IL SOVRANISMO AL GOVERNO E LE POLITICHE DELLA DESTRA

Le iniziative assunte dal ministro degli interni italiano in materia di immigrazione sembrano trovare un consenso crescente in molti italiani affetti “da ce l’ho durismo”, che è una malattia tipica delle persone insicure della loro virilità. Chi è virile – infatti – non ha bisogno di dimostrarlo, ma semplicemente reagisce alle continue umiliazioni e vessazioni. La maggioranza degli italiani, costretti alla povertà da un sistema economico predatore, dovrebbero dunque combattere sul fronte del diritto al lavoro, al salario, al benessere, piuttosto che prendersela con i più poveri, con i migranti, con i nomadi e le persone maggiormente sfruttate.

Il problema è oggi costituito dal fatto che è passata una lettura della crisi sociale del paese che ne attribuisce la responsabilità ai migranti, tesi che la destra ha veicolato nell’incapacità della sinistra nel suo complesso di rispondere ai problemi di inclusione sociale dei migranti con dati di fatto e argomentazioni serie. E’ perciò che ci proponiamo di sviluppare un’analisi che offra invece una lettura alternativa di classe e documentata del problema migratorio nel suo complesso.
Per analizzare quanto sta’ avvenendo occorre partire dalla crisi demografica che attraversa l’Europa e che ha profondi effetti anche in Italia. Se si guarda ai dati l’Europa occidentale, a partire dagli anni ’70 – e cioè dal raggiungimento di una fase alta di sviluppo economico – ha iniziato a percorrere una fase demografica discendente, caratterizzata dalla diminuzione delle nascite e dal progressivo aumento della popolazione anziana su quella giovane. Il tasso di decrescita della natalità è aumentato senza che fosse avvertito a livello di massa perché compensato da una forte immigrazione dall’Est Europa.

