L’Est Europa e l’Italia tra paura del diverso e identità debole

Tutta l’Europa, posta di fronte al fenomeno dell’emigrazione, è scossa da una sensazione di paura e all’attenzione degli analisti assume importanza l’allarme percepito a prescindere dai dati reali. Sui dati statistici incontrovertibili che dimostrano il basso indice della popolazione migrante sul totale degli abitanti del continente prevale la percezione di un fenomeno vasto e incontrollabile che diffonde insicurezza. Le ragioni di quanto avviene fenomeno vanno spiegate indagando sulle cause profonde della crisi dell’identità degli abitanti autoctoni del continente europeo, sforzandosi di comprendere quali sono le ragioni che orientano le scelte delle popolazioni e tenendo conto che soprattutto con riguardo ai paesi dell’Est Europa dove questi timori sono più forti la percezione si trasforma nell’incondizionata adozione di scelte sovraniste e nella totale chiusura a una politica coordinata a livello U.E. sull’immigrazione.
Alle origini di questa profonda preoccupazione sta la crisi demografica che in misura crescente interessa la gran parte degli Stati d’Europa e comunque tutti quelli dell’Est del continente sulle cui cause poco si riflette. Eppure questo elemento che accomuna il nostro paese all’Est Europa è probabilmente una delle cause dell’estendersi di posizioni sovraniste anche all’Italia.

Calo demografico e paura della diversità

A livello generale studi approfonditi del problema dimostrano che il calo demografico è inevitabile, perché frutto del fatto che nel mondo sviluppato i figli si fanno meno, ovunque che questa scelta fa parte della valorizzazione dell’individuo ed è frutto di una storica evoluzione culturale. Certo non mancano le ragioni strutturali: dal punto di vista della psicologia sociale risulta limitante e parziale citare come prima causa della denatalità la crisi economica, prova ne sia che la natalità nei paesi del terzo mondo continua a crescere a ritmi molto sostenuti. E’ l’insicurezza della vita a stimolare in negativo la tendenza a riprodursi per assicurare la sopravvivenza della specie!
Nei paesi sviluppati, proprio a causa di un benessere economico più o meno diffuso, si procrea tendenzialmente per godersi la genitorialità e sentirsi più realizzati nella vita, non per mantenere la famiglia o accrescere la forza della nazione o ancora peggio dell’etnia. Si procrea quando farlo non turba le prospettive di vita e la tranquillità, il benessere, quando ci si sente pronti; con la conseguenza che qualcuno “pronto” non si sente mai e magari rinvia di anno in anno la scelta.
Si concepisce con amore un figlio quando si è disposti a dargli le attenzioni che merita, non si procrea pensando al mercato del lavoro, alla patria, alla nazione e al re, come avveniva – non a caso – all’epoca del trionfo dei nazionalismi. Più modernità e più benessere inducono a una minore procreazione, perché si possiede già tutto quello che ci serve e perché la concezione del sesso, del ruolo della donna e, conseguentemente, della vita cambia e non si avverte la presenza di altri esseri umani come un bisogno. Anzi e soprattutto la donna a cambiare e l’obiettivo è sempre meno “crescete e moltiplicatevi”!
Questa constatazione introduce un più generale problema sul ruolo delle religioni nella gestione del processo di riproduzione che è profondo e insieme complesso in quanto tutte, con formulazioni differenti,
tendono a promuovere sia l’unione matrimoniale che la famiglia e la riproduzione. Da qui lo scontro tra le politiche statali di programmazione demografica, anche in rapporto al ricorso legale all’interruzione della gravidanza e le polemiche sulla riproduzione assistita. Ciò non toglie che in Italia, come negli altri paesi industrializzati o che si avviano alla post industrializzazione, la denatalità è ormai strutturale e non contingente.
La crisi economica può forse influire marginalmente sul fenomeno, ma non ne è la causa. Ci possono essere semmai effetti di trascinamento.
Un tasso di fertilità di 1,35 è basso (ma negli anni 80 era ancora più basso), e porterà ad una diminuzione della popolazione indigena. Il tasso di fertilità è in calo anche fra le donne immigrati una volta che queste sono inserite nel contesto sociale del paese ricevente. È pensabile però che risalga in futuro, come negli anni 90-00. Le proiezioni a lungo periodo, per quello che valgono, prevedono una stabilizzazione della numerosità della popolazione su livelli comunque bassi nell’area europea. Questo fenomeno è ancora più diffuso, accentuato ed evidente nei paesi dell’Est Europa.

Trasformazioni istituzionali, emigrazione e crisi demografica.

