Lettera aperta di Andrea Bellucci

A Marco Revelli

Premetto che, a differenza di molti, considero Marco Revelli come uno dei sociologi più interessanti e preparati.
Ho poi un particolare culto del padre, Nuto, per cui anche solo il cognome tende a smussare possibili criticità.
Sempre stimolante, soprattutto quando, con la consueta pacatezza e serietà “torinese” propone idee, mappe, ricostruzioni, con cui sono quasi sempre assai in disaccordo.
Per questo ritengo lo stimolo ancora più importante e necessario.
Ho letto quasi tutta la sua produzione ed ho apprezzato (ovviamente urticato) anche testi da “indice dei libri” quale “Oltre il Novecento” che provocò una diatriba lunghissima nella sinistra italiana degna di altri tempi imperniata su questioni contenutisticamente rilevanti.
Uno scontro di “scuola” che oggi pare veramente di un’altra era. Sono trascorsi 20 anni.
Ho anche considerato molto interessanti i 3 volumi dedicati alla fine della politica e al populismo (“Poveri. Noi” “Finale di Partito” “Populismo 2.0”) e pure “Non ti riconosco” appartiene alle opere da leggere.
Tuttavia, se la sua analisi dello smottamento delle classi sociali, a volte anche estremamente liquidatoria, è senz’altro frutto di analisi approfondite e restituisce panorami interessanti, la sua ricostruzione del populismo è apparsa fin da subito abbastanza lacunosa, incapace di definire un oggetto che lui stesso definisce “multiforme” ma
del quale indica solo gli aspetti negativi.
Certamente è conscio che questa deriva proviene dall’abbandono da parte della sinistra del popolo che essa rappresentava ed ha ben chiare (è il suo mestiere) le mappe dell’abbandono.
Tuttavia, nella sua definizione del populismo, nella “nebulosa indefinibile” come dice, a me pare che inserisca, come contraltare, di nuovo, quello che la “sinistra” degli ultimi 30 anni ha ritenuto essere l’unica qualità rimasta: ovvero quella di essere dalla parte giusta della storia a prescindere da tutto, anche dalla realtà.
La famosa superiorità morale. Senza altri elementi in grado di quantificare e qualificare questa superiorità.
E quindi la sua presentazione dell’ultimo libro “La Politica senza la Politica” alla quale ho assistito alle Oblate (a Firenze), qualche settimana fa, è divenuta una summa di molte “cose comuni” , devo dirlo, non all’altezza delle sue doti retoriche ed esplicative.
Dove si è indicato nel linguaggio “feroce” (che pure è vero) sdoganato da Salvini qualcosa che “10 anni fa non c’era”.
Ma se la memoria non mi fa difetto, proprio c. a 10 anni fa, negli stessi luoghi, si definiva Berlusconi, né più né meno come l’erede di Mussolini e si diceva che “Craxi, in fondo era meglio”.
E dove si è analizzato il linguaggio “incattivito” degli italiani sui social di fronte alle tragedie dei migranti.
Invero ben poca cosa per le analisi di elevatissimo livello alle quali Revelli ci ha abituato (nel bene e nel male).
Per finire con un richiamo alla lungimiranza di Papa Francesco e alla mancanza di pietas in una parte degli Italiani.
Non ho nulla contro Papa Francesco, anzi, ad averne e tanto meno contro la pietas, della quale spero di essere mediamente fornito, ma temo che la “politica senza politica” si incarni anche in analisi come queste, al di là della ragione.
Di fronte alla pietas e al “combattere il male”, non resta che arretrare e chiudere la porta, perché non c’è molto altro da dire.
Non c’è spazio né per la politica né per riflessioni ponderate o analisi ragionate.
Io continuo a pensare che la politica invece avrebbe altri compiti e forse c’è una intera parte della sinistra “che fu” che non riesce più a vederli, se non rimpiangendo una età che non tornerà più, ma assai poco in grado non solo di scandagliare la realtà che ha davanti, ma perfino di vederla.