CONTROSENSO

Una volta, non molti anni fa, l’accusa di “riformismo” era lanciata verso chi, rifiutando la rivoluzione, pensava di portare il proprio paese al socialismo attraverso modifiche (riforme) sempre più spinte e strutturali fino alla realizzazione, in maniera indolore, della società senza classi.
Quel contesto oggi pare impossibile persino da capire. La sinistra si collocava “naturalmente”, all’interno di una diversità di sfumature, nell’alveo del superamento del capitalismo, percepito come ideologia vecchia, perdente e superata.
La politica italiana non temeva di confrontarsi con le politiche di nazionalizzazione.
Ovviamente non tutto era rose e fiori, anzi. La strategia della “tensione”, che studi più recenti confermano essere stata una complessa dinamica di collegamenti atlantici, neofascisti e istituzionali,[1] aveva proprio per obiettivo la Costituzione italiana e il rischio “comunista”.
Tuttavia le bombe dimostrano anche il timore di una sinistra ampia e diffusa nel paese che pareva avere una reale egemonia ideologica.
Finito quel contesto (e cessate, nello stesso tempo anche le bombe) si è verificato un fenomeno che ha caratteristiche internazionali e non certo solo italiane.
La sinistra, conservando l’attenzione per i diritti “civili” tipica dei “Liberal” d’oltreoceano, ha cessato di considerare il capitalismo come un fenomeno socio-economico storicamente determinato (e storicamente trasformato) per farne invece una specie di immutabile ed eterno stato di natura.
Qualcosa che non è non solo analizzabile ma neppure discutibile.
In questa vera e propria cessione di tutte le armi all’avversario anche il linguaggio si è conseguentemente trasformato.
Così il termine “riformismo” da via pacifica per la transizione al socialismo è diventato il mantra per “facilitare” in ogni modo il piano lucido e algido del capitale sempiterno.
Ovviamente, seguendo una strada a loro non ignota, i componenti della sinistra ex-ortodossa hanno provveduto a cambiare anche il passato, richiamandosi ad un liberalismo riformista (“antifascista”) laddove il povero Gobetti, da liberale, aveva invece in grande simpatia e attenzione Gramsci e l’occupazione delle fabbriche.
In questo contesto “sinistra riformista” è un concetto che va tradotto, dalla neolingua del capitale, in “sinistra imperiale” o “neoliberale” laddove lo Stato è piegato non più ai bisogni delle classi sociali (delle quali si declama la fine) ma ai bisogni del capitale.
La stessa deriva ideologica è scritta a chiare lettere nella Costituzione UE, in un compatto insieme monetarista-liberale.
Beninteso, sbaglieremmo di grosso se scambiassimo questi aspetti, per certi versi epocali, con una qualche forma di “fascismo”. Si tratta infatti dell’esatto contrario: ovvero delle scomposizione e parcellizzazione della società in individui desideranti e solitari atti al massimo godimento consumistico, che mai si farebbero intruppare in compagini politiche di qualche colore che non sia quello dei gadget del consumo illimitato.
Il fascismo e l’imperialismo sono lasciati al “fuori”, nella miseria reale e non postmoderna che rimane al di là della fortezza europea, condizione necessaria affinché il “benessere” rimanga al di qua.
Il problema che sorge in questa fase è però lo stesso che si trovò ad affrontare la Germania nel 1933, ovvero, stante l’impossibilità di competere con l’imperialismo già esistente, si rende necessario colonizzare l’interno.
Questa caratteristica è già da tempo operante con la distruzione del mondo del lavoro e dei diritti sociali, laddove quelli “individuali” vengono aumentati con il paradosso davvero liberale di un individuo del tutto politically correct ma che può essere lasciato tranquillamente morire di fame (non possiamo dire “negro”, ma possiamo trattarvi come negri).
Per dire, nulla di nuovo sotto il sole.
Nel frattempo, in questa situazione, riemergono le vere destre fasciste (nostalgia che gli stessi neofascisti avevano abbandonato alla fine degli anni ‘70) le quali si pongono adesso come argine al capitale (ovvero quello che avrebbe dovuto essere il campo della sinistra) anche se con il corollario di razzismo, violenza, negazione dei diritti “individuali” (i quali, come abbiamo visto, non paiono così solidamente fondati).
Sicuramente all’italiano mediamente colto e “benestante” (ovvero che porta uno stipendio a casa) questa deriva rozza e becera sembrerà una boutade, una bolla di sapone.
Il problema è che questo italiano non rappresenta più il paese e, anzi, rappresenta una minoranza.
Ovvero la “sinistra imperiale” ha tagliato i rami sui quali poggiava. Tutto il percorso fatto dal PCI, teso ad integrare i ceti medi in una forza moderatamente di sinistra si è capovolto in una tortuosa via che i ceti medi li ha dis-integrati.
Oggi chi vota PD, ad esempio, fa parte di una minoranza smarrita e pseudo-colta che pensa ancora di essere nel solco della sinistra storica (e in parte è maledettamente vero) e crede che la “destra” non possa avere il consenso reale, e non solo delle classi medie.
Sarà per loro un brutto risveglio.
Sono quindi da guardare con attenzione una serie di fenomeni emersi in questi ultimi anni in Spagna (Podemos) in Francia (Malenchon), in USA (Sanders), in GB (Corbyn). Tutti hanno iniziato a considerare diversamente la situazione reale e tutti sono tornati a parlare di socialismo (con sfumature ovviamente diverse).
In Italia, patria del più antico partito socialista, questo dibattito è non cominciato. I 5S sono ormai diventati una forza della destra liberista, il PD è un partito defunto pseudo-personale (d’altronde per fare come Berlusconi ci vogliono anche i soldi di Berlusconi, forse a Renzi questo non l’avevano detto) orientato verso un cupio dissolvi che lo porterà nell’abbraccio con Forza Italia. A destra Fratelli d’Italia è superato da Casa Pound e Salvini fa il liberista-nazionalista (ruolo in cui probabilmente non crede neppure lui).
La frantumazione a”sinistra” (che 30 anni fa sarebbe stata la destra) del PD è un evento, seppure politicamente non rivoluzionario, tatticamente rilevante, non fosse altro per alcune parole impegnative che si sono enunciate.
Se per i tempi che corrono essere riformisti (nel senso originario) diventa quasi come assaltare il Palazzo d’Inverno significa che non siamo messi molto bene, ma probabilmente il peggio non è ancora arrivato.
Se potessimo avere un vocabolario magico dovremmo invece riportare le parole al loro significato originario e tornare ad usare la parola “riformismo” nel suo senso naturale.
Anche perché probabilmente dovremmo scegliere di nuovo fra socialismo o barbarie.

Andrea Bellucci

[1] Vedi M. Dondi, L’ eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, 2015.