La fede al tempo del virus

Le pandemie sono state storicamente l’occasione nella quale la fede risorge.
Di fronte al diffondersi del male che si espande invisibile e colpisce senza discriminazione e secondo un modo di procedere imprevedibile e inatteso gli esseri umani si sono rivolti alla divinità per chiedere protezione, per sottrarsi alla morte, per salvarsi. Utile ricorrere a eventi di manzoniana memoria per ricordare atti devozionali, processioni, pellegrinaggi; e del resto basta visitare le chiese e in molte di esse è possibile rinvenire ancora oggi una reliquia, un
crocifisso, un’immagine della madonna, oggetti di devozione per grazia ricevuta in occasione di epidemie, pestilenze e altri gravi disastri.
Il tratto caratteristico di queste manifestazioni devozionali era la partecipazione popolare e di massa dei fedeli e l’invocazione veniva ritenuta tanto più efficace quanto più partecipata, benché oggi sappiamo che il solo effetto sicuro di
quegli atti di culto era quello di moltiplicare il contagio e quindi, al massimo, di alimentare e accelerare inconsapevolmente al prezzo di molte morti la cosiddetta immunità di gregge. Del resto questi comportamenti erano
comuni ai fedeli di tutte le religioni.
In occasione dell’attuale pandemia l’atteggiamento della Chiesa cattolica è stato molto diverso dal passato per due motivi: la conoscenza e l’accettazione generale del dato scientifico relativo alle origini e agli effetti delle pandemie;
la condivisione diffusa del principio di separazione tra Stato e religione, per cui si è riconosciuto nei paesi non confessionali il diritto dello Stato e delle autorità laiche di gestire i problemi sanitari (fin quando però non oltrepassino un
certo limite, vedi fine vita, aborto, cure palliative, ecc.) e quindi di adottare tutti quei provvedimenti di separazione sociale necessari a contrastare il diffondersi dell’epidemia. Da qui l’adozione di disposizioni atte ad impedire i riti collettivi religiosi in modo da limitare i contatti tra le persone e quindi il diffondersi del contagio. Diverso come è noto il comportamento di molti paesi musulmani che no si sono guardati bene da interdire le attività religiose e di culto.
In Italia in particolare le disposizioni emanate hanno vietato le funzioni religiose, le celebrazioni di riti con la partecipazione dei fedeli. Le chiese sono rimaste aperte e accessibili nella grande maggioranza, e l’autorità ecclesiastica
ha accettato di astenersi dalle celebrazioni anche dei riti funebri, pur di non facilitare il contagio e limitare i contatti delle persone per bloccare la diffusione del virus. Pur nel dissenso di una parte di credenti e di clero mugugnante, si è preferita la tutela del corpo lasciando alle espressioni di fede individuali e personali la tutela dell’anima.

