DALLA DEMOCRAZIA ILLIBERALE AL POPULISMO SOVRANISTA

Le prossime elezioni europee rischiano di attribuire un ruolo rilevante ai populisti sovranisti nel decidere sulle politiche dell’Unione Europea. Allora vale la pena vedere questo modello che viene definito di democrazia illiberale [1] o se si preferisce di autoritarismo competitivo per capire il significato delle politiche proposte. Siamo di fronte a una pseudo democrazia o democrazia parziale, ovvero ad una democrazia a bassa intensità, una democrazia vuota, una democratura, o regime ibrido, dove i cittadini sono completamente tagliati fuori dalla conoscenza di tutto ciò che concerne il potere e le libertà civili, che opera in violazione del principio di uguaglianza.

Adottandolo si consente che i governanti esercitino un controllo discrezionale sulla società usando il sistema fiscale, il credito, le licenze, le concessioni e i contratti governativi e altri strumenti di politica economica per punire gli avversari e premiare i loro alleati. In un contesto del genere le elezioni diventano l’occasione del conferimento formale di un mandato condizionato di ordine superiore per agire e adottare qualunque decisione sia ritenuta utile dagli eletti, a prescindere dal quadro costituzionale e da qualsiasi bilanciamento di potere esercitabile dalla magistratura o dagli altri organi istituzionali. L’assenza di alcune libertà, come quella di parola o di assemblea, rendono difficile qualsiasi tipo di opposizione. I governanti concentrano il loro potere sul Governo centrale e su quello locale dando vita di fatto a un regime dove i media sono controllati dallo Stato e supportano perlopiù le informazioni fornite dal Governo. Sono di fatto proibite le organizzazioni che non siano di governo. Il regime può esercitare una pressione sistematica sulle libertà civili, scardinando il principio di uguaglianza.
Il Governo democratico illiberale non è forse assimilabile ad una vera dittatura dove la figura di una sola persona accentra su di sé tutti i poteri, ma ciò malgrado costituisce un regime totalitario di gestione della società.

