L’EUROPA ALLA RICERCA DI SE STESSA

Apparentemente la partita sembra giocarsi fuori dall’U.E. in un piccolo paese che vorrebbe entrare nell’Unione ma non può, l’ex Repubblica di Jugoslavia: la Macedonia. Quello che è in gioco è se l’U.E. può crescere o se la Brexit imminente e le minacce dei vari populismi la costringeranno a contrarsi progressivamente e a perdere pezzi, come sembra debba accadere con l’Italia. Certo è in discussione la centralità della politica e dell’economia tedesca come motore dell’Unione, la sua strategia per la crescita e l’allargamento dell’Europa, gli interessi americani e quelli di Putin a veder distrutta l’Unione.

Sulle sponde del Vardar si gioca una partita del tutto sproporzionata rispetto all’importanza del paese. La Grecia pone il veto da anni alla richiesta macedone di ingresso nella NATO e nell’U.E. e pone come condizione che il paese cambi nome assumendo quello di Macedonia del Nord per distinguersi dalla Macedonia come parte dello Stato greco. Apparentemente il problema sembra essere specioso ma in realtà nasconde pretese macedoni su Salonicco e richieste della Chiesa Ortodossa Macedone non riconosciuta dalle altre Chiese ortodosse autocefale della propria giurisdizione su Salonicco.
Sembra, ancora in questo caso, di trovarsi di fronte a beghe di villaggio, ma i giochi son ben più complessi: dietro la Chiesa Ortodossa di Macedonia che si è proclamata autocefala sta oggi la Chiesa Ortodossa Bulgara che agisce su mandato della Chiesa Ortodossa Russa e quindi di Putin. Il leader russo vuole contrastare l’espansione della NATO e per questo motivo ostacola la soluzione del contenzioso con la Grecia sul cambio del nome del paese in Macedonia del Nord.
Il referendum indetto il 30 settembre per approvare l’accordo con la Grecia sostenuto dalla maggioranza dei partiti del Paese e dal Governo non ha raggiunto il quorum per potere essere valido e quindi toccherà al Parlamento risolvere il problema. L’Unione Europea per ora non può utilizzare l’ingresso macedone per arrivare alle elezioni del 2019, mostrando di poter continuare a crescere.

La strategia tedesca di allargamento dell’Unione.

Questa situazione di stallo danneggia soprattutto la posizione tedesca che vede la propria egemonia sull’area europea rimessa in discussione dall’attacco dei paesi sovranisti del gruppo di Visegrád ai quali si sono recentemente aggiunti Austria e Italia. Ne il vacillante asse franco-tedesco vale a compensare l’indebolimento germanico, a causa del ridursi dei consensi per Macron, in ragione delle sue politiche sociali.
Quello che è rimesso in discussione è il modello economico-finanziario tedesco di conquista ed egemonia sull’Europa iniziato da Elmut Koll annettendo la Germania orientale, dopo aver alimentato e diffuso la favola che l’economia della DDR era in una crisi irreversibile[1]. Va ricordato che il Trattato di Maastricht venne firmato il 7 febbraio 1992 ed entrò in vigore il 1º novembre 1993 accompagnato dall’adozione dell’euro come valuta comune a numerosi Paesi del continente.
La Germania beneficia più di ogni altro paese della moneta unica e riesce a mantenere un surplus di partite correnti a partire dal 2006. Si pensi che maggio 2018 la Germania ha registrato un surplus di 20,3 miliardi e nei primi cinque mesi dell’anno il surplus della bilancia commerciale tedesca è stato di quasi a 100 miliardi, Ciò è avvenuto malgrado che il cosiddetto Six-Pack entrato in vigore nel 2011 stabilisca che la differenza tra esportazioni e importazioni di un paese aderente all’U. E. non può essere superiore al 6% medio per tre anni. Se ciò avviene il paese interessato deve adottare provvedimenti per ridurlo. La Germania si è ben guardata dall’adempiere ed ha invece preteso dopo la crisi del 2008 politiche di austerity che hanno prodotto la compressione dei salari, la riduzione dei diritti e la concentrazione della ricchezza verso un numero ristretto di soggetti. Concentrando nel paese le produzioni ad alto contenuto tecnologico e innovativo l’imprenditoria tedesca ha facilitato il decentramento produttivo verso le aree marginali d’Europa alla ricerca di bassi salari e di una competizione impostata sulla riduzione del costo del lavoro. Il paese ha poi avviato a soluzione la questione demografica attraverso la cosiddetta “politica dell’accoglienza”.