In particolare nell’Est Europa la caduta dei sistemi politici precedenti al 1989 ha portato a una ristrutturazione delle forme istituzionali di Stato, all’insegna dei principi liberali. L’introduzione del libero mercato ha prodotto il progressivo abbattimento della legislazione sociale di sostegno al lavoro e una profonda crisi economica che ha indotto la parte più giovane e attiva della popolazione ad emigrare. In parte per altre ragioni lo stesso fenomeno si sta registrando in Italia dove negli ultimi 5 anni sono emigrati più di mezzo milione di giovani e il fenomeno è destinato a crescere.
Si può a ragione affermare che per risanare le loro economie i paesi dell’Est Europa (come per altri versi l’Italia) hanno collocato sul mercato internazionale del lavoro una parte significativa della loro forza lavoro, del loro proletariato industriale, delle loro donne dei loro giovani. Questo massiccio trasferimento di risorse umane da Est verso Ovest ha incontrato la domanda delle economie dei paesi occidentali che hanno attinto a questa risorsa per potenziare il loro sviluppo economico e per contrastare l’incapacità di crescita della propria popolazione per rispondere alle esigenze del mercato. Il vuoto lasciato da questa massiccia migrazione è sempre più evidente oggi, tanto che i paesi dell’Est Europa sentono il bisogno di adottare politiche demografiche incentivanti della natalità e questa esigenza sembra affacciarsi anche in Italia.
Ma ad Est l’emigrazione è stato solo uno dei fenomeni indotti dai mutamenti istituzionali. Con la fine del blocco sovietico è venuto meno e ha perso ogni giustificazione l’”aggiustamento” dei confini che ha avuto luogo dopo la seconda guerra mondiale, “aggiustamento” che a sua volta aveva inciso su una situazione precedente tutt’altro che definita nella corrispondenza tra ambito delle giurisdizione statale e nazione. Da qui un tentativo di riassetto delle identità e la tendenza al recupero di una corrispondenza tra compagine statale e effettiva consistenza della nazione, contraddizione che ha raggiunto il suo apice nei Balcani con la dissoluzione dell’entità federale Jugoslava ed è stata accompagnata in molte aree dalla “pulizia etnica”, al fine di cercare di estinguere la presenza di minoranze etniche e religiose nei diversi paesi.
Questo ulteriore fattore di destabilizzazione delle compagini statali preesistenti ad Est è ancora oggi alla ricerca di un equilibro e comunque ha prodotto una forte incertezza identitaria che spinge quei paesi a cercare di mantenere una fisionomia e un assetto etnico-religioso e linguistico fortemente omogeneo, vedendo nella richiesta di ogni singolo paese all’Unione Europea uno spazio economico utile al loro sviluppo piuttosto che la ricerca di una casa comune all’interno della quale nazionalismi, differenze etniche e religiose vengano superate. E’ per questi complessi motivi che l’adesione all’Unione dei paesi dell’Est viene vissuta in chiave sovranista e si accompagna al rifiuto verso l’accoglienza di quote anche minime di migranti, la cui presenza finirebbe per rimettere in discussione quella composizione omogenea e identitaria cercata al prezzo di un confronto duro che è sfociato a volte nello scontro armato, ancora vivo in Ucraina ai confini dell’Europa verso la Russia.
Dobbiamo renderci conto che si tratta di un sentire profondo e radicato del quale vanno comprese ragioni e cause per avviare una politica di superamento del timore e della paura, in quanto non v’è dubbio che le trasformazioni in atto sulla distribuzione della popolazione a livello planetario vanno affrontate con ben altra strategia, nella consapevolezza che nella storia non è la prima volta che l’Europa si trova oggetto di una migrazione proveniente da altre aree geografiche: questo avviene puntualmente quando in un’area del pianeta si stabiliscono condizioni migliori di vita rispetto ad aree più povere e meno sviluppate e nelle altre parti del mondo si muore di fame.
Sempre, fin dai tempi dell’impero romano travolto dalle invasione barbariche, la soluzione al problema delle difficoltà del vivere è venuta dall’assimilazione delle nuove presenze anche per effetto del fatto che, sia pur criticamente, la masse migranti aspirano a godere dei vantaggi e della qualità della vita delle popolazioni verso le quali dirigono il loro flusso.
Ciò non significa che in questo processo di osmosi le popolazioni autoctone non cerchino in tutti i modi di praticare politiche identitarie. E’ il pericolo di soccombere, la paura spesso più percepita che reale, certamente ingigantita, che spinge i portatori di una identità divenuta debole e insicura a riscoprirne le proprie radici, a fare di tutto per riproporle, affermarle e renderle manifeste attraverso comportamenti di diverso tipo tra i quali vanno annoverate tutte le pratiche tradizionali che vengono riscoperte e rinnovate – quando non create -, la valorizzazione del cibo, la scelta di modelli architettonici e l’uso del paesaggio, le abitudini di vita, l’appartenenza religiosa e le pratiche di tumulazione. E’ quello che sta avvenendo anche in Italia!
Questi comportamenti servono a marcare il territorio, per dimostrarne l’appartenenza secolare di questo a una determinata comunità, etnia, gruppo religioso; come strumento di rafforzamento della rivendicazione del possesso e del diritto a gestire in modo esclusivo quel territorio,; come prova del radicamento secolare che legittimerebbe l’esclusiva disponibilità delle aree contese a disposizione, come luogo originario e perenne di residenza, proprio di quelle tradizioni usi e costumi che sono funzionali ad affermare e che costituiscono la componente essenziale dell’identità.
Ciò detto lo sviluppo di queste riflessioni si impone per capire e per identificare possibili rimedi in quanto ciò che avviene ha delle cause e sono quelle che vanno rimosse iniziando con la comprensione delle ragioni dell’altro.

Gianni Cimbalo