L’internazionalità del modello

Un tale modello di Stato si accompagna a un forte apparato ideologico che confina con lo Stato etico. Esso assume una religione come credenza di riferimento conferendogli un ruolo privilegiato e stipulando un’alleanza con la confessione e nelle sue diverse manifestazioni privilegia il riferimento a una religione considerata vera perché tradizionale – del popolo – che si invera con la cultura di una determinata area e sposa una connotazione etnica che pressoché coincide con la nozione di razza. È così per il Bharatiya Janata Party (Partito del Popolo indiano) al Governo in India, che fa riferimento a una visione fondamentalista dell’induismo, o nella concezione dell’Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) al potere in Turchia, che fa riferimento a una componente particolarmente fondamentalista dell’Islam.
Tutti questi regimi utilizzano per la loro ascesa al potere il populismo politico, costituito ancora una volta da una materia prima impregnata di senso del religioso o del sacro, che anima la visione delle caratteristiche di questo sistema e che non può essere spiegato esclusivamente tramite le componenti culturali che concorrono alla sua formazione le quali possono essere diverse a secondo dell’area geografica alla quale ci si riferisce, ma ha come caratteristica comune quella di essere deprivato dei corpi intermedi, sostituiti da un diretto riferimento al popolo. Non ci sono quindi intermediari tra Governo e popolo. Questo perché il populismo politico ha bisogno di simboli e attinge a piene mani all’antico immaginario religioso. L’intreccio di queste componenti è minaccioso sul piano del diritto, perché punta a scardinare le norme fondamentali dello Stato costituzionale, in particolare l’eguaglianza dei soggetti sottoposti alla sua giurisdizione collocati nelle loro differenti culture e identità. Si da quindi una lettura restrittiva della cittadinanza restringendone la titolarità a livello etnico e di appartenenza storica al territorio a prescindere a volte anche dalla nascita. A contrastare l’antipluralismo congenito del populismo si erge il principio di laicità, con il suo contenuto di rispetto delle diversità e per questo aspetto, di limite della sovranità popolare.
Alle religioni e al cristianesimo il moderno populismo politico chiede in prestito il concetto di unità del popolo di Dio, presupponendo l’esistenza di un’unità dell’etnia che si contrappone alla pluralità delle differenze e dei contrasti di genere, di lingua, di religione, di condizioni sociali, di cultura, creando l’immagine di un popolo costituito da persone, viste come entità, quasi metafisiche. In altre parole a differenza della società divisa in classi il popolo per i populisti è un’entità unica che avrebbe comuni interessi, sintetizzati in quelli della nazione.
Non è infatti un caso che i populisti ricorro allo slogan ”prima gli italiani”, quando sappiamo benissimo che gli italiani in quanto discendenti di persone da tempo (quanto tempo?) in Italia non hanno necessariamente interessi in comune: non vi è nessun interesse in comune tra italiani ricchi e poveri! Questa supposta indefinita categoria di italiani è perciò quella che porta inevitabilmente a utilizzare come parametri definitori il colore della pelle, la lingua, le abitudini alimentari e culturali, le appartenenze religiose parametri che divengono così elemento di discriminazione e differenziazione, reintroducendo nei fatti il concetto di etnia come sinonimo di razza. Indissolubilmente legato al concetto di interessi accomunanti il cosiddetto popolo italiano è il concetto di sovranismo in base al quale il popolo dovrebbe tendere ad essere sovrano rispetto ad altri popoli.
La matrice religiosa di questi concetti è del tutto evidente solo che si pensi al popolo cristiano o alla Umma islamica o alla comunità induista, o all’unità del popolo ebraico. A questa visione si contrappone quella basata sul principio di realtà – per dirla con Kelsen – che vede le “religioni del libro”, cristianesimo, ebraismo e islam, che hanno in comune il ceppo abramitico, e peraltro sono le più diffuse nell’Occidente europeo e nordamericano, delle religioni di popolo in senso plurale. A riprova della veridicità di questa seconda lettura constata che queste religioni hanno saputo convivere con le grandi differenze di lingua, di cultura, di costumi, di assetti istituzionali, diffondendosi in tutto il mondo.
È perciò priva di consistenza l’affermazione sovranista e populista che il popolo sarebbe un’entità unitaria e omogenea per pensiero e volontà, una comunità depositaria di valori positivi generati da lunghe tradizioni e caratterizzata da legami forti, capaci di offrire un senso comune di identità e di appartenenza. In altre parole, è una solenne cazzata affermare che il popolo sarebbe una società naturale preesistente all’ordinamento giuridico perché “popolo di Dio”, creato da Dio. Eppure, nell’idea dei modelli contemporanei di populismo è essenziale il richiamo alla comunità, primordiale, precedente l’ordinamento giuridico, che sarebbe naturalmente virtuosa e dotata di valori, poi offuscati dalle artificiose distinzioni partitiche e dalle élite al potere, e che, siccome i popoli sono numerosi, il proprio, quello a cui si appartiene, viene prima di tutti gli altri.

Le radici del sovranismo: i suoi caratteri divisivi

La prima conseguenza di questa lettura del mondo e della storia è che ogni popolo si ritiene il migliore, quello che deve prevalere rispetto agli altri e che il laboratorio, il brodo di coltura nel quale questo popolo vive è l’ordinamento nazionale nel quale avviene la trasformazione più rilevante operata dal populismo: la lotta tra due gruppi omogenei al loro interno portatori di interessi e valori opposti. Da qui la lotta tra il popolo naturalmente virtuoso, la massa del “noi”, e l’élite o la casta o l’establishment, cioè “loro”, quei pochi, l’1 per cento, il non-popolo che ne espropria la sovranità. Così i rappresentanti eletti di questo popolo, tutte persone comuni, che fanno della non specializzazione la loro virtù, sarebbero la vera espressione del popolo: la lotta tra le élite e la gente comune, magari incompetente, ma “genuina”. si sostituisce alla lotta tra le classi.
Il bisogno di identità e di comunità, la credenza in una comunità necessaria per la redenzione e al contempo omogenea, incontaminata, indifferenziata, priva di corpi intermedi al proprio interno, sono il frutto della sintesi tra il concetto di popolo dei credenti proprio delle religioni e quello di popolo in quanto nazione, espressione di comuni componenti etniche che determinano la composizione del concetto moderno di populismo. Operando questa lettura ben si comprende che il populismo che sembra dilagare in Europa e negli USA non è altro che la versione “cristiana” dei populismi diffusi negli Stati arabi come in India, come all’interno del movimento sionista.
Queste tendenze sembrerebbero a primo vista voler produrre dei “blocchi unitari”, mentre invece risultano divisivi rispetto alla ricerca delle ragioni di comuni interessi che invece Gianni Cimbalodovrebbero spingere i popoli a ricercare le motivazioni di una convivenza pacifica nella direzione di superare le diseguaglianze e pervenire a una più equa distribuzione delle risorse del pianeta. La crescita demografica differenziata tra le diverse aree del pianeta, lo sviluppo ineguale delle economie, il disequilibrio negli scambi economici, spingono nella direzione di accentuare lo scontro competitivo tra le diverse aree economiche e politiche , nell’illusione di ritagliarsi uno spazio, una nicchia sovranista nella quale sopravvivere. Inseriti comunque nella dimensione continentale degli scambi e delle relazioni economiche le entità sovraniste finiscono per essere soltanto degli elementi divisivi nella ricerca di politiche di convivenza reciproca.