La Germania e l’immigrazione

L’iniziativa della Merkel di accogliere più di un milione di migranti a prima vista appare sconsiderata e foriera di squilibri, anche per aver fornito la base sociale a Alternative für Deutschland, ma a ben guardare siamo di fronte a qualcosa di molto più complesso.
Premesso che la base sociale il partito dell’estrema destra l’avrebbe avuta comunque soprattutto nei Länder orientali danneggiati da un’unificazione selettiva e sperequata, la Germania ha praticato una immigrazione selettiva, scegliendo di importare per larga parte la classe media siriana, dotata di una buona istruzione di base e soprattutto sta provvedendo con un discreto successo a portare avanti programmi di integrazione attraverso l’insegnamento forzoso della lingua, impartendo lezioni sul sistema istituzionale e sulla storia tedesca, programmando la distribuzione dei migranti sul territorio.
Certo non tutto e perfetto e ci sono molti problemi. L’insediamento dei migranti ha prodotto in alcuni casi come a Berlino, dove il fenomeno è più evidente, quartieri ghetto e marginalizzato aree delle città. Molti problemi ci sono nei Länder orientali, soprattutto in situazioni di prossimità alle frontiere e non tanto con gli immigrati stanziali ma con quelli pendolari dei paesi dell’Est Europa, primi fra tutti con quelli provenienti dall’Ucraina. Ma si tratta di problemi strutturali del mercato del lavoro tedesco che accanto agli operai specializzati e agli addetti di fascia medio alta nei settori dell’informatica e della burocrazia impiegatizia può disporre di un esercito industriale di riserva illimitato, disposto grazie agli aiuti sociali e a sussidi integrativi a continuare a lavorare per salari irrisori, in condizione di precarietà assoluta, alimentando un mercato del lavoro di fatto segmentato e duale.
Si tratta di contraddizioni che certamente emergeranno con riflessi anche elettorali; le hanno avvertiti pesantemente i socialisti della SPD che hanno visto ridursi il loro consenso per l’incapacità di rappresentare queste fasce di disaggio del nuovo proletariato o se si preferisce di proletariato disgregato e atomizzato, diviso in componenti etniche e linguistiche. Ne la Die Linke (estrema sinistra) o i Verdi sembrano capaci di raccogliere questa sfida, mentre invece i gruppi di estrema destra sembrano in grado di intercettare la protesta marginale delle fasce più disagiate di giovani tedeschi. Ciò avviene perché si sono create situazioni complesse che andrebbero esaminate separatamente.