Gli atti rituali nell’area de covid19

Non per questo gli atti rituali e le manifestazioni di culto sono scomparsi; hanno solo assunto forme e modalità che, soprattutto per i non credenti, occorre esaminare con attenzione, anche perché sono un frutto maturo di vivere la fede e l’appartenenza religiosa del quale è opportuno prendere contezza per capire l’indole di chi ci circonda e cogliere da non credenti le modalità diverse di manifestazione dell’appartenenza religiosa.
Anche se la parte più becera dei fedeli, plasticamente rappresentata dal segretario di un partito politico, la Lega, ha reclamato il diritto di partecipare a riti religiosi collettivi, condendo questa richiesta con recitazione in diretta di
invocazioni e preghiere, raccomandando il paese alla protezione della Madonna, brandendo all’occasione il rosario, facendo da contraltare ai continui appelli di padre Livio dai microfoni di Radio Maria, sempre in attesa del ritorno della Madonna che tutto metterebbe a posto, c’è un’altra Chiesa che è ben rappresentata dal Suo Pontefice, la quale con intelligenza ha inviato messaggi più maturi e consapevoli.
Facendosi interprete dello sgomento generale davanti alla malattia il Pontefice di Roma ha sottolineato il vuoto, la solitudine, l’impotenza, lo sgomento di fronte al quale si trova l’umanità intera nell’affrontare la morte come evento
possibile, concreto, immediato. Il rito celebrato in solitudine nella piazza San Pietro vuota, esprime scenicamente, mediaticamente, questo sentire, lo rende visibile, palpabile e quindi condiviso, conseguendo l’obiettivo principale del rito:
la partecipazione, la condivisione. Con quel gesto il Pontefice celebra non una ma mille messe, ha la partecipazione condivisa di migliaia di fedeli nell’era della digitalizzazione, della società dello spettacolo, permette l’identificazione tra la solitudine di ognuno e la propria, creando un legame psicologico di partecipazione emotivamente condivisa.
Così dicasi degli innumerevoli altri gesti rituali, dove con accortezza passato e presente, simboli e tradizione, si fondono. l crocefisso che “salvo Roma dalla peste”, conservato nella chiesa di San Marcello al Corso, non solo è stato
visitato in preghiera dal pontefice, ma è stato esibito nella grande rappresentazione scenica in Piazza San Pietro, realizzando una sintesi ideale tra la tradizione e l’attuale invocazione della protezione divina.
Ma se con il crocefisso restiamo nell’ambito di una simbologia religiosa coerente al rito dell’eucarestia, per il richiamo al sacrificio della divinità, c’è un’alta Chiesa come emerge da iniziative altrettanto scenografiche, quale quella dell’esibizione sui social della “Sindone”, un lenzuolo, feticcio di casa Savoia, di fattura medioevale (dimostrato dell’esame del carbonio 14) che riprodurrebbe le fattezze del Nazareno e che viene esibito in diretta streaming, a ricordare il pellegrinaggio del quale lo fece oggetto il cardinale Bonromeo per ringraziare della fine della peste di Milano.
È proprio vero, i fatti della storia volte si ripetono come farsa e non sempre vescovi e cardinali sono in grado di trasmettere con altrettanta abilità rispetto a quella del Pontefice un messaggio che generi partecipazione: E tuttavia
l’esibizione della Sindone è destinata a soddisfare la pancia di molti fedeli tradizionalisti, di quella Chiesa che guarda al passato (ma che utilizza il digitale per farlo). La forza della Chiesa è proprio quella di essere sempre uguale a se stessa, anche se mutano i mezzi e Francesco può cercare di combattere la corruzione interna alla Chiesa, ma certamente non vuole scalfire né la simbologia, né i riti, né il sentire religioso, né il magistero.