I riflessi sociali e politici del sovranismo populista

Ma le scelte populiste e sovraniste di gestione della società hanno dei riflessi immediati e ben più profondi sulla qualità della vita di coloro che in queste società vivono. La conseguenza più diretta del rapporto che si istaura in una gestione populista della società tra istituzioni e cittadini e una forma di gestione dei rapporti sociali caratterizzata dal superamento della divisione dei poteri in nome della sovranità del popolo come entità prima descritta, l’abbandono di ogni senso della legalità sancita dalle leggi e dallo stesso quadro costituzionale, poiché nella dominanza del popolo così inteso ogni regola può essere violata dagli eletti. Frasi frequenti come quelle rivolte alle sentenze di garanzia della magistratura da parte di alcuni politici che invitano i giudici a candidarsi e farsi eleggere se vogliono dare forza alle loro sentenze sono alla radice da un lato della corruzione degli amministratori e dei politici che in quanto eletti si ritengono titolari di ogni potere e dall’altro nascondono la convinzione che tutto è consentito alla maggioranza e che nulla garantisce la minoranza se non il potere. È la negazione palese dello Stato di diritto, della divisione dei poteri e del loro equilibrio costituzionale.
Alla luce di queste considerazioni i mille episodi di corruttela nelle nomine, nell’attribuzione di appalti, di favoritismi, di illeciti amministrativi, corruzione, ultima quella del vice cancelliere austriaco Heinz-Christian Strache ma anche a prescindere dal costituire reati penalmente rilevanti, vanno letti non solo come comportamenti delittuosi individuali, come il frutto malato di una mentalità politica di regime, un regime che è autoritario e malato, una forma forse più insidiosa che nel passato di società illiberale e autoritaria, quanto di più simile a quello che fu storicamente il fascismo. Una democratura. Non è un caso che gli epigoni di quello che fu il regime fascista si ripropongano oggi nei contenuti e nei metodi, trovando identità e convergenze con i moderni populisti sovranisti.

Per una società pluralista aperta all’uguaglianza

A questo progetto noi opponiamo una società pluralista e interetnica, aperta al confronto tra le diverse identità, consapevoli che dal confronto tra esperienze e tensioni ideali possa nascere un amalgama di una società caratterizzata dal rispetto reciproco tra opzioni culturali diverse e dal confronto dialettico tra differenti esperienze di vita, dove il tratto comune è costituito dalla tendenziale uguaglianza economica e nelle opportunità consentite ai diversi soggetti, dal senso di appartenenza a una comunità. Questa uguaglianza deve manifestarsi nell’eguale tutela della salute, nel diritto ad una casa dignitosa, all’istruzione e alla cultura, alle opportunità di lavoro, in quelli che sono il nucleo essenziale dei diritti umani (diritto a una casa, alla luce all’acqua, a respirare alla libertà di circolazione) il tutto in una società fatta di corpi intermedi, di associazionismo sindacale e di organismi di gestione sociale sui posti di lavoro, come a livello territoriale, a iniziare dai quartieri, costituiti dagli abitanti che partecipano alla gestione del territorio, facendo del loro ruolo sociale un tributo alla gestione partecipata della società, sottoposta al rispetto delle regole comuni che la comunità sceglie, dove sia garantita la tutela delle minoranze e quella delle diversità di genere e di appartenenza sociale. Una società inclusiva e dell’accoglienza dove i rapporti solidali vengono costruiti nel confronto dialettico e nella partecipazione di tutti alla gestione della vita sociale, dove la delega non sia priva di controlli e sia revocabile, dove la partecipazione diretta di tutti avvenga secondo le proprie possibilità e capacità. Non si tratta del vagheggiamento di una società ideale, ma di concreta partecipazione più facile da praticare nell’esperienza di ogni giorno che da teorizzare.

Gianni Cimbalo

[1] Il termine di democrazia illiberale venne usato da F. Zakaria The-rise-of-illiberal-democracy, “Foreign Affair”s, November/December, 1997