Le componenti etniche dell’emigrazione in Germania

Su una popolazione totale di quasi 83 milioni nel 2016 i turchi in Germania sono circa 3 milioni (a questi vanno aggiunti circa un milione di musulmani di origine araba, albanese, bosniaca, ecc.) dei quali la metà detiene ancora la nazionalità turca; un milione circa risiede in Renania Settentrionale-Vestfalia e 500 mila nel Baden-Württemberg; numerose le comunità di Essen, Berlino e Amburgo, mentre il resto è distribuito più o meno equamente negli altri Länder. Le moschee delle quali essi dispongono sono più di 700 direttamente finanziate dal Governo turco che nomina anche gli imam con il benestare del Governo tedesco. Gestendo le moschee il Governo turco controlla e orienta i maggiorenti della comunità e la scelta di appaltare alle autorità di un altro paese le attività di culto di un numero così consistente di immigrati si sta rivelando un boomerang per le autorità tedesche, perché porta a dotare un altro Stato di capacità di controllo e di orientamento dei migranti e ne ostacola l’integrazione. L’errore sta per ripetersi con i siriani in maggioranza Alauiti, che si auto-identificano con gli sciiti duodecimani e riveriscono Ali, cugino e genero del profeta Maometto
Il Governo tedesco, come del resto anche quello belga (che ha conferito il controllo delle moschee del Belgio al Marocco) si dimostrano incapaci di capire le dinamiche interne all’islam in ordine al potere di orientamento che hanno le autorità politiche su quelle religiose. Ne consegue che la politica di relazioni con i culti nel paese va rivisitata se non si vogliono avere in futuro sgradite sorprese. La politica di gestione dei flussi migratori si rivela con il passar del tempo più complessa di quanto previsto.
In questo varco rischiano di potersi infilare Alternative für Deutschland e i cristiano bavaresi della Christlich-Soziale Union (CSU), posto che la SPD non si pone nemmeno il problema di rapportarsi a questa parte ormai stabile della popolazione tedesca ma lontana dagli interessi rappresentati dal partito e scarsi sono, salvo poche eccezioni, i contatti di Die Linke e dei Verdi con questa parte della popolazione. Tendenze comincia no a manifestarsi a favore della costituzione di partiti confessionali o etnici creando indubbiamente una frattura dal significato anche simbolico nella società tedesca.

Le elezioni europee del 2019 e una sconfitta annunziata

Poste queste premesse in vista delle elezioni europee del 2019 le posizioni dell’ Unionsparteien come di SPD e Die Linke appaiono deboli e prive di incisività e rischiano di lasciare il campo ad Alternative für Deutschland che costituisce parte integrante dei partiti sovranisti europei. Per contrastare questa politica occorrerebbe farsi carico del disaggio sociale, dare risposte coerenti e convincenti soprattutto all’elettorato giovane dei Länder dell’Est e ai migranti divenuti cittadini tedeschi a tutti gli effetti, ma i partiti del blocco istituzionale che fanno parte della coalizione al Governo rappresentano un blocco sociale che è quello coinvolto dalla partecipazione alla gestione delle aziende e destinatario principale del benessere sociale prodotto dall’attuale politica economica per cui i due elettorati non sono compatibili. A indebolire il gruppo sociale dominate potrebbe essere anche in Germania la richiesta di politiche securitarie, abilmente sollecitata, che trova nei ben pensanti e nei ceti sociali benestanti largo ascolto.
Die Linke e Verdi non sembrano aver condotto un’analisi attenta delle dinamiche sociali del paese e rischiano di non intercettare l’elettorato disposto a sostenere una politica sociale di apertura: le loro proposte in campo economico e sociale e relative alle politiche del lavoro sono deboli e povere di proposte e di capacità di innovazione Occorrerebbe proporre interventi radicali riguardanti la gestione del mercato del lavoro e le politiche di accesso al reddito, ma gli interessi consolidati anche nell’elettorato di sinistra appaiono molto cristallizzati e lontani dal saper cogliere le dinamiche sociali delle componenti più disagiate della popolazione.
Il programma politico di Corbin dovrebbe poter dare alla sinistra tedesca occasione di riflettere come anche le sconfitte del PD in Italia e del Partito Socialista in Francia dovrebbero servire quanto meno da monito.

Gianni Cimbalo

[1] In un recente studio Vladimiro Giacché, Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, 2013, dimostra, dati alla mano, che l’economia della DDR non era affatto in crisi e che l’unificazione tedesca è stata il frutto di una strategia di annessione senza la quale non sarebbe stato possibile dar vita all’euro.