La dimensione territoriale della religione

La sfida rappresentata dalla pandemia e dal Covid 19 è stata colta in pieno da Francesco, papa regnante, che ha accettato la sospensione delle celebrazioni pubbliche della messa con la partecipazione di fedeli e anche dei riti funebri e
di tutti quegli atti di culto collettivi considerati fondamentali dalla Chiesa, anche se la rinuncia alla celebrazione dell’eucarestia come rito collettivo e partecipato della comunità dei fedeli incide profondamente sul ruolo che la Chiesa
svolge nel farsi da tramite tra i fedeli e Dio. Il Pontefice sa bene che non per questo la Chiesa perde la sua funzione di presidio territoriale e di amministrazione del consenso. Nella sua visione “descamisada” e genuinamente peronista del rapporto con il popolo l’attività della Chiesa come istituzione si trasforma in quella di erogatore di servizi caritatevoli alla
persona, valorizzando il ruolo di partecipazione del fedele, chiamato a svolgere azioni di solidarietà verso gli ultimi, i bisognosi, attraverso le opere. Non potendo momentaneamente partecipare all’eucarestia e ai riti collettivi della comunità dei credenti, si stabilisce in tal modo un sinallagma di tipo in parte nuovo per la Chiesa cattolica tra le opere e la salvezza.
È da notare che questo avviene non solo per cause di forza maggiore (evitare il contagio), ma perché nella visione di questo papa la fede è innanzi tutto testimonianza con l’esempio.
Una testimonianza nella quale il pontefice è maestro, viaggiando nel pulmino insieme ad altri prelati ritornando a Santa Marta dopo la sua elezione, continuando a risiedervi in un appartamento di 60 mq e non nei palazzi apostolici, mangiando alla mensa insieme agli altri cardinali, officiando la messa ancora a Santa Marta, compiendo continuamente gesti ordinari e comuni, condivisibili. Il risultato è quello di offrire all’intera organizzazione ecclesiastica esempi di comportamenti, che fanno di questo papa il più vicino alle donne e agli uomini comuni, il più lontano da una parte della
struttura e dell’organizzazione ecclesiastica.
Questo modus operandi trasforma il ruolo della struttura ecclesiale assegnando nuove responsabilità e compiti ai fedeli, chiamandoli a una visione militante della testimonianza di fede che molto probabilmente ne riduce il numero sul totale della popolazione, ma che restituisce a quelli che rimangono l’orgoglio e la consapevolezza delle proprie scelte.
Così facendo la Chiesa cattolica si lascia contaminare da visioni tipiche della teologia protestante sulla percezione di Dio, sul rapporto del fedele con le opere, sui valori vissuti, sposando una visione più “moderna” e individualistica del rapporto del fedele con l’organizzazione ecclesiale, di impostazione quasi metodista. D’altra parte le Chiese, e non solo quella cattolica, sulle opere di carità, assistenza-beneficienza e missionarie hanno costruito il loro potere temporale potenziando il proselitismo e facendo dell’aiuto ai poveri un terreno di competizione tra le confessioni religiose.
La strada imboccata non sarà facile da percorrere e la direzione è tutt’altro che irreversibile perché il corpo molle dell’organizzazione ecclesiastica cattolica coltiva altri interessi ed altri intenti e si offre come “agenzia del sacro” (è
questa la definizione che ne da l’Unione Europea nell’art, 17 della Carta di Lisbona) che gestiscono con funzioni di supplenza le attività di solidarietà verso la collettività, pronte a lucrare su questa rendita di posizione e ad operare come istituzione, utilizzando il finanziamento pubblico, disposte a svolgere un ruolo ben etichettato di supplenza e rivendicando il loro ruolo pubblico nella vita sociale.
Intanto l’altra chiesa è al lavoro e nella prospettiva della cosiddetta fase due propone per iniziativa della CEI messe con volontari che garantiscano le distanze, funerali, battesimi e matrimoni con la presenza dei familiari stretti; qualche incontro di comunità facendo uso dei dispositivi di protezione. La Cei – a differenza del Governo – ha pronto “un pacchetto di proposte” da proporre “Con tutta l’attenzione richiesta dall’emergenza dobbiamo tornare ad ‘abitare’ la Chiesa.
Il Paese ne ha un profondo bisogno, c’è una domanda enorme e rispondere significa dare un contributo alla coesione sociale” ha dichiarato il sottosegretario della Conferenza episcopale italiana don Ivan Maffeis.
Se la CEI h lo sguardo corto il Pontefice ha istituito una ‘task-force’ per il dopo-pandemia chiedendo al Dicastero per lo sviluppo umano integrale “di creare una Commissione, in collaborazione con altri Dicasteri della Curia Romana,
per esprimere la sollecitudine e l’amore della Chiesa per l’intera famiglia umana di fronte alla pandemia soprattutto mediante l’analisi e la riflessione sulle sfide socioeconomiche e culturali del futuro e la proposta di linee guida per affrontarle”.
Mentre in Italia Pontefice e conferenza episcopale si dividono i compiti la Chiesa cattolica non dimentica le sue battaglie più squallide e criminali condotta da clero e episcopato polacco, Vedi la rubrica Cosa c’è di nuovo.
                                                                                                                       C.G.