolo dal momento in cui Dario Paccino pubblicava il suo L’imbroglio ecologico e nulla è migliorato sia dal lato di chi detiene le redini dell’economia mondiale (anche se sono subentrati nuovi potenti attori), sia dal lato di chi anima i movimenti di protesta, sempre pronti a chiedere attenzione e comprensione da chi quel potere economico e quindi di scelta effettiva ferreamente tiene in pugno;
anzi si può sostenere, a ragione, che il quadro complessivo è peggiorato. Allora il libro soffriva di un retroterra culturale estremamente ideologizzato, che ne rende la lettura odierna abbastanza respingente; solo la lettura, però, l’uso della terminologia, i ragionamenti per il gusto odierno tagliati con l’accetta. Forse è, invece, solo la
nostra assuefazione a mediare i concetti forti coerenti con la durezza del contesto, addolcendoli per renderli assimilabili ad un clima culturale ostile, in cui le istanze reali di liberazione e di giustizia sociale appaiono ormai desuete, perché risultate sconfitte (speriamo non per sempre!). Frutto dei tempi, si diceva, la fraseologia, ma non invecchiata la sostanza, quanto mai, invece, attuale. Con l’aggravante che le differenze sociali si sono dilatate enormemente, che il degrado ambientale e lo sfruttamento indiscriminato della natura ha raggiunto nuovi limiti, allora ritenuti insuperabili, pena la fine della specie umana, che una crisi economica devastante ha segnato nuove povertà senza che classi dominanti, teorici dell’economia, politici, paradigmi scientifici abbiano
subito alcun significativo mutamento per adattarsi alle nuove condizioni.