La migrazione dai paesi dell’Est

La dissoluzione del blocco sovietico, iniziata nel 1989, ha avviato il progressivo ricongiungimento degli Stati dell’Est Europa con quelli occidentali del continente. In una prima fase il processo sembrava caratterizzato da un’assimilazione dei paesi dell’Europa orientale a quelli occidentali, anche perché, impegnandosi ad osservare i criteri di Copenaghen, i paesi dell’Est ambivano ad aderire all’Unione Europea.
Ben presto però, spinta da una situazione economica drammatica, si realizzava una gigantesca migrazione verso l’occidente, per l’Italia plasticamente rappresentata dalle navi stracolme di emigranti provenienti dall’Albania (negli anni circa mezzo milione di persone). Per trovare un fenomeno simile bisogna ritornare agli albanesi arbëreshë che però si calcola non fossero più di 30 -40 mila, stanziatisi felicemente nel sud dell’Italia cinque secoli fa. In una fase successiva si riversarono in Europa occidentale – e quindi anche in Italia – altre popolazioni dell’Est Europa; in Italia prevalentemente rumeni, tanto che oggi questi e non i musulmani nel loro insieme, costituiscono la comunità non italiana più numerosa del paese.
Dopo una fase di difficile ambientazione ora gli immigrati dall’Est Europa si avviano a una piena integrazione: sono di carnagione chiara e hanno abitudini, religione, tradizioni abbastanza compatibili con quelle autoctone, quindi nei loro confronti si esercita un “razzismo attenuato” e in parte buonista. A catalizzare le ostilità verso i nuovi venuti sono le popolazioni di tradizione musulmana, diverse nelle abitudini, nel colore della pelle, nel modo di vestire, spesso nella religione: c’è né abbastanza per attirare l’attenzione dell’attuale Ministro degli Interni, afflitto da visioni taurine, che notoriamente scambia il nero per il rosso.
Per la prima ondata migratoria proveniente dall’Est l’integrazione è stata relativamente facile perché queste popolazioni erano spesso dotate di istruzione superiore, erano in parte costituite da lavoratori dell’industria, in parte da ex contadini destinati ad andare a svolgere i mestieri più umili, come quello di badanti. Ma se l’esodo, soprattutto di giovani provenienti dall’Est, ha prodotto nei paesi d’origine un alleggerimento della situazione economica, grazie alle rimesse dei migranti e alla diminuzione della popolazione destinataria di servizi, ha accentuato una crisi demografica che si è fatta più ampia via via che la migrazione prima pendolare e stagionale è divenuta stanziale. Nel periodo che va dal 1991 al 2000 nell’Europa orientale e centrale, la migrazione ha ridotto la popolazione di circa l’11% nei 16 paesi precedentemente socialisti.[1].
In alcune aree dell’Est Europa questa crisi ha poi assunto caratteri propri. Ad esempio nelle Repubbliche baltiche ha preso la via del rafforzamento di posizioni anti russe che hanno portato alla riscoperta dei valori nazionali ed etnici (rivoluzione cantante [2]) e all’adozione di provvedimenti legislativi sull’obbligatorietà dell’adozione e conoscenza della lingua nazionale.
L’emigrazione ha pesantemente coinvolto anche l’Europa centrale e i Balcani occidentali con un esodo che ha accentuato la crisi demografica già presente a causa della caduta del tasso di natalità. Per cause diverse lo stesso fenomeno si è prodotto più tardi negli Stati nati dalla dissolta Repubblica Federale jugoslava, con il risorgere delle lingue nazionali delle diverse Repubbliche e il rafforzamento delle politiche identitarie. La guerra etnica che ha coinvolto larga parte di questi territori non solo ha stimolato l’emigrazione, ma ha inciso sul numero e la distribuzione della popolazione e ha anche qui prodotto un mutamento delle politiche demografiche incentivate per cercare d’incrementare numericamente la popolazione e contrastare l’“inferno demografico” che coinvolge larga parte del continente e porta a una crescente diminuzione delle nascite nella gran parte dei paesi europei.
La soluzione e il superamento della crisi veniva individuato da alcuni paesi nel rafforzamento della consistenza delle popolazioni autoctone e nell’adozione di politiche identitarie che facessero da baluardo alla soluzione dei problemi sociali, tanto che i governi e i popoli finivano per adottare comportamenti a dir poco ambivalenti. Da un lato si coltivava e si cercava l’identità territoriale, anche attraverso la pulizia etnica, come nei territori dell’ex Jugoslavia, si ergevano frontiere a difesa di questa identità, per poi richiedere di aderire all’Unione Europea avendo come obiettivo il completamento della transizione e l’uscita dalla crisi economica, con conseguente abbattimento delle frontiere e libera circolazione delle persone e dei capitali.
In questa situazione così disastrosa anche dal punto di vista demografico l’esplosione del fenomeno migratorio, che ha visto enormi masse di popolazione riversarsi in Europa, ha trovato i paesi dell’Est impreparati e li ha indotti oggi ad adottare politiche di respingimento dei migranti, tanto più che l’insediamento dei nuovi venuti avrebbe portato alla rinascita di enclave etnico-religiose distrutte appena pochi anni prima a costo di guerre interetniche e intereligiose. Il problema quindi e costituito non solo e non tanto dal numero dei migranti da accogliere perché nel suo complesso l’Europa accoglie tante persone quante il solo Libano ma dall’assenza di politiche di integrazione e dall’adozione di adeguate norme di convivenza e capaci di garantire il pluralismo culturale etnico e religioso.
Siamo di fronte a un insieme di fattori contrastanti che nel loro complesso deprimono numericamente l’entità della popolazione, ma il quadro sintetico e sommario appena tratteggiato presenta sufficienti elementi comuni che spiegano la rinascita del nazionalismo e il radicarsi della convinzione che solo l’adozione di politiche sovraniste costituirebbe la soluzione ai problemi. A farne le spese sono – come sempre accade – le fasce più deboli di popolazione a cominciare dalle donne.

Diritti civili e emancipazione della donna nei paesi del gruppo di Visegrád.

La politica sovietica, repressiva sul terreno delle libertà politiche, aveva concepito la “legalità socialista” come caratterizzata sul piano sociale dell’attenzione verso i problemi delle classi lavoratrici e della donna. Da qui l’imposizione anche ai paesi satelliti dell’adozione di misure di tutela del lavoro femminile, dell’accesso delle donne agli studi superiori e ai lavori di solito riservati agli uomini, di tutela della maternità, fino a promuovere la procreazione responsabile e l’introduzione dell’aborto legale, avvenuta per la prima volta nella Russia sovietica del 1920. Prova ne sia che se si prende in esame la legislazione in materia precedente al 1989 dei paesi del blocco sovietico si riscontra la presenza in generale di una legislazione socialmente attenta ai valori di promozione del ruolo della donna e posta a tutela della maternità responsabile, basata sull’autodeterminazione della donna.
Con la fine della dominanza sovietica e con il rinascere della presenza e del ruolo sociale delle confessioni religiose si verifica una significativa inversione di tendenza, a cominciare da quei paesi, come la Polonia, che da sempre, a causa dell’appartenenza largamente maggioritaria della popolazione alla Chiesa cattolica, aveva praticato una politica restrittiva nei confronti delle donne in materia di accesso a una maternità responsabile.
Ma le politiche sovraniste dispiegano la loro efficacia ancor di più in Ungheria che adottò una politica di pianificazione familiare che si tradusse in una sorta di “procreazione coatta”, repressiva dei diritti delle donne. Le famiglie vennero incoraggiate alla procreazione se la coppia ha contratto un matrimonio legale e regolare. Dal 2015 il governo ungherese ha messo in atto una deduzione fiscale della durata di due anni per le giovani coppie, al fine di stimolarle a contrarre matrimonio. Possono accedere a tale beneficio esclusivamente le coppie stabili, sposate una volta. A coordinare e indirizzare le politiche della famiglia provvede la Segretaria di Stato per la Famiglia, istituita nel 2010. In caso di gravidanza si possono ottenere aiuti fin dai primi 90 giorni di gestazione intrauterina con il primo figlio e lo Stato acquista buoni del Tesoro Pubblico di 19 anni di durata, per ogni nuovo nato, con un esborso dell’Erario Pubblico, il cui valore può essere incrementato dai genitori. Si ricevono aiuti per l’acquisto di una casa, congedi parentali per la crescita del neonato, facilitazioni nell’orario di lavoro, garanzie per il mantenimento del posto di lavoro. Il codice del lavoro prevede che le lavoratrici mantengano la possibilità di lavorare mezza giornata finché il bambino non abbia raggiunto i 3 anni, o fino ai 5 se si tratta di famiglie numerose. Questo permesso è unito a una sovvenzione che permette il lavoro part-time.
L’incremento della natalità ottenuto non è tuttavia sufficiente ad arrestare la progressiva diminuzione della popolazione, come pure non è stato sufficiente cercare di attirare in Ungheria, attraverso la concessione della cittadinanza, le minoranze di lingua e cultura ungherese disseminate nei paesi confinanti. Queste hanno preferito emigrare in Germania, attirate da migliori salari e condizioni di lavoro, piuttosto che rifluire verso la “prigione magiara” dalla quale sono emigrati negli ultimi anni almeno mezzo milione di persone, prevalentemente giovani e in possesso di una buona formazione professionale. Il Governo ungherese fa finta di ignorare che nell’Unione europea resiste, per ora la libera circolazione dei cittadini e pertanto ci si sposta dove migliori sono le condizioni di lavoro e più è garantita la libertà e un tenore di vita accettabile,
L’etnia ungherese rischia l’estinzione e per il governo i problemi demografici dell’Ungheria vanno risolti alzando il tasso di natalità.

La narrazione della destra dei problemi demografici.

Dunque anche l’Italia ha un problema demografico: la popolazione invecchia le nascite diminuiscono e negli ultimi anni circa 500 mila giovani hanno abbandonato il paese in cerca di lavoro all’estero. Nella visione della destra devono risolverlo gli italiani, mobilitandosi per procedere alla procreazione autoctona, ma con famiglie “regolari” e stabili. E pertanto no alle famiglie arcobaleno, no alle coppie di fatto, si agli incentivi alla natalità, asili gratuiti per gli italiani, incentivi fiscali, ecc.: una forma mascherata di tassa sul celibato. E’ per questo motivo che la Lega ha rivendicato per se e ottenuto il Ministero per la famiglia che assume in quest’ottica un valore strategico per la sua politica.
Non importa se queste scelte cambiano il ruolo sociale della donna che viene vista esclusivamente nella sua funzione di fattrice, di procreatrice non di persona umana che vuole realizzare se stessa. La conseguenza più immediata è l’attacco alla legge sull’interruzione della gravidanza e sull’autodeterminazione della donna, da non fare subito come il maldestro Ministro della famiglia propone, ma dopo che il suo collega agli interni ha mediaticamente bloccato l’emigrazione dei “neri e geneticamente delinquenti”, come si sta apprestando a fare con abilità mediatica.
Oggi, con l’emergere di tendenze sovraniste in campo politico, la modifica della legislazione in materia di interruzione della gravidanza viene brandita come una clava sulla testa delle donne, richiamate al loro ruolo di strumento della riproduzione e di riequilibrio del rapporto demografico tra le popolazioni. L’esigenza di disporre di una crescita della popolazione che possa compensare i decessi e accrescere la componente giovane e attiva dei cittadini di ogni paese, privilegia la “produzione” di popolazione autoctona e comprime progressivamente, anche se con forti resistenze, il diritto di autodeterminazione della donna in materia riproduttiva. Le ragioni di questa politica sono solo in parte economiche, ma soprattutto sociali, razziali ed etniche e usano le pulsioni delle comunità religiose e le ragioni etiche di chi si oppone all’interruzione della gravidanza per imporre una stretta regressiva sul piano culturale e politico, nell’illusione di poter per questa via arrestare la crescita del pluralismo e delle società multiculturali o pluriculturali e multietniche.
Vi è coscienza, nelle posizioni sovraniste di quando gli strumenti di comunicazione sociale e la crescita costante e inarrestabile degli scambi economici e culturali sia veicolo di trasmissione non solo delle idee ma delle identità, e di quanto quindi questo contrasto alla contaminazione sia oggi irrealistico, impossibile e contro la storia nelle condizioni date.. Da sempre la difesa dei diritti dei più deboli, e tra questi certamente quelli delle donne – perché non vi è dubbio che la gravidanza avviene nel loro corpo – ha contribuito alla crescita della tutela del diritto d’uguaglianza ed è perciò che va sostenuta a beneficio di tutta l’umanità.
Occorre perciò arrestare a tutti i costi gli spostamenti di popolazione e impedire la mobilità dei cittadini anche all’interno dell’Unione, abrogando o modificando profondamente, Schengen e non solo in funzione anti emigrazione, nella linea inaugurata dalla Brexit. Si tratta di un obiettivo non esplicitato fino in fondo ma che emerge con progressiva chiarezza e che accomuna tutte le forze sovraniste.

