Il fanatismo della “ripresa”

Uno spettro si aggira per il mondo, ma purtroppo non è più quello del comunismo; l’ossessione che tormenta le menti dei governanti e degli operatori economici è quella della ripresa. In Italia, ad esempio, il nuovo Presidente in pectore di Confindustria, Carlo Bonomi, ancora in attesa di insediarsi il prossimo 20 maggio, non perde occasione per
dardeggiare l’Esecutivo a causa della pochezza dei sussidi elargiti o da elargire agli imprenditori , a suo avviso sempre e comunque insufficienti. Bonomi, manco a dirlo, proviene dalla Lombardia.
Occorre qui aprire una parentesi su questa regione e sui suoi imprenditori, oggi agli onori della cronaca per il pesante tributo di vite pagato al covid19. La mitica “Padania”, con la Lombardia al suo centro, avrebbe già da tempo dovuta essere sotto la massima attenzione sanitaria per due motivi non trascurabili: il primo, che riguarda l’intera zona, è il tasso di inquinamento che la caratterizzava, tra i più alti d’Europa ed esteso per un’area molto vasta (e non è certamente escluso che il livello di polveri sottili nell’aria non abbia predisposto i polmoni degli abitanti ad un logoramento che ha facilitato l’acutezza dell’attacco del virus); in secondo luogo (e questo l’abbiamo già rilevato in specifico proprio per la regione lombarda) la scelta della creazione di grandi strutture ospedaliere, spesso di eccellenza, con il depauperamento della struttura sanitaria territoriale, sovente in mano privata, con la conseguenza di trasformare l’assistenza medica in un business che faceva affari drenando capitali dalla sanità pubblica del meridione del paese, lasciata colpevolmente in uno stato deplorevole che non garantiva adeguata assistenza ai suoi cittadini.
Cosa c’entra con tutto ciò l’imprenditoria lombarda? È presto detto. Basti ricordare i due casi emblematici di Codogno e della Val Seriana, in entrambi i luoghi si è rapidamente sviluppato un focolaio di contagi; ma mentre il lodigiano è stato rapidamente dichiarato zona rossa e chiuso ad ogni contatto esterno, lo stesso non è stato fatto per la bergamasca, con il risultato che mentre nel primo oggi non si hanno più nuovi casi nel secondo ancora il virus allegramente (si fa per dire) impazza! A cosa è dovuta questa disparità di trattamento? Perché la Val Seriana è stata tardivamente dichiarata zona rossa, ovverosia solo quando tutta la Regione è stata confinata? La Provincia di Lodi è zona a vocazione eminentemente agricola, mentre quella di Bergamo vanta una fortissima concentrazione di industrie ed in particolare la zona che stiamo considerando conta nel suo ristretto territorio oltre trecentosettanta tra piccole medie e grandi aziende, alcune delle quali in grado di esportare in tutto il mondo merci ad alto contenuto tecnologico. Già è stato rilevato come gli industriali del luogo, dotati di un potere di pressione sui centri amministrativi certamente più accentuato di quello degli agricoltori lodigiani, hanno esercitato rutta la loro influenza affinché la produzione nelle loro aziende non si fermasse o si fermasse il più tardi possibile.
Dall’Assolombarda proviene Bonomi e quello stesso impulso alla produzione ad ogni costo (ovviamente quello degli altri) lo anima. Un grido unanime si alza dagli scranni imprenditoriali: produrre! Non è un caso se nella evanescente Fase 2, le cui norme sono piene di inestricabili contraddizioni e per la quale poco è cambiato per i cittadini, quattro milioni e mezzo di lavoratori sono tornati nelle aziende; in sicurezza si dice, ma con quali controlli? Non è un caso che quando si parla di incentivi si pensi (a parte alcune briciole per gli incapienti vecchi e nuovi) solo ed esclusivamente al sistema dell’industria. I nostri “padroni del vapore” pensano e fanno pensare che la “ripartenza” possa avere luogo solo se si ricomincia a produrre e dimenticano un fatto basilare: il ciclo delle merci deve essere chiuso, ovverosia le merci prodotte devono trovare un compratore, altrimenti non si realizza non tanto e non solo il profitto, ma non si rientra
neppure nell’investimento.
Ora le cose sono chiare. Il volume globale del mercato mondiale è in ampia e drastica riduzione. La pandemia ha generato centinaia di milioni di nuovi poveri (solo negli Stati Uniti d’America sono avvenuti venti milioni di licenziamenti), espulsi dalle fabbriche per riduzione di organici o fallimenti, ex addetti al commercio impiegati in piccoli negozi che non riaprono, lavoratori del turismo e dei trasporti settori in forte sofferenza, nonché lavoratori autonomi, artigiani, lavoratori dei servizi che con difficoltà si rialzeranno, se riusciranno a farlo, dal tracollo che stano subendo. Per fare solo un esempio della devastazione basti citare l’articolo comparso sul Il Sole 24 Ore, di sabato 9 maggio 2020, (a. 156, n° 127, p. 19) a firma Roberta Miraglia, Il Covid-19 blocca la Germania Esportazioni in calo del l’11,8%. E se il modello tedesco si basava molto sulle esportazioni, figuriamoci cosa potrà verificarsi per l’Italia la cui vocazione esportativa è ancora più pronunciata!
Da decenni ormai le manovre di compressione dei mercati interni fanno parte del bagaglio usuale delle politiche economiche neoliberiste e tutti i paesi, chi più, chi meno, si sono affidati al mercato degli altri per fare affari. C’era un paese, uno a caso, gli USA, che con una bilancia commerciale in pesante e profondo rosso perpetuo faceva la felicità degli altri. Ora il giocattolo si è definitivamente rotto e le politiche fin qui perseguite abbisognano (ne abbisognavano da tempo, ma l’ortodossia della cosiddetta economia “mainstream” lo ha sempre impedito) di una drastica revisione: se produrre per produrre senza un mercato di riferimento non è più né sensato né sostenibile, occorre un ardito cambio di ottica; in altre parole se il mercato estero langue occorre ricostruire quello interno. A questo scopo è necessario rimpinguare i portafogli
delle famiglie e non quelli delle imprese (ed è piacevole constatare che questa prospettiva corrisponde in parte ad un senso di equità). Il consumo di lusso può essere singolarmente ingente, ma complessivamente non sorregge un’economia; solo i consumi di massa sono in grado di fare volume e massa critica per rianimare il ciclo economico. Un’efficace e sostanziosa politica salariale è l’antidoto alla crisi in atto ed essa viene incontro a quegli strati di popolazione che da lunghi, troppi anni sono stati sacrificati sull’altare dei profitti dei pochi.
Saverio Craparo