2. L’ecologia è una scienza?

All’ecologia fanno da sfondo molti ambiti scientifici: zoologia, meteorologia, geologia, chimica, fisica, botanica, statistica, etc., ma, di per sé essa non lo è. Se per scienza si intende una disciplina le cui risultanze possano essere verificate e riprodotte, l’asserzione precedente è immediatamente evidente. Nonostante tutte le discipline scientifiche suddette vengano coinvolte nel suo dispiegarsi, le conclusioni che l’ecologia ricava da esse risultano essere previsioni da verificare e le cui oscillazioni, dipendenti dal loro vario modo di mescolarsi, non offrono sicuri parametri quantitativi e temporali. Facciamo un esempio di moda. Il riscaldamento globale dipenderebbe dai gas serra. Cosa sono i gas serra? L’equilibrio termico della superficie terrestre si basa sul
giusto bilanciamento tra l’energia in arrivo sotto forme di radiazione solare in un ampio spettro di frequenze e l’uscita dall’atmosfera di calore sotto forma di radiazioni infrarosse. Alcune sostanze (vetro, plexiglass, etc.) trasparenti alle frequenze del visibile, sono viceversa impermeabili all’infrarosso: è così che le serre trattengono
il calore, è così che le autovetture poste al sole si surriscaldano. Nell’atmosfera terrestre ci sono dei gas (il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica (CO2), il protossido di azoto (N2O), il metano (CH4) e l’esafluoruro di zolfo (SF6) sono i principali) che hanno sui raggi infrarossi lo stesso effetto, impedendo loro di fuoriuscire.
Alcuni di essi sono naturali, altri sono originati dalle attività umane, o meglio il  quantitativo naturale di alcuni di essi viene alterato dall’azione dell’uomo.
Curiosamente l’attenzione tra tutti i gas serra si è soffermata esclusivamente sull’anidride carbonica. È vero che il vapore acqueo ha funzione di coadiuvante, poiché si forma e si scarica successivamente e che l’esafluoruro di zolfo (di origine artificiale) è scarsamente presente, ma forse anche il metano andrebbe monitorato. Tutti i siti che trattano del global warming hanno al proprio inizio una terrorizzante immagine di
ciminiere fumanti, dimenticando che l’aumento della concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera non dipende solo dalle emissioni, ma anche dalla diminuzione delle superfici verdi del pianeta (deforestazione) dove le piante assorbono il gas serra, producendo ossigeno. Ora la concentrazione ottimale dell’anidride carbonica nell’atmosfera viene valutata in circa 340 ppm (parti per milione) e le ultime rilevazioni ci dicono quella attuale è 417 ppm, con un aumento di oltre il 20% negli ultimi cento anni.
Da dove proviene questa attenzione spasmodica all’anidride carbonica? Ne è origine il protocollo fissato dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) che è il foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione metereologica mondiale (OMM) e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ed ha presentato il suo primo rapporto nel 1990. All’IPCC ed alle sue conclusioni aderiscono la stragrande maggioranza degli scienziati, il che autorizza a dire che i suoi rapporti e le sue indicazioni sono condivise dalla comunità scientifica. Su questa base l’opinione pubblica mondiale viene orientata a credere che il riscaldamento globale sia in buona sostanza di origine antropica e che l’atto di origine ne sia il massiccio utilizzo delle fonti energetiche di origine fossile, il cui costituente fondamentale è il carbone.
Sussiste, però, un piccolo problema: il modello su cui basa le sue analisi e le sue proiezioni l’IPCC contiene già al proprio interno [4] l’idea che vi sia una correlazione causa-effetto tra l’aumento della concentrazione di CO2 e aumento della temperatura, mentre dati scientifici empirici dimostrano che l’aumento della temperatura nelle
ere geologiche ha sempre preceduto l’aumento della concentrazione di CO2 [5]. Come si spiega un errore così plateale e la pervicacia con cui viene difeso? Semplice; molti appartenenti alla “comunità scientifica” hanno basato carriera, notorietà e posizione internazionale sull’ipotesi dell’origine esclusivamente antropica del riscaldamento globale.
È molto probabile che le attività umane concorrano al fenomeno, ma le variabili che entrano nella trasformazione del clima sono troppo varie e complesse, per consentire una tesi così estremamente riduzionistica. Basti pensare all’attività solare, alla diversa composizione dei vari strati dell’atmosfera, la diversa inclinazione dell’asse terrestre, i fenomeni importanti che avvengono nello spazio [6], la circolazione dell’aria, le correnti oceaniche, etc. D’altra la temperatura globale non è mai stata nel corso di milioni di anni stabile, anche molto, ma molto prima che l’uomo facesse la sua comparsa.

3. I fondamenti dell’ecologia

Come detto, l’ecologia fa leva su molte discipline scientifiche, ma non è essa stessa una scienza, in quanto i suoi risultati, le sue previsioni sono di per sé vaghe e quindi non sono passibili di un vaglio di falsificazione, criterio di demarcazione popperiana della scienza. C’è di più. Per definizione, l’ecologia tratta dell’evoluzione e della stabilità degli ecosistemi; ma il concetto stesso di “ecosistema” è sfuggente, in quanto i suoi limiti spaziali e temporali variano a seconda dei confini posti all’indagine e dall’arco di tempo preso in considerazione. Vista l’interazione globale che connette tutte le parti del globo (un battito d’ali di farfalla nella giungla amazzonica, può provocare un temporale in Siberia) si può giustamente considerare la terra come un unico ecosistema. Per di più il sistema terrestre non è chiuso, ma ha scambi con l’intero universo di energia e di
materia, scambi che sfuggono ad una precisa e puntuale conoscenza. Data questa intrinseca illimitatezza dell’oggetto dell’indagine, da cui discende la reale impossibilità di avere un quadro esaustivo dei parametri in gioco e del loro peso effettivo nello sviluppo storico del sistema globale, spesso l’analisi ecologica si è rivolta a sue sezioni più o meno ampie. Il taglio che si effettua sul perimetro spazio-temporale del sottosistema non solo è arbitrario, ma prende in considerazione le interazioni con il contesto in cui si inserisce in maniera giocoforza approssimativo.
C’è da aggiungere che l’approccio ecologico troppo di sovente è stato di tipo conservativo, scotomizzando, di fatto, l’evoluzione diacronica del sottosistema. Per fare un esempio, grande attenzione si pone giustamente sulle specie animali in via di estinzione, condotte allo stremo della propria sopravvivenza degli habitat modificati dall’azione dell’uomo. Però la storia delle specie animali estinte non consiste solo nel
dodo australiano, scomparso a causa della caccia cui è stato sottoposto e  dall’inserimento dei canidi nel continente (divenuti nel tempo branchi selvaggi di dingo), c’è anche il caso del Josephoartigasia (il più grande roditore mai vissuto) in America del sud: sviluppatosi in assenza di nemici fino ad oltre tre metri di lunghezza per un peso di circa 1.500 kg, nel pleistocene, scomparve quando una lingua di terra unì le due Americhe, permettendo l’arrivo nel suo territorio delle tigri a lunghe zanne.
Occorre precisare, in questo caso come in quelli citati più sopra circa il riscaldamento globale, che nessuno intende negare l’evidenza dell’innalzamento della temperatura o il fatto che l’azione dell’uomo provochi sconvolgimenti negli ecosistemi. Quello che si vuole mettere in rilievo è che nell’evoluzione storica del pianeta l’intervento antropico è solo uno dei fattori in gioco e che ponderarne l’impatto è necessario per costruire delle strategie in grado di condurre pur sempre ad un equilibrio, se pur nuovo, non tanto instabile da procurare cambiamenti irreversibili e disastrosi ed in modo, anche, di studiare possibili rimedi a quei cambiamenti la cui origina non sia antropica.
Quest’ultima considerazione apre spazio ad un ulteriore problema non risolto dell’ecologia. L’idea latente, non sempre chiaramente espressa, ma sottesa a gran parte delle posizioni ecologiste è quella della “conservazione”; ne fa quindi, di fatto, forze “conservatrici”. Le mutazioni non sono sempre progressiste, il nuovo non è sempre migliore dell’esistente; detto ciò l’evoluzione diacronica non è arrestabile, la mano dell’uomo ha profondamente inciso sull’ambiente da molti millenni [7]; siamo oggi in grado di porci i problemi relativi alla preservazione dell’ambiente, al benessere dei viventi che ci accompagnano nel nostro viaggio, alla tutela dell’equilibro sistemico per rendere possibile la vita delle future generazioni, grazie all’utilizzo finalistico delle risorse ambientali perseguito da quelle che ci hanno preceduto. La messa a coltura dei suoli, la “domesticazione” delle specie vegetali selvatiche, l’addomesticamento degli animali sono stati i passi che hanno permesso lo svilupparsi della civiltà, della nostra mente, della cultura e che oggi ci permettono di non considerare gli animali come esseri “utili” e le risorse ambientali sfruttabili senza limiti.

4. Problemi reali

Si è già detto che i problemi ecologici portati pressoché giornalmente all’attenzione dell’opinione pubblica sono reali. Il riscaldamento globale è un fatto sperimentalmente inconfutabile (anche se in Antartide la temperature stanno calando ed i ghiacciai aumentando). Quello che si mette in discussione è la causa che la “comunità scientifica” ha individuato come unico fattore del verificarsi del fenomeno; la molteplicità dei fattori connessi, il loro intrecciarsi, la complessità delle loro interazioni, l’andamento storicamente ondivago delle temperature dell’atmosfera (si ricordi che il XIX° secolo, punto di partenza delle indagini empiriche e punto di riferimento per il calcolo degli scostamenti, è stato un secolo particolarmente freddo), farebbero propendere per
considerare l’aumento della concentrazione dell’anidride carbonica come al massimo una concausa, se non addirittura non influente (nell’articolo citato nella nota 6, addirittura viene addirittura considerato un effetto che può ritardare l’aumento della temperatura).
È certo, comunque, che la biosfera corre, nel complesso seri rischi. Desertificazione di immensi territori, piogge acide, riduzione delle aree verdi, scarichi tossici nelle acque con laghi e fiumi in cui la vita scompare in ogni sua forma, fondali marini distrutti, isole di plastica nei mari, etc. etc. L’emergenza esiste e le lotte ecologiche e l’attenzione alla preservazione dell’ambiente hanno ben ragione di alimentarsi, crescere, creare
coscienza. Il problema è quello di centrare la causa effettiva del verificarsi di questi fenomeni distruttivi.
Prima di tutto è necessario uscire dalla concezione “disneyana” della natura, dove tutto è armonia e bellezza, dove l’equilibrio si genera spontaneamente, basta che l’uomo non interferisca corrompendolo. Diceva Woody Allen: “Per me la natura è solo un immenso ristorante”. La battuta è bella, ma la realtà è ancor meno edificante. La natura non ha un codice morale; il suo corso ineluttabile sacrifica il più debole, scarta il meno adatto, non ha alcuna considerazione per l’individuo. I disabili, i meno dotati, i non idonei, vengono triturati dal decorso naturale. Tutta l’impalcatura della nostra civiltà è sostanzialmente una violazione delle leggi naturali, le nostre concezioni morali un insulto alla logica dell’evoluzione darwiniana. Operare un’infrazione alle ferree linee guida del decorso naturale è stata ed è una necessità ineluttabile alla sopravvivenza della specie umana.
Quello che è importante non è non forzare la natura, ma mantenere le nostre forzature entro i limiti atti a non creare disastri irreversibili, tali da compromettere la nostra esistenza nel contesto naturale.

5. Problemi e propaganda

Il punto più grave da chiarire è un altro. L’ecologia ha una storia recente, anche se il termine è più antico (1866). Assurge agli onori della cronaca nello scorcio degli anni sessanta del secolo scorso: viene fondato il club di Roma (tra i fondatori Aurelio Peccei, un imprenditore, e David Rockefeller, magnate del petrolio) e Amintore Fanfani pone il problema ecologico come emergenza da risolvere. Già questi fatti, e quelli contemporanei descritti all’inizio, incoraggiati dai governi statunitensi, dovrebbero indurre a riflettere.
All’emergenza ecologica reale si è subito affiancata una maleodorante propaganda a sfondo economico, volta a fare del disinquinamento un lucroso affare.
Invece di diminuire all’origine i fattori inquinanti, operazione che comporterebbe dei costi che andrebbero ad incidere negativamente sui profitti, si preferisce agire a valle, ottenendo ulteriori profitti. Nel frattempo il club di Roma continua ad esistere e, nonostante nel 1972 avesse posto i suoi limiti dello sviluppo entro il ventesimo secolo, continua a raffinare i propri modelli ed a sfornare catastrofiche previsioni per un
futuro non lontano (l’ultimo rapporto è del 2018).
In questa situazione occorre fare molta attenzione per distingue e i problemi reali dalla propaganda; quest’ultima è ovviamente tesa, non a trovare soluzioni efficaci, ma a condizionare ed orientare le scelte e gli stili di vita delle masse dei consumatori. In tal modo i nodi del dissesto ambientale non si sciolgono, ma l’economia può continuare a girare sempre più velocemente e con essa i profitti.
In realtà nei tempi più recenti soluzioni opportune, in grado di ridurre gli agenti inquinanti, di abbassare lo spreco di risorse energetiche, di progettare insediamenti umani a bassissimo impatto ambientale, si vanno via via profilando. Ma accanto a queste tendenze virtuose, frammiste a proposte serie ed efficaci, si fanno avanti,
ben camuffate, soluzioni che non risolvono problemi, ma anzi in realtà li aggravano o li spostano laddove sono meno visibili. Il rilancio mondiale, ed europeo in particolare della cosiddetta green economy nasconde trappole mortali, ma molto profittevoli.

6 Soluzioni strumentali

L’interesse che il capitale sta mostrando per la “green economy” è più che sospetto, vista la scarsa propensione che esso ha sempre messo in evidenza per il benessere collettivo disinteressato. Occorre, quindi, fare molta attenzione alle soluzioni che vengono proposte. La crisi dell’auto, ad esempio, ha portato ad un’intensa campagna di promozione dell’auto elettrica, annunciata come svolta ecologica non inquinante, ma in
realtà volta ad un immenso rinnovamento del parco macchine[8].
Basta guardare gli annunci pubblicitari in tutti i mass media per constatare che non ci sia prodotto reclamizzato che non soddisfi i principi del risparmio energetico, della salvaguardia ambientale, del rispetto delle specie, dello sviluppo “sostenibile”; in buona sostanza, tutti producono per il “bene del pianeta”. Tanta attenzione per gli ecosistemi, per gli animali in via di estinzione, per la future generazioni, appare un po’ sospetta da parte di chi solo venti anni fa non aveva mai preso in considerazione la “sostenibilità” del processo produttivo e che aveva come unico parametro di riferimento il progresso illimitato del PIL.
In altra parte di questo numero si prendono in considerazione alcuni dei progetti per l’utilizzo dei finanziamenti europei (non a caso destinati esplicitamente per lo sviluppo dell’economia verde), non tutti edificanti. Questo afflato altruistico che caratterizza la burocrazia europea e l’imprenditoria di tutti i paesi non solo è quantomeno sospetto, ma nasconde con ogni evidenza l’occhiuta attenzione verso nuovi proficui affari.
Ne saranno testimonianza gli investimenti nelle “grandi opere” spesso inutili e talvolta dannose; ma non andranno monitorate solo queste macroscopiche operazioni: la nostra attenzione deve essere anche rivolta alla congerie di microinterventi, la cui coerenza con l’effettivo obiettivo di diminuire l’impatto ambientale andrà di volta in volta verificata.

7. Il problema ignorato

Questo è il punto cruciale! Fino ad ora nel corso di questo articolo, sono state utilizzate le locuzioni “azione antropica”, “specie umana”, “attività umane”, etc.. Tipico  dell’ecologia è il considerare l’impatto umano sull’ambiente come il portato di un’azione collettiva che coinvolge in pari grado e con identica responsabilità ogni individuo in egual misura. Anzi, spesso, sono messi sotto accusa proprio i comportamenti di
massa, indipendentemente dalle loro motivazioni, per cui si invitano e si spingono i “consumatori” alla frugalità nel nome del bene collettivo. Questa attenzione ossessiva verso gli strati socialmente inferiori ha un corrispettivo geopolitico negli attacchi ai paesi terzi che sarebbero responsabili più di altri dell’inquinamento atmosferico. Tutte e due le considerazioni hanno, ovviamente, un fondo di verità, ma solo ad un’analisi superficiale.
I comportamenti di massa sono il frutto di un’attenta campagna volta a fomentare indiscriminatamente i consumi, stimolati anche dall’esibizione delle modalità di vita delle fasce abbienti della popolazione; l’aggressione di queste ultime alle risorse ambientali e le disgregazioni provocate agli ecosistemi sono di gran lunga individualmente maggiori, ma derivando da un numero infinitamente più piccolo di individui, sono nel complesso meno evidenti e facilmente camuffabili.
Fa specie poi vedere paesi opulenti, con standard di vita, di consumo energetico, di benessere collettivo decisamente molto elevati, dare lezioni a paesi in via di sviluppo, con tassi di povertà e di disagio sociale di gran lunga superiori, affinché riducano le proprie attività produttive.
L’origine dell’insufficienza di un’analisi del degrado ambientale suddivisa genericamente su tutti in misura egualitaria non risiede solo in queste evidenti disparità. Il punto vero è una altro: il modello produttivo (che coinvolge anche il modello dei consumi) è nato e cresciuto in funzione del profitto, dell’arricchimento privato; questi valori sono del tutto insensibili al “futuro del pianeta”, ma puntano a spremere tutto il possibile qui e subito. Il fatto che dietro vi siano potenti multinazionali oppure lobby di stato è del tutto indifferente. Qualche esempio chiarirà quanto asserito.                                                     La Monsanto, colosso chimico statunitense, ha perseguito una linea di ricerca sugli OGM, producendo delle sementi di cereali i cui frutti non erano in grado di fornire nuovi semi, in sostanza sono sterili; così i contadini devono periodicamente comprare nuovamente gli stessi prodotti per continuare la produzione e non possono fare affidamento su di una parte della propria produzione per una continuazione della coltivazione.
Appare evidente come questo fatto abbia danneggiato le economie agricole dei paesi sudamericani, che hanno dovuto dismettere il proprio ciclo colturale storico per dipendere dagli acquisti della multinazionale.
Lo sfruttamento intensivo delle acque del lago d’Aral a scopi di coltivazione intensiva in vasti ed estesi territori siberiani da parte dell’USSR ha talmente ridotto la sua superficie da giungere ad un punto di non ritorno, per cui il lago è destinato a scomparire, con un disastro ambientale incalcolabile. E gli esempi a carico del capitalismo privato o di Stato potrebbero continuare a lungo, per non parlare degli “incidenti” dovuti all’incuria o alla deliberata volontà di risparmio e di maggiori profitti, con il loro carico di morti e di
inquinamenti.
Ne discende che è il gigantismo del modello raggiunto dal sistema produttivo che è la vera origine del problema ambientale. Laddove chi dirige le produzioni è fisicamente (e quindi mentalmente) lontano dai luoghi in cui essa materialmente avviene, è naturale che le considerazioni che sovraintendono alle scelte non siano legate all’armonia tra l’essere umano ed ambiante che lo circonda.
Solo un modello sociale e produttivo che parta dal basso, coinvolgendo direttamente chi a quel determinato lavoro è addetto, può far sì che le scelte produttive rispondano a logiche di conservazione ambientale. L’aver spezzato la catena tra decisori e produttori è il peccato originale e irrimediabile del sistema produttivo. Non c’è soluzione ecologica all’interno di un sistema produttivo come l’attuale in cui chi opera la pianificazione e chi esegue le consegne siano diversi e distanti; in cui il primo sta lontano dai luoghi di
produzione e non subisce gli effetti diretti delle scelte operate ed il secondo è immerso in un contesto che non controlla e di cui subisce le conseguenze della sua corruzione.

[1] “Corriere della sera”, 23 aprile 1970, p. 1; riportato in D. PACCINO, L’imbroglio ecologico, Einaudi, Torino 1972, p. 156.
[2] “Corriere della sera”, 24 aprile 1970, p. 1; riportato in D. PACCINO, L’imbrogli … cit., p. 157.
[3] “Corriere della sera”, 24 aprile 1970, p. 1; riportato in D. PACCINO, L’imbrogli … cit., p. 157.                                                                                                                                  [4] Il che significa che l’ipotesi non viene dimostrata, indagando tutte le possibili vie di verifica scientifica o di rigetto, ma si ceca solo di trovare le “prove” di un’ipotesi non in discussione.                                                                                                                        [5] https://www.attivitasolare.com/levidenza-empirica-mostra-aumenti-di-temperatura-prima-dellaumento-di-co2-in-tutti-i-record/. Il lungo articolo è un’attenta ed esaustiva analisi di tutte le inconsistenze e gli errori del’IPCC.
[6] https://ilbolive.unipd.it/content/dal-fisico-shaviv-un%E2%80%99ipotesi-radicale-il-global-warming                                                                                                                [7] “…non la natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione”. Marx Karl, L’Ideologia tedesca, I, A, 2.  [8] Di questo ci siamo già occupati: cfr. Illusione elettrica, Crescita Politica, n° 115, febbraio 2019. Recente notizia ci informa che le società estrattive stanno studiando nuovi sistemi, perché tali attività producono più anidride carbonica di quanta non producano le auto col motore a
scoppio.

Saverio Craparo