L’assenza della sinistra

Non è un caso che a sinistra manchi totalmente la coscienza di questi problemi e la lucidità per trarre dalle premesse sovraniste le logiche conseguenze: da qui l’assenza di una risposta a politiche aggressive e spettacolari che attraggono e coinvolgono l’opinione pubblica. Pertanto la politica una politica sull’emigrazione che si basi esclusivamente sui respingimenti (Minniti) non basta ed è perdente non solo perché a proposito dell’emigrazione occorre programmare delle quote d’ingresso e dei canali protetti, bisogna prevedere strutture per l’integrazione, corsi di alfabetizzazione linguistica e soprattutto una legislazione del lavoro paritaria e uguale per tutti che tuteli dal caporalato e dalla creazione di mercati differenziati di manodopera, ma perché occorre ribadire con fermezza la scelta a favore della libera circolazione all’interno dell’Unione. La conseguenza inevitabile è il ritorno alle frontiere e agli Stati nazionali che i sovranisti vogliono.
Il problema migratorio non si affronta e non si risolve senza una politica globale che affronti insieme i problemi della povertà e dell’assenza di lavoro di tutti perché il mercato del lavoro va governato. Occorre impedire l’emigrazione forzata dei giovani creando lavoro attraverso investimenti sulle infrastrutture, riformando il mercato del lavoro, rafforzando le tutele e mantenendo così anche i diritti delle donne, e tra queste il diritto all’autodeterminazione in materia di procreazione responsabile. La politica di chiusura delle frontiere è sbagliata, impraticabile, inefficace.
Bisogna far comprendere che i problemi non sono tra loro separati e che non si possono giocare i diritti delle donne contro quelli dei migranti, i diritti dei giovani contro gli anziani, i diritti dei migranti contro i lavoratori autoctoni: occorre creare le condizioni per un fronte unico dei soggetti alla dominazione del mercato per prospettare soluzioni organiche e coordinate ai diversi problemi. Certo, è difficile, ne siamo consapevoli, ma non è negando la complessità dei problemi che questi magicamente si risolvono e soprattutto occorre sottolineare in ogni momento che la soluzione proposta dalla destra è illusoria e inconsistente. Per farlo bisogna mettere mano a iniziative sul territorio e costruire mattone per mattone l’alternativa, promuovendo un’organizzazione dei rapporti sociali armonica e positiva contro le tante negatività, l’odio seminato e praticato, la violenza nei confronti di donne e uomini, siano essi autoctoni o migranti.

Gianni Cimbalo

[1] Vedi: A. Adveev, T. Eremenko, P. Festy, J. Gaymu, N. Le Bouteilec, S. Springer, Populations et tendances démographiques des pays européens (1980-2010) «Population», 2011/1 (Vol. 66). Il decremento di popolazione è molto alto nei paesi baltici e in Bulgaria e Romania: sui Balcani: J-A. Dérens, L. Geslin, Cet exode qui dépeuple les Balkans, «le Monde dipl.», juin 2018, 12-13; G.-F. Dumont, Perspectives démographiques et prospective géopolitique, «Les Grands Dossiers de Diplomatie», n° 28, août-sept., 2015.
[2] “Rivoluzione cantante”, è il nome utilizzato per riferirsi agli eventi, compresi tra il 1987 e il 1991, che portarono alla formazione di Estonia, Lettonia, Lituania come Stati indipendenti. Il 23 agosto del 1989, nel 50° anniversario del Patto Ribbentrop-Molotov, i Fronti popolari dei tre Stati baltici organizzarono un’enorme dimostrazione di unità. Una catena umana, la cosiddetta Via baltica, venne formata da cittadini non russi che si tennero pacificamente per mano lungo 600 km, da Tallin a Riga, a Vilnius. In quella occasione le comunicazioni rapide e capillari consentite dalla nascente rete informatica, supportata da radio locali, si rivelò